Neptuno (1754)

nave dell'Armada Española varata nel 1754

Il Neptuno fu un vascello di linea spagnolo da 68 cannoni che prestò servizio nella Armada Española tra il 1754 e il 1762.[2]

Asia
Descrizione generale
Tipovascello a due ponti
ProprietàReal Armada Española
CantiereReales Astilleros di El Ferrol
Impostazione10 giugno 1752
Varo6 luglio 1754
Entrata in servizio1754
Radiazione11 giugno 1762
Destino finaleautoaffondato a L'Avana
Caratteristiche generali
Dislocamento1.302
PropulsioneVela
Equipaggio504 uomini
Armamento
ArmamentoArtiglieria 68 cannoni[1]
  • 26 da 24 libbre
  • 28 da 12 libbre
  • 10 da 6 libbre
  • 4 falconetti da 3 libbre
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Storia modifica

 
Particolare di un modello di vascello da 68 cannoni, visibile al Museo Naval di Madrid.

La sua costruzione fu ordinata al cantiere navale di El Ferrol, e apparteneva alla seconda serie di unita, quattro in tutto, della classe designata "Doce Apóstoles" o "Apostolados".[1] L'unità venne impostata secondo il sistema inglese elaborato da Jorge Juan y Santacilia[3] il 10 giugno 1752, e varata il 6 luglio 1754.[1] Nel 1759 salpò da El Ferrol per trasferirsi nell'area dei Caraibi, ma dovette entrare nella rada di Cadice a causa di una avaria, scortato dalla fregata Concepción.[1] Dopo le opportune riparazioni salpò nuovamente, al comando del capitán de fregata don Pedro Bermudez, arrivando a Cartagena de Indias il 18 marzo 1860.[1] Nel corso del 1761, in piena guerra dei sette anni, effettuò una missione salpando da L'Avana, Cuba, e raggiungendo Cartagena de Indias, ma qualche tempo dopo rientrò a L'Avana.[1]

Nel corso dell'anno successivo entrò a far parte della flotta agli ordini del nuovo Comandante della squadra navale delle Americhe,[4] il jefe de esquadra Gutierre de Hevia y Valdés. Essa era composta dai vascelli Tigre (nave ammiraglia), Asia, Vencedor, América, Infante, Soberano, Aquilón, Conquistador, San Genaro (in fase di carenaggio), Tridente, Castilla, Europa, Neptuno e Reina in armamento, e San Antonio (in fase di completamento) dalle fregate Ventura, Venganza, Fénix, Águila e Flora, da 3 paquebot, 1 brigantino, 1 urca, 1 sciabecco e tre golette.[5] A queste navi si dovevano aggiungere il vascello San Zénon (78 cannoni), le fregate Asunción (50), Santa Bárbara (42), Perla (30), Atocha (30), Santa Rosa (24), e Costanza (24), e lo sloop Florida, di proprietà delle compagnie di Caracas, e de L'Avana, o di altri privati.[5]

Durante il corso dell'assedio de L'Avana fu autoaffondato l'11 giugno 1762, al fine di impedire l'ingresso nella rada della squadra navale britannica dell'ammiraglio George Pocock,[6] insieme ai vascelli Europa e Asia, nel punto più stretto del canale, che coincide con il molo Contaduría, vicino al Castello de la Real Fuerza.[7] Questa decisione fu presa nella giunta di guerra presieduta dal governatore don Juan de Prado y Malleza.[1]

Note modifica

Annotazioni modifica


Fonti modifica

  1. ^ a b c d e f g Todoavante.
  2. ^ Castanedo Galán 1993, pp. 106-107.
  3. ^ Castañón 2003, p. 97.
  4. ^ Duro 1972, p. 42.
  5. ^ a b Duro 1972, p. 84.
  6. ^ Duro 1972, p. 82.
  7. ^ Parcero Torre 1999, p. 123.

Bibliografia modifica

  • (ES) Guillermo Calleja Leal, 1762, La Habana Inglesa: La toma de La Habana por los ingleses, Ediciones de Cultura Hispánica, 1999.
  • (ES) Juan M. Castanedo Galán, Guarnizo, un astillero de la corona, Madrid, Editorial Naval, 1886.
  • (ES) Hermenegildo Franco Castañón, Sin perder el Norte: Tres Siglos de Historia En La Zona Maritima del Cantabrico, Valladolid, Quiron Editores, 1886.
  • (ES) Cesáreo Fernández Duro, Armada Española desde la unión de los reinos de Castilla y de Aragon. Tomo 6, Madrid, Est. Tipográfico “Sucesores de Rivadeneyra”, 1972.
  • (ES) Antonio Ferrer del Río, Historia del reinado de Carlos III en España, Madrid, Imp. de los señores Matute y Compagni, 1856.
  • (ES) José Patricio Merino Navarro, La Armada española en el siglo XVIII, Madrid, Fundación Universitaria Española, 1981.
  • (ES) Celia María Parcero Torre, La pérdida de la Habana y las reformas borbónicas en Cuba, 1760-1773, Valladolid, Junta de Castilla y León, 1999.

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