Marco Pacuvio

drammaturgo, poeta e pittore romano

Marco Pacuvio (Brundisium, 29 aprile 220 a.C.Tarentum, 7 febbraio 130 a.C.) è stato un drammaturgo, poeta e pittore romano.

Nipote del poeta Quinto Ennio, fu il primo grande tragediografo latino.

Biografia modifica

Marco Pacuvio nacque attorno al 220 a.C. a Brundisium,[1] città messapica in una zona influenzata dalla cultura greca, da una famiglia di origini osche.[2] Tali origini sembrano effettivamente essere confermate dalla forma del nome Pacuvio, anch'essa osca, e da alcuni particolarismi linguistici che si riscontrano nelle opere[1]. Sua madre era, secondo la testimonianza fornita da Plinio il Vecchio,[3] sorella del celebre poeta e drammaturgo messapico Quinto Ennio da Rudiae; probabilmente errata[1] risulta invece la testimonianza di Sofronio Eusebio Girolamo,[4] secondo la quale Pacuvio sarebbe invece stato figlio della figlia di Ennio, e dunque nipote abiatico del poeta.

Formatosi grazie alle influenze dello zio e maestro Ennio, da cui ereditò anche gli interessi filosofici e le tendenze razionalistiche,[5], si trasferì giovane a Roma, dove intraprese a lungo l'attività di pittore (nel I secolo a.C. era ancora integro un suo dipinto nel tempio di Ercole) e di poeta, frequentando il Circolo degli Scipioni dal 204 a.C.[2] Fu il primo poeta latino che si dedicò esclusivamente al genere della tragedia. A Roma, secondo la testimonianza di Marco Tullio Cicerone,[6] strinse un solido legame di amicizia con l'aristocratico di ambiente scipionico Gaio Lelio; tale notizia potrebbe però costituire una finzione letteraria elaborata a posteriori dallo stesso Cicerone per arricchire la trattazione pronunciata dallo stesso Lelio nel Laelius de amicitia.[7] La poetica di Pacuvio, altisonante e ricca di riferimenti mitologici, era infatti ben lontana da quella proposta dal cosiddetto circolo degli Scipioni, che tentava, invece, di diffondere un ideale di letteratura aderente alla vita reale e attenta all'individuo.[8]

Ancora attivo nel 140 a.C., all'età di ottant'anni, Pacuvio compose una tragedia che mise in scena in competizione con il giovane Lucio Accio, che si andava allora affermando e che dopo la morte dello stesso Pacuvio sarebbe divenuto il maggior tragediografo in attività a Roma[9]. Poco più tardi, tuttavia, il vecchio Pacuvio, malato, fu costretto a ritirarsi a Tarentum, dove, attorno al 135 a.C., ricevette la visita dello stesso Accio che si apprestava a partire per un viaggio in Asia: in quest'occasione, secondo la narrazione di Aulo Gellio, il giovane autore lesse all'anziano commediografo il testo del suo Atreus[10]:

(LA)

«[1] Quibus otium et studium fuit vitas atque aetates doctorum hominum quaerere ac memoriae tradere, de M. Pacuvio et L. Accio tragicis poetis historiam scripserunt huiuscemodi: [2] "Cum Pacuvius" inquiunt "grandi iam aetate et morbo corporis diutino adfectus Tarentum ex urbe Roma concessisset, Accius tunc haut parvo iunior proficiscens in Asiam, cum in oppidum venisset, devertit ad Pacuvium comiterque invitatus plusculisque ab eo diebus retentus tragoediam suam, cui Atreus nomen est, desideranti legit. [3] Tum Pacuvium dixisse aiunt sonora quidem esse, quae scripsisset, et grandia, sed videri tamen ea sibi duriora paulum et acerbiora. [4] "Ita est," inquit Accius "uti dicis; neque id me sane paenitet; meliora enim fore spero, quae deinceps scribam. [5] Nam quod in pomis est, itidem" inquit "esse aiunt in ingeniis; quae dura et acerba nascuntur, post fiunt mitia et iucunda; sed quae gignuntur statim vieta et mollia atque in principio sunt uvida, non matura mox fiunt, sed putria. [6] Relinquendum igitur visum est in ingenio, quod dies atque aetas mitificet".»

(IT)

«Coloro che hanno dedicato tempo e passione a studiare e a descrivere la vita e i tempi delle persone colte, hanno narrato questo aneddoto riguardante i poeti tragici Marco Pacuvio e Lucio Accio. Quando Pacuvio, già affievolito dall'età avanzata e da una malattia cronica, si ritirò da Roma a Taranto, Accio, di molto più giovane, in partenza per l'Asia, essendo arrivato in quella città, gli fece visita e, invitato cordialmente e trattenuto per parecchi giorni, lesse a Pacuvio che lo desiderava la propria tragedia intitolata Atreus. Narrano che Pacuvio affermasse che i versi di Accio erano nobili e sonanti, ma che gli sembravano un poco duri e aspri. Al che Accio: «È proprio come tu dici, ma non mi dispiace; spero però che saranno migliori i versi che ancora scriverò. Infatti accade ai talenti come ai frutti: quelli che nascono duri e aspri, poi divengono teneri e saporiti, ma quelli che nascono già teneri, molli e fin dal principio succulenti, non maturano poi, ma imputridiscono. Mi par dunque che per i prodotti dell'ingegno si debba lasciare che il tempo e l'età li facciano maturare.»»

