Saggio sulle favole e sulla loro storia

Saggio sulle favole e sulla loro storia (Essai sur les fables et sur leur histoire) è un'opera dell'astronomo e letterato francese Jean Sylvain Bailly. Pubblicata postuma nel 1798, essa fornisce nuove prove alle ipotesi dello stesso Bailly (riprese, almeno parzialmente, dal medico e letterato svedese Olaus Rudbeck) sulla presunta origine nordica della cultura scientifica e mitica.

Saggio sulle favole e sulla loro storia
Titolo originaleEssai sur les fables et sur leur histoire
Frontespizio del primo volume
AutoreJean Sylvain Bailly
1ª ed. originale1798-1799 (postumo)
Generesaggio
Lingua originalefrancese

Contenuto generale modifica

Il Saggio sulle favole fu scritto da Bailly tra il 1781 e il 1782, come continuazione più squisitamente letteraria dei suoi studi, già incominciati con l'Histoire de l'astronomie ancienne del 1775 e con le Lettres a Voltaire (ovvero le Lettres sur l'origine des sciences del 1777 e le Lettres sur l'Atlantide de Platon del 1779).[1] Se gli altri testi erano rivolti più alla dimostrazione della presunta origine nordica delle scienze e utilizzavano le attestazioni mitiche come presunte prove, in quest'opera Bailly si concentra soprattutto proprio sulla comune genesi delle mitologie favolistiche dei popoli settentrionali e meridionali dell'emisfero boreale. L'opera è costituita da due volumi, ognuno organizzato in dieci capitoli; ognuno dei venti capitoli dell'opera è costituito da una lettera indirizzata da Bailly alla scrittrice e poetessa Anne-Marie du Boccage.

Bailly si era già proposto in precedenti opere di dimostrare che antichissimi sconosciuti popoli del Nord (che Bailly reputava essere i mitici Atlantidei iperborei) furono i «maestri universali della mitologia e della scienza». Furono loro, secondo l'autore francese, a dispensare le conoscenze scientifiche e la cultura mitica agli altri popoli antichi (come ad esempio gli indiani, i cinesi, i caldei e i greci) muovendosi mano a mano da nord verso sud.

Significato del termine "favola" modifica

Il termine francese «fable», usato da Bailly, deriva dal termine latino "fabula", derivante a sua volta dal verbo "far, faris" = dire, raccontare. Il termine latino «fabula» indicava in origine una narrazione di fatti inventati, spesso di natura leggendaria e/o mitica. Va infatti specificato che con il termine favola, dai primi secoli d.C. fino alla fine del XVIII secolo, si qualificarono anche — e soprattutto — i miti. Nel suo Saggio sulle favole, infatti, Bailly fa riferimento come «fables» proprio alle antiche leggende mitiche, soprattutto d'origine greca e romana, che non hanno nulla a che fare col significato odierno del termine, legato invece al genere "favolistico" esopico e a quello di Fedro, costituiti da brevi racconti narrativi, narrati in versi o in prosa, a carattere morale.

Indice dei capitoli modifica

Volume I modifica

  • Ia Lettera: Esposizione del soggetto di quest'opera.
  • IIa Lettera: Cos'è la favola? Spiegazioni proposte.
  • IIIa Lettera: Quali sono le vere fonti delle favole?
  • IVa Lettera: Semplificazione del sistema mitologico.
  • V Capitolo: Storia del culto dei Romani.
  • VI Capitolo: Sull'origine del mondo & dell'uomo. La storia dei primi eventi della Terra.
  • VIIa Lettera: Sugli antichi popoli della Grecia & sul loro primo culto.
  • VIII Capitolo: Sulle colonie straniere che arrivarono in Grecia.
  • IX Capitolo: Le feste dell'antica Grecia.
  • X Capitolo: Sul tempio di Delfi & l'isola di Delo

Volume II modifica

  • XI Capitolo: Sugli Iperborei & sulla loro posizione sulla Terra.
  • XII Capitolo: Prima idea della favola degli Inferi.
  • XIII Capitolo: Sugli Argonauti.
  • XIV Capitolo: Su Orfeo, sulle Muse & sui primi poeti della Grecia.
  • XV Capitolo: Sulla dottrina di Orfeo.
  • XVI Capitolo: Sulla posizione degli Inferi.
  • XVII Capitolo: Sulla "vita orfica".
  • XVIII Capitolo: Su Esiodo & sulla sua Teogonia.
  • XIX Capitolo: Il seguito della Teogonia & sulla posterità del Cielo.
  • XX Capitolo: Riflessioni sulla Teogonia di Esiodo.

