Angelo Oliviero Olivetti

politico, politologo e giornalista italiano

Angelo Oliviero Olivetti (Ravenna, 21 giugno 1874Spoleto, 17 novembre 1931) è stato un politico, politologo, giornalista e avvocato italiano.

Tra i maggiori esponenti del sindacalismo rivoluzionario, fu poi uno tra i più importanti teorici del sindacalismo fascista e del corporativismo.

Vita modifica

Dal sindacalismo rivoluzionario al sindacalismo nazionale modifica

Nacque nel 1874 a Ravenna, in una famiglia della medio-alta borghesia ebraica dai forti sentimenti patriottici, da Emilio e Amalia Padovani; il padre era un volontario di guerra e poi Ufficiale pluridecorato, che aveva partecipato alle ultime vicende del Risorgimento, mentre la madre era la figlia del banchiere Angelo Padovani[1].

Fu tra i fondatori del Partito Socialista Italiano nel 1892 mentre ancora frequentava l'Università di Bologna dove studiava giurisprudenza, laureandosi nel 1893 con una tesi sul colonato romano, la quale fu poi premiata al concorso "Vittorio Emanuele" nel 1896[2], tanto da meritare la pubblicazione[3].

Condannato più volte dai tribunali italiani per attività sovversiva, si rifugiò a Lugano (in Svizzera) nel 1898 dove, nel 1906, cominciò le pubblicazioni di un quindicinale politico-culturale di orientamento sindacalista rivoluzionario, «Pagine Libere», a cui collaborarono anche i sindacalisti Paolo Orano, Arturo Labriola, Alceste de Ambris e il socialista Benito Mussolini, dall'Olivetti conosciuto durante l'esilio svizzero, dal momento che il futuro capo del fascismo frequentava la sua abitazione luganese, divenuta punto di ritrovo per intellettuali quali — tra gli altri — lo stesso De Ambris, Massimo Rocca, Giulio Barni e Angelica Balabanoff[4]. La rivista olivettiana rappresenta, assieme al «Divenire sociale» di Enrico Leone, la più importante rivista del sindacalismo rivoluzionario italiano[5]. In particolare, la parte letteraria era curata dal ticinese Francesco Chiesa che ottenne collaborazioni di giovani letterati, fra cui diversi poeti crepuscolari. Olivetti collaborò