Discorso di Alcide De Gasperi alla conferenza di pace di Parigi

Il Discorso di Alcide De Gasperi alla conferenza di pace[1] fu pronunciato il 10 agosto 1946 a Parigi, dal Presidente del Consiglio dei ministri italiano, in relazione alla bozza del Trattato di Parigi fra l'Italia e le potenze alleate, che mise formalmente fine alle ostilità tra l'Italia e le potenze alleate della seconda guerra mondiale.

Alcide De Gasperi

In questo discorso De Gasperi ribadisce il contributo dato dall'antifascismo italiano nella sconfitta della Germania nazista e critica duramente la cessione di territori orientali alla Jugoslavia e la soluzione alla questione triestina proposti dalle potenze alleate e associate, disposizioni ritenute non conformi ai principi del trattato.

Presupposti modifica

La conferenza di pace viene aperta il 29 luglio 1946 e proseguirà sino al 15 ottobre 1946. Le clausole principali concordate tra le potenze vincitrici, tuttavia, erano già note in Italia sin dal giorno di apertura della conferenza, grazie a un comunicato ANSA emesso lo stesso giorno:

"Londra - 29 Luglio 1946.

La frontiera italiana del 1º gennaio 1938 subirà le seguenti modifiche:

De Gasperi giunge a Parigi il 7 agosto 1946.

Passaggi fondamentali modifica

De Gasperi ricorda, dopo una breve introduzione, che i termini dell'accordo erano già stati faticosamente definiti dalle potenze vincitrici in base a criteri che avevano considerato l'Italia un paese ex-nemico, e questo, per un antifascista come lui, risultava un fatto penoso.

«Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l'essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.

[...] Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le sue aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire.[4]»

Lo statista italiano aggiunge inoltre che il sacrificio dell'Italia avrebbe avuto un compenso, se almeno il trattato si fosse posto come strumento di ricostruzione e cooperazione internazionale, e se l'Italia fosse stata ammessa nell'ONU in base a un principio di uguaglianza.

«Un'Italia che entrasse, sia pure vestita del saio del penitente, nell'ONU, sotto il patrocinio dei "quattro", tutti d'accordo nel proporre di bandire nelle relazioni internazionali l'uso della forza (come proclama l'art. 2 dello Statuto di San Francisco) in base al "principio della sovrana uguaglianza di tutti i membri", com'è detto allo stesso articolo, tutti impegnati a garantirsi vicendevolmente "l'integrità territoriale e l'indipendenza politica" tuttora potrebbe essere uno spettacolo non senza speranza e conforto. [...] Si può credere che sia così? Evidentemente ciò è nelle vostre intenzioni, ma il testo del trattato parla un altro linguaggio.[4]»

De Gasperi critica inoltre la soluzione data al problema triestino attraverso la creazione di un Territorio Libero di Trieste, formalmente indipendente, ma sostanzialmente ostaggio delle potenze estere.

«Come sarà possibile, obiettano i triestini, mantenere l'ordine in uno Stato non accettato né dagli uni, né dagli altri, se oggi, anche gli alleati, che pur vi mantengono forze notevoli, non riescono a garantire la sicurezza personale? [...] Come farà l'O.N.U. ad arbitrare e ad evitare che le lotte politiche interne assumano carattere internazionale? Voi rinserrate nella facile gabbia di uno statuto due contendenti, con razioni e copiosi diritti politici, e poi pretendete che non vengano alle mani, e non chiamino in aiuto gli slavi schierati tutto all'intorno ad otto chilometri di distanza e gli italiani che tendono il braccio attraverso un varco di due chilometri?[4]»

Il capo del governo italiano fa presente che l'81% del territorio della Venezia Giulia sarebbe stato assegnato agli jugoslavi, rinnegando anche una linea etnica più interna che l'Italia si era dichiarata disponibile ad accettare e addirittura la Carta Atlantica che riconosceva alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali; né tralascia di citare, come esempio non imitato, l'accordo in corso con l'Austria – che poi diverrà l'Accordo De Gasperi-Gruber – per l'autonomia delle popolazioni locali.

«[...] voi avete dovuto aggiudicare l'81 per cento del territorio della Venezia Giulia agli jugoslavi (e anche essi se ne lagnano come di un tradimento degli alleati e cercano di accaparrare il resto a mezzo di formule giuridiche costituzionali del nuovo Stato); avete dovuto far torto all'Italia rinnegando la linea etnica; avete abbandonato alla Jugoslavia la zona di Parenzo e Pola senza ricordare la Carta atlantica che riconosce alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali; anzi, ne aggravate le condizioni stabilendo che gli italiani della Venezia Giulia passati sotto la sovranità slava, che opteranno per conservare la loro cittadinanza, potranno entro un anno essere espulsi e dovranno trasferirsi in Italia abbandonando la loro terra, la loro casa, i loro averi. Inoltre i loro beni potranno venire confiscati e liquidati come appartenenti a cittadini italiani all'estero, mentre gli italiani che accetteranno la cittadinanza slava saranno esenti da tale confisca. L'effetto di codesta vostra soluzione è che, fatta astrazione del territorio libero, 180 mila italiani rimangono in Jugoslavia e 10 mila slavi in Italia (secondo il censimento del 1921); e che il totale degli italiani esclusi dall'Italia, calcolando quelli di Trieste, è di 446 mila; nè per queste minoranze avete minimamente provveduto, mentre noi in Alto Adige stiamo preparando una generosa revisione delle opzioni, per il quale è stato già raggiunto un accordo su un'ampia autonomia regionale da sottoporsi alla Costituente.[4]»

De Gasperi conclude ribadendo che la veste di ex-nemico delle potenze alleate democratiche non fu mai quella del popolo italiano e riaffermando la fede nella repubblica democratica nata dalle ceneri della guerra nonostante le clausole ingiuste del trattato.

«Signori ministri, signori delegati: per mesi e mesi ho atteso invano di potervi esprimere in una sintesi generale il pensiero dell'Italia sulle condizioni di pace, ed oggi ancora, comparendo qui nella veste di ex-nemico, veste che non fu mai quella del popolo italiano, dinanzi a voi affaticati da lungo travaglio o anelanti alla conclusione ho fatto uno sforzo per contenere il risentimento e dominare la parola, onde sia palese che siamo lungi dal volere intralciare, ma intendiamo costruttivamente favorire la vostra opera in quanto contribuisca ad un assetto più giusto del mondo. Chi si fa interprete oggi del popolo italiano è combattuto da doveri apertamente contrastanti. Da una parte egli deve esprimere l'ansia, il dolore, l'angosciosa preoccupazione per le conseguenze del trattato, dall'altra riaffermare la fede della nuova democrazia italiana nel superamento della crisi della guerra e nel rinnovamento del mondo operato con validi strumenti di pace.[4]»

Note modifica

  1. ^ Filmato della Settimana INCOM
  2. ^ Corrispondono a 1,231 miliardi $, oppure 1,142 miliardi di €, valuta 2016.
  3. ^ Dal comunicato diramato dall'Ansa il 29 luglio 1946, ore 23.30
  4. ^ a b c d e Testo del discorso (PDF), su seieditrice.com. URL consultato il 3 gennaio 2016 (archiviato dall'url originale il 16 aprile 2014).

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