Lavandare

Poesia di Giovanni Pascoli

Lavandare è un componimento poetico di Giovanni Pascoli, scritto nel 1891, tratto dalla raccolta poetica Myricae.

Lavandare
Lavandaie
AutoreGiovanni Pascoli
1ª ed. originale1891
Generepoesia
Lingua originaleitaliano

Contenuto modifica

È inverno. La natura, assopita in un sonno profondo, sembra quasi morta; l'unico segno di vita viene dal canto delle lavandaie:

«Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

“Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l'aratro in mezzo alla maggese”.»

Parafrasi modifica

Nel campo metà arato e metà non, resta un aratro senza i buoi che sembra dimenticato tra la nebbia che si leva.

E dal canale viene scandito lo smuovere dell'acqua da parte delle lavandaie che con tonfi frequenti bagnano e puliscono i vestiti, mentre cantilenano a lungo:

Il vento soffia e le foglie cadono come fossero neve, e tu non torni ancora al tuo paese! Come sono rimasta quando tu partisti! Sola come l'aratro in mezzo al terreno lasciato a maggese.

Analisi e temi modifica

 
Aratro nella nebbia in un campo messo a maggese

In questo madrigale, soffuso di tristezza e di malinconia, il tono predominante è il senso di abbandono e di solitudine. Dimenticato è l'aratro che giace in un campo arato a metà; mesta riecheggia la cantilena delle lavandaie insieme al rumore dei panni sciacquati; cadono le foglie al vento che soffia come in un sogno triste che si ripete. Solo l'amato non torna ancora!

Il paesaggio invernale spoglio e nebbioso rispecchia fedelmente l'animo di chi aspetta e soffre in solitudine. Questo momento di vita campestre sospeso tra realtà e simbolo è soffuso di profonda interiore mestizia come la nenia delle lavandaie.[1]

La forma metrica è quella del madrigale (due terzine più una quartina), scelta per la sua vicinanza alla cultura popolare di cui il componimento evoca alcuni elementi: quello onomatopeico, espresso dal verbo «sciabordare»; quello delle cantilene dialettali dei due distici finali. Essi sono la citazione italianizzata dello strambotto «Retorna, Amore miè»[2] e «Quando ch'io mi partii»[3] che Pascoli trasse da una delle numerose raccolte poetiche di folklore popolare che da Carducci in poi la scuola positivista bolognese andò ordinando, alla luce del suo interesse per le radici storiche della lingua poetica.[4]

La scelta dell'immagine finale evoca un altro dei temi della poetica pascoliana: quello dell'erotismo represso. La tecnica poetica è quella dell'analogia, attraverso la quale il significato principale, emotivo ed esistenziale, della donna abbandonata, viene evocato da un'immagine simbolica:[5] la terra ferita dall'aratro e poi abbandonata, collegata al contesto lessicale del discorso dalla congiunzione «come».

Note modifica

  1. ^ Francesco Tateo, Nicola Valerio, Ferdinando Pappalardo, La letteratura nella storia d'Italia, volume 3, pag. 118, Napoli, Il Tripode, 1985.
  2. ^ «Retorna, Amore miè, se ci hai speranza, / Per te la vita mia fa penetenza! / Tira lu viente, e nevega li frunna, / De qua ha da rveni' fideli amante», in Antonio Gianandrea, Canti popolari marchigiani, p. 144, n. 8, Loescher, 1875.
  3. ^ «Quando ch'io mi partii dal mio paese, / povera bella mia, come rimase! / Come l'aratro in mezzo alla maggese» (A. Gianandrea, ivi, n. 28, pag. 149).
  4. ^ Franca Angelini, Il Novecento, dal decadentismo alla crisi dei modelli, volume 1, pag. 240, Laterza, 1976.
  5. ^ Giorgio Bárberi Squarotti, La critica pascoliana oggi, in AA.VV., Testi ed esegesi pascoliana, pag. 15, CLUEB, 1988.

Bibliografia modifica

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