Sommario modifica

Volume I modifica

Nella discussione sull'origine e sul progresso delle favole, che aveva già impegnato numerosi autori in precedenza, Bailly interviene contribuendo con un apporto originale mostrando, secondo i commentatori dell'epoca, una «gran chiarezza di progettazione e una certa ingegnosità di ragionamento».

Dopo una spiegazione abbozzata della creazione del mondo, del diluvio e di altri eventi primordiali, come descritti da Ovidio, l'autore continua elencando una lista dei principali episodi mitici, tramandati dalla tradizione ovidiana: l'Età dell'oro e le tre epoche successive; la dimora terrestre degli dei; il loro ritiro verso il cielo; la guerra dei giganti contro gli dei (la cosiddetta Gigantomachia); la sepoltura degli stessi giganti sotto le montagne; la via lattea, considerata la «via per il paradiso»; i palazzi degli dei; il consiglio celeste presieduta da Giove; il destino del mondo, ovvero la conflagrazione; il diluvio universale in cui si salvò il solo Deucalione tramite un'imbarcazione di legno; la vittoria ottenuta da Apollo sul serpente Pitone.

Tutte queste tradizioni mitiche, anche se intervallate da «favolose decorazioni», ed anche se servivano ad Ovidio come una sorta di introduzione mitica alle sue metamorfosi, non erano probabilmente pure e semplici favole inventate. Ben nascosta da una coltre di fantasticherie, all'interno di queste tradizioni mitiche doveva celarsi un fondo di verità. «Riconosco la mano dell'immaginazione. — scrive Bailly — Vedo il poeta che fomenta tutta la natura, portando in azione tutte le cause conosciute; lo vedo rappresentare un fenomeno generale attraverso dei fenomeni parziali, al fine di descrivere la sommersione totale e per dare un'idea di una grande catastrofe storica». Ma quella grande catastrofe, il diluvio, non poteva che essere per Bailly «un evento importante e notevole», che il poeta non poteva aver inventato; anche perché «non pareva avere utilità nel progetto poetico dell'autore».

Sebbene Ovidio avesse arricchito di elementi fantasiosi, con i suoi versi, gli episodi mitici, egli non poteva che «ripetere ciò che aveva imparato dalla tradizione». Il diluvio allora doveva essere «un fatto reale», «almeno per Ovidio» precisa Bailly. A questo evento principale del diluvio erano poi collegate le storie relative ai giganti, una razza descritta come «empia, che aveva chiamato per una propria punizione», e quella legata a Deucalione, salvatosi su di una imbarcazione, che diventò il «nuovo magazzino della razza umana». Se tutti questi fatti dovevano derivare dalla tradizione allora anche la guerra dei giganti, la nascita del serpente Pitone (prodotto dal fango della terra dopo il dluvio) e la vittoria di Apollo su di esso derivavano, senza dubbio, dalla stessa fonte. «Non dovremmo avere fretta di concludere che tutte queste storie sono favole» sintetizza Bailly, che individua così l'ipotesi di un fondo di verità storico delle antiche leggende postdiluviane.

«Il fatto che la via lattea porti all'Empireo; le storie sui palazzi degli dei; l'esistenza di un consiglio divino che pronunciava impazienti giudizi dai suoi sedili di marmo, con Giove collocato su un trono al di sopra degli altri, sono indubbiamente immagini fantasiose — scrive Bailly — che però probabilmente non sono state inventate dal poeta ma trasmesse da un'antica tradizione».

In effetti all'epoca di Bailly la maggior parte delle informazioni sul diluvio universale nella mitologia greca-romana provenivano proprio dalle Metamorfosi di Ovidio (8 a.C.) e dalla Biblioteca di Pseudo-Apollodoro (II secolo d.C. circa) e, all'epoca di Bailly, non vi era alcuna prova filologica certa della loro effettiva antichità. Quello che appariva evidente era il parallelismo con l'episodio biblico di Noè, quindi, pensava Bailly, la leggenda del diluvio dovette spargersi nelle tradizioni di molti popoli antichi e non poteva che avere una comune origine.