Tale aneddoto, che pure mette in luce l'orgoglio di Accio nel difendere la propria opera e nell'attaccare nascostamente quella del rivale,[11] è di dubbia autenticità,[7] in quanto del tutto affine all'episodio narrato da Gaio Svetonio Tranquillo nella Vita Terentii, secondo il quale il giovane commediografo Publio Terenzio Afro avrebbe letto la sua Andria all'anziano Cecilio Stazio.[12] Ritiratosi, dunque, a Tarentum, Pacuvio vi morì quasi novantenne[4] attorno al 130 a.C.:[1][2] egli stesso compose il testo, secondo Gellio, dell'epitaffio che fu poi inciso sulla sua lapide tombale, "un garbato autoritratto che comunica un senso di urbanità, di dignità e di riserbo":[13]

(LA)

«ADULESCENS, TAMETSI PROPERAS, HOC TE SAXUM ROGAT
UT SESE ASPICIAS, DEINDE QUOD SCRIPTUM EST LEGAS:
HIC SUNT POETAE PACUVI MARCI SITA
OSSA. HOC VOLEBAM NESCIUS NE ESSES. VALE
»

(IT)

«Anche se vai di fretta, giovane, questo sasso
ti implora di guardarlo, e che tu legga cosa
c'è scritto sopra. Qui riposano le ossa del poeta
Marco Pacuvio. Non volevo che lo ignorassi. Addio.»

Tale epitaffio, per quanto ben noto e solenne, è di dubbia autenticità:[7] Gellio ne trovò il testo nel De poetis di Marco Terenzio Varrone, assieme ai testi che avrebbero ornato le lapidi delle tombe di Gneo Nevio e Tito Maccio Plauto, ma nella sua opera non accenna ad alcuna visita personale a nessuna di tali tombe, dunque non risulta possibile sapere se gli epitaffi fossero stati composti o solo riportati dallo stesso Varrone.[7]

Opere modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura latina (240 - 78 a.C.).

Così come Plauto, Cecilio e Terenzio si erano per primi specializzati nel solo genere della commedia palliata, Pacuvio fu il primo tra gli autori di lingua latina a specializzarsi in quello della tragedia.[2] Dalle dubbie testimonianze dei grammatici tardi Diomede[14] e Pomponio Porfirione,[15] di dubbia validità,[7] si evince che Pacuvio sarebbe anche stato autore di Saturae, affini a quelle di Ennio, che avrebbero però riscosso scarso successo e avrebbero dunque acquisito importanza marginale.[2] Dalla testimonianza di Plinio il Vecchio risulta che abbia esercitato anche il mestiere di pittore: in età alto-imperiale si conservava ancora la memoria di una sua opera che era stata esposta in Roma nel tempio di Ercole presso il foro boario.[3] Della sua opera letteraria, non particolarmente vasta, sono a oggi pervenuti circa 365 frammenti per un totale di 380 versi di sede certa e 55 di sede incerta.[2][7] Fu autore di dodici o tredici tragedie cothurnatae (Antiope, Armorum iudicium, Atalanta, Chryses, Dulorestes, Hermiona, Iliona, Medus, Niptra, Pentheus, Periboea e Teucer; incerta è l'attribuzione del Protesilaus) e di una praetexta (Paulus).[2][7]

Le cothurnatae, sviluppate per lo più a partire da originali greci oggi perduti dei tragici Eschilo, Sofocle ed Euripide, trattavano in molti casi temi afferenti ai maggiori cicli mitici, quali quello troiano (Armorum iudicium, Iliona, Niptra, Teucer, e Protesilaus), quello, connesso al troiano, di Oreste (Chryses, Dulorestes, Hermiona), quello tebano (Antiope) e quello argonautico (Medus). Il Paulus (Paolo) aveva, invece, carattere storico e celebrativo,[16] e fu probabilmente rappresentata per la prima volta nel 168 a.C., in occasione dei ludi organizzati per celebrare la vittoria di Lucio Emilio Paolo a Pidna sul re di Macedonia Perseo.[16] Particolarmente esiguo risulta, dunque, il numero delle opere prodotte da Pacuvio se si considera che fu attivo fino all'estrema vecchiaia;[7] tale dato può essere però spiegato se si suppone che il drammaturgo dedicasse buona parte del suo tempo all'attività pittorica,[7] o curasse particolarmente l'elaborazione formale delle sue opere.[17] Egli scelse generalmente il suo repertorio fra i miti del mondo ellenico, prediligendo quelli a sfondo pastorale o idilliaco e descrivendo sapientemente paesaggi ed eventi naturali: da quanto resta, Pacuvio sapeva conferire ai personaggi delle sue tragedie una forza drammatica che affascinava il pubblico romano e che era apprezzata, come detto, dallo stesso Cicerone, che ne ebbe altissima stima:

