Giuditta che decapita Oloferne (Artemisia Gentileschi Firenze)

dipinto a olio su tela di Artemisia Gentileschi

Giuditta che decapita Oloferne è un dipinto a olio su tela (146×108 cm) realizzato nel 1620 circa dalla pittrice italiana Artemisia Gentileschi. È conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze.

Giuditta che decapita Oloferne
AutoreArtemisia Gentileschi
Data1620 cr.
Tecnicaolio su tela
Dimensioni146,5×108 cm
UbicazioneGalleria degli Uffizi, Firenze

L'opera modifica

Il soggetto di Giuditta che decapita Oloferne era stato affrontato precedentemente da altri artisti e soprattutto da Caravaggio, con il suo dipinto del 1602 (Roma, Galleria nazionale d'arte antica di Palazzo Barberini).

L'episodio al quale si riferisce l'opera è narrato nel Libro di Giuditta: l'eroina biblica, assieme ad una sua ancella, si reca nel campo nemico; qui circuisce e poi decapita Oloferne, il feroce generale nemico.

Il quadro – di soggetto perfettamente analogo a quello della tela, un po' più piccola e dai colori diversi, eseguita in precedenza e conservata nel museo nazionale di Capodimonte a Napoli con lo stesso titolo – è quello che più immediatamente si associa al nome della Gentileschi.

La versione fiorentina fu realizzata per Cosimo II de' Medici, ma per il suo crudo realismo fu disprezzata e relegata in un angolo buio di Palazzo Pitti; Artemisia dovette quindi ricorrere alla mediazione di Galileo Galilei, con il quale era in amichevoli contatti, per ricevere il compenso pattuito[1].

L'analisi del quadro, in chiave psicologica, ha portato alcuni critici contemporanei a vedervi il desiderio femminile di rivalsa rispetto alla violenza sessuale subita da Agostino Tassi.

È difficile tuttavia effettuare una lettura più appropriata e suggestiva di quella che ne aveva dato Roberto Longhi già nel 1916.

«Chi penserebbe infatti – scriveva il Longhi - che sopra un lenzuolo studiato di candori e ombre diacce degne d'un Vermeer a grandezza naturale, dovesse avvenire un macello così brutale ed efferato [...] Ma - vien voglia di dire - ma questa è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo?» ed aggiungeva «[...]che qui non v'è nulla di sadico, che anzi ciò che sorprende è l'impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo ed è persino riuscita a riscontrare che il sangue sprizzando con violenza può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo centrale! Incredibile vi dico! Eppoi date per carità alla Signora Schiattesi – questo è il nome coniugale di Artemisia – il tempo di scegliere l'elsa dello spadone che deve servire alla bisogna! Infine non vi pare che l'unico moto di Giuditta sia quello di scostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo novissimo di seta gialla? Pensiamo ad ogni modo che si tratta di un abito di casa Gentileschi, il più fine guardaroba di sete del Seicento europeo, dopo Van Dyck.»

Le considerazioni svolte, su questo quadro, da Roland Barthes aggiungono elementi che ne chiariscono ulteriormente la originalità iconografica, anche a paragone della Giuditta di Caravaggio.

«Il primo colpo di genio – afferma Barthes - è quello di aver messo nel quadro due donne, e non solo una, mentre nella versione biblica, la serva aspetta fuori; due donne associate nello stesso lavoro, le braccia frapposte, che riuniscono i loro sforzi muscolari sullo stesso oggetto: vincere una massa enorme, il cui peso supera le forze di una sola donna. Non sembrano due lavoranti sul punto di sgozzare un porco? Tutto ciò assomiglia a un'operazione di chirurgia veterinaria. Nel frattempo (secondo colpo di genio), la differenza sociale delle due compagne è messa in risalto con acume: la padrona tiene a distanza la carne, ha un'aria disgustata anche se risoluta; la sua occupazione consueta non è quella di uccidere il bestiame; la serva, al contrario, mantiene un viso tranquillo, inespressivo; trattenere la bestia è per lei un lavoro come un altro: mille volte in una giornata essa accudisce a delle mansioni così triviali.[2]»

Descrizione modifica

Il quadro risulta essere stato dipinto con maggior cura e pazienza rispetto alla prima versione dipinta dall'artista qualche anno prima: sia i tessuti della scena che gli atteggiamenti dei personaggi sono variati e descritti con maggior accuratezza, rendendo l'opera più sontuosa e coesa. Le tre figure disposte chiaramente a triangolo compiono movimenti studiati e precisi e la torsione del busto di Giuditta aggiunge alla scena dinamismo. La rotazione del braccio destro della protagonista è messo a luce e risalta lo sforzo che la donna sta compiendo per terminare la decapitazione. Lo sfondo scuro, profondo e misterioso rende ancora più centrale e coinvolgente il macabro avvenimento.

La pittrice ha aggiunto molti dettagli alla scena, come il bracciale in oro con camei antichi di Giuditta, che, assieme alla precisa acconciatura e alla veste in damasco giallo, scostano la protagonista dalla sua ancella. Le pieghe del velluto rosso della coperta del generale assiro, i lenzuoli di lino e i drappi sono stati resi grazie a più passaggi e velature. Un altro elemento di novità rispetto al primo dipinto è l'ingente presenza del sangue: dal collo di Oloferne ne sprizza una fontanella resa con macabro realismo, e l'intero quadro è pervaso da goccioline rosse ottenute schizzando la tintura rossa direttamente dal pennello. Tra i dettagli più minuziosi si possono notare il merletto della camicia di Giuditta e le frange del lenzuolo in basso a sinistra del quadro.

Note modifica

  1. ^ Galleria degli Uffizi - guida ufficiale (ed. riveduta e aggiornata 2019)
  2. ^ La citazione è riportata in: Eva Menzio (a cura di). Artemisia Gentileschi Lettere precedute da Atti di un processo di stupro. Abscondida, 2004.

Bibliografia modifica

  • Roberto Contini e Francesco Solinas, Artemisia Gentileschi Storia di una passione, Pero (Milano), 24 ORE cultura, 2011.
  • R.Contini e G.Papi, Artemisia, Roma, Leonardo, 1991.
  • Mary D. Garrard, Artemisia Gentileschi The Image of the Female Hero in Italian Baroque Art, 1991, ISBN 9780691002859.

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