«I poeti in generale non creavano, bensì adornavano, le verità e le opinioni storiche. — afferma Bailly — I loro poemi erano storie, e loro stessi cantavano le tradizioni quando non le riportano per iscritto. Loro dovevano aver dunque rispettato le tradizioni almeno per questi fatti appena menzionati». Le tradizioni per Bailly furono trasportate da un popolo all'altro contribuendo a formare nuove culture. Questo trasferimento, o meglio questo "tramandamento", per Bailly non era un processo passivo, ma attivo. Subiva infatti una sorta di «naturalizzazione»: le tradizioni non venivano soltanto assimilate dal popolo ricevente, ma anche alterate e manipolate. E questa manipolazione non poteva che avvenire in base proprio alle caratteristiche del popolo che le riceveva. I territori appartenenti a loro non potevano che diventare «i nuovi "teatri"» dove le leggende venivano ambientate; anche i «nomi dei luoghi e dei personaggi cambiarono di conseguenza». Gli stessi romani si mossero in tal senso. Essi ripresero in larga parte la mitologia greca modificandola drasticamente in base ai loro standard sociopolitici e geografici. A testimonianza di ciò le differenze dei nomi delle divinità, e le differenti ambientazioni di miti identici a quelli greci. Ad esempio, Encelado, sotterrato da Minerva durante la Gigantomachia, e il mostro Tifone, folgorato da Giove, gemettero entrambi dopo la sconfitta sotto il peso di una montagna, che nella mitologia romana fu individuata nell'Etna: e fu così che la fiammeggiante lava vulcanica fu interpretata dagli antichi come la fiamma residua della loro rabbia. Un altro esempio è quello di Fetonte, precipitato dal carro del sole, che era annegato nel mitico fiume Eridano secondo il canone greco; nella trasposizione latina l'Eridano divenne il fiume Po. Ecco, sul mito di Fetonte Bailly precisa che è «una storia indipendente che pare appartenere a tutti i paesi dell'antichità» e che a seconda del paese cambiò alcuni riferimenti geografici più che narrativi.

Ma c'è un altro aspetto quello che interessa a Bailly: la mitologia sui Cimmeri, popolo probabilmente esistito e ripreso dalla mitologia greca e romana. Virgilio, riprendendo e "italianizzando" (secondo questo processo di «naturalizzazione mitica») la tradizione di Omero, aveva parlato di un ingresso agli Inferi posto tra Cuma e il Vesuvio; inoltre, nei dintorni del Lago d'Averno egli individuò i mitici fiumi Acheronte, Flegetonte e Cocito.[2] Per tale motivo infatti gli inferi romani (l'Ade greco) si chiamano anche Averno. Questa doveva essere «precedente» dice Bailly, secondo i canoni mitici, la Cimmeria, ovvero la dimora del mitico popolo dei Cimmeri.[3] Essi abitavano, secondo le tradizioni mitiche, in una «valle completamente oscurata dalle montagne circostanti». Perciò, scrive Bailly, si narrava — poeticamente — che i Cimeri «non potessero vedere mai il sole né sorgere né tramontare». «Questi luoghi così ombreggiati e bui dovrebbero essere più che rari in Italia — riconosce Bailly — ma erano mirabilmente adatti a preparare la mente per l'ingresso nelle regioni infernali». Bailly riconosce che la poesia avesse interpretato in modo piuttosto fantasioso alcune caratteristiche dei territori questo popolo. Non riuscendo a spiegare come potesse esistere una terra, i poeti, secondo Bailly, avevano supposto l'esistenza di queste «valli tenebrose», coperte da altissime montagne che impedivano alla luce del sole di penetrarvi. In realtà, esisteva una spiegazione scientifica di tutto ciò: bastava traslare tutti i territori mitici dei Cimmeri molto più a nord. Bailly rivide infatti in queste espressioni poetiche delle chiare allusioni alla notte polare.[4]

Per quanto riguarda invece la Gigantomachia prevalse, nella letteratura mitica romana, la tradizione secondo cui i Giganti fossero stati sconfitti presso i Campi Flegrei.[5] L'area era nota sin dall'antichità per la sua vivace attività vulcanica. I vulcani erano infatti considerati dagli antichi come «i luoghi di conservazione dei resti degli incendi dovuti ai tuoni»: si concluse dunque che i giganti, caduti sotto i colpi delle saette di Giove, non potevano che essere sepolti sotto i vulcani. E tra questi anche quelli dei Campi Flegrei, dove si pensò bene di ambientare la Bailly non si reputa sorpreso di trovare in Italia le porte del regno di Plutone, o meglio "anche" in Italia. «Il destino dell'uomo è ovunque lo stesso; — precisa Bailly — la strada verso la morte è posizionata ovunque, e ovunque gli empi devono avere l'Inferno sotto i suoi piedi». Insomma, tutti i popoli avevano bisogno di giustificare anche geograficamente una punizione vicina per chi fosse stato empio, e anche i Romani non fecero differenza: essi posizionarono le porte dell'Inferno nei pressi del Vesuvio, le cui eruzioni devastanti «parevano annunciare una delle aperture della dimora della morte e punizione». Ma è notevole per Bailly, che, anche se gli altri popoli avevano permesso ai Romani di produrre queste alterazioni, ci fossero dei "fatti mitici" che i Romani stessi avevano sempre rispettato, e che non avevano mai avuto il coraggio di cambiare. I Giganti, nel loro tentativo di salire al Cielo, non si arrampicarono né sul Vesuvio né sull'Etna, ma dal Monte Pelio e dal Monte Ossa, situati in Grecia ed in Tessaglia. E questo fu integralmente ripreso nella mitologia romana, senza variazioni. Anche quando Deucalione, l'ultimo uomo sopravvissuto della razza umana, scoprì un accessibile punto d'approdo per la sua arca, questi era il Parnaso, altro monte in Tessaglia. Egli, secondo la tradizione, scese in una pianura sulle rive del Cefiso, fiume della Beozia, e lì consultò Temi, padrona dei territori sui quali poi fu costruito il Tempio di Delfi. «I Romani, nell'adottare quelle storie, — constata Bailly — non ebbero il coraggio di trasportare le ambientazioni in Italia; hanno ripetuto le storie, così com'erano, e hanno lasciato alla Grecia quello che sembrava appartenere ad essa». Queste circostanze indicavano «chiaramente — secondo Bailly — la fonte di queste storie»: i Romani le avevano derivate dalla Grecia. «Spesso nel fare paragoni simili noi baseremo, su questi fatti evidenti, le relazioni tra i popoli, la traccia delle loro tradizioni e l'origine delle cose. — chiosa Bailly — E saremo guidati da questo principio indiscutibile: che, se un popolo ci racconta una storia la cui ambientazione si trova in un paese straniero, allora tale storia non può che essere stata adottata. Essa ci mostra una traccia da seguire; e ci trasporta nel paese che fu teatro dei fatti, al fine di indagare l'origine e le verità in essa contenute».

Volume II modifica

Note modifica

  1. ^ Biografia universale antica e moderna, ossia Storia per alfabeto della vita pubblica e privata di tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtu e delitti, G. Batista Missiaglia, 1828 p. 165
  2. ^ «Ma chi ha inventato i nomi Acheronte e Flegetonte? Non Virgilio. I nomi non vengono infatti specificati così facilmente da lui; eppure, in tal modo, Strabone, morto cinquant'anni dopo Virgilio, non avrebbe trovato questi termini così comunemente usati. È ancora più ridicolo attribuirli ad Omero. Qualunque sia l'influenza che un grande poeta può avere, uno straniero come lui non inventerebbe mai i nomi di luoghi o cose relative ad un altro popolo. Dobbiamo dunque credere che gli antichi romani presero queste denominazioni dagli antichi Toscani o dai Greci, e li collocarono in Campania, o forse (il che appare ben più naturale) furono proprio i Cimmeri, al loro arrivo, a dare questi nomi ai fiumi e laghi del loro nuovo paese.» (Saggio sulle favole e sulla loro storia; vol. I. cap. VI. pag. 136-137.)
  3. ^ Come riporta Bailly: «Plinio dice "precedentemente"; si dovrebbe supporre, quindi, che volesse intendere molto tempo prima della sua opera». (ibid.)
  4. ^ Scrive Bailly «La supposizione dell'esistenza di queste valli tenebrose sorse dal pregiudizio stabilito che i Cimmeri abitavano paesi che erano stati privati dalla luce del sole. E inoltre bisogna ricordare che, secondo Bochart (Chan. Lib. I. c. 33. p. 591.), il vero nome della Cimmeria - che deriva da Cimmir - nella lingua fenicia significa "buio". Queste «valli», insomma, non sono che una favola inventata per spiegare meglio le strane caratteristiche dei territori cimmeri» (ibid.).
  5. ^ Dal greco flègo, che significa "brucio", "ardo".