(LA)

«licet dicere et Ennium summum epicum poetam ... et Pacuvium tragicum et Caecilium fortasse comicum»

(IT)

«...si può dire che Ennio sia il sommo poeta epico ... e Pacuvio il sommo tragico e Cecilio forse il sommo comico»

La cura che Pacuvio riservava alle sue opere gli procurò, mentre era ancora in vita, la fama di erudito;[18] l'erudizione, tuttavia, si prestava a degenerare in pedanteria,[18] come dimostrano ad esempio i versi del Chryses in cui la descrizione del cosmo e del sole è interrotta da una parentesi di riflessione filologica sui termini con cui Greci e Romani indicavano il cielo.[19] Ciò non precluse comunque a Pacuvio la possibilità di riscuotere un ampio successo di pubblico presso il popolo romano e presso i suoi contemporanei:[8] l'ampia diffusione e il gradimento delle sue opere testimoniano inoltre la «capacità del pubblico romano di apprezzare un testo teatrale serio».[18]

L'autore satirico Gaio Lucilio, attivo nella seconda metà del II secolo a.C., nell'affermare la sua nuova poetica legata all'esperienza personale, prese le distanze dalla poetica tragica di Ennio, ma soprattutto dei contemporanei Pacuvio e Accio, che tentavano, a suo giudizio, di affascinare il pubblico proponendogli esclusivamente storie di esseri fantastici quali «serpenti alati» o «draghi volanti».[20] Tale critica, dettata dunque da ragioni personali legate al modo di intendere l'attività letteraria stessa, nulla toglie comunque al vasto successo che Pacuvio riscosse tra i suoi contemporanei.[8]

Note modifica

  1. ^ a b c d Beare, p. 92.
  2. ^ a b c d e f g Pontiggia, Grandi, p. 390.
  3. ^ a b Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XXXV, 19.
  4. ^ a b Girolamo, Chronicon, anno 1863 (=154 a.C.), p. 142 H.
  5. ^ Pontiggia, Grandi, p. 407.
  6. ^ Cicerone, Laelius de amicitia, 24.
  7. ^ a b c d e f g h i Beare, p. 93.
  8. ^ a b c Pontiggia; Grandi, p. 391.
  9. ^ Cicerone, Brutus, 229; Gellio, XIII 2, 2.
  10. ^ Gellio, XIII 2, 2.
  11. ^ Pontiggia, Grandi, p. 395.
  12. ^ Svetonio, Vita Terentii, 3.
  13. ^ Pontiggia, Grandi, p. 394.
  14. ^ Diomede, in Grammatici latini, ed. Keil, I, p. 485.
  15. ^ Porifirione, Ad Horatium; Saturae, I, 10, 46.
  16. ^ a b Pontiggia, Grandi, p. 87.
  17. ^ Beare, p. 94.
  18. ^ a b c Beare, p. 98.
  19. ^ Chryses, vv. 86-92.
  20. ^ Lucilio, vv. 587-589 Marx.

Bibliografia modifica

  • (LA) Fragmenta poetarum veterum Latinorum, quorum opera non extant: Ennii, Accii, Lucilii, Laberii, Pacuuii, Afranii, Naeuii, Caecilii, aliorumque multorum, a cura di Henri Estienne. [Ginevra]: excudebat Henricus Stephanus, illustris viri Huldrici Fuggeri tipographus, 1564
  • Scaenicae romanorum poesis fragmenta, Otto Ribbeck (a cura di), Lipsiae in aedibus B. G. Teubneri, 1897, vol. 1, pagg. 86 sgg.
  • (ENLA) Remains of old Latin, 2: Livius Andronicus; Naevius; Pacuvius and Accius, (The Loeb classical library, 314) Cambridge (Mass.)-London 1936 (reprint 1957, 1961 e 1982): pagg. 157-324.
  • M. Pacuvio, I frammenti dei drammi. Ricostruiti e tradotti da Raffaele Argenio, Torino 1959
  • (LA) M. Pacuvii Fragmenta, a cura di Giovanni D'Anna. Roma 1967
  • I. Mariotti, Introduzione a Pacuvio, Urbino 1960.
  • P. Magno, Marco Pacuvio. Milano 1977.
  • Quinti Ennii et Marci Pacuvii Lexicon sermonis scaenici, a cura di L. Castagna, Hildeshem 1996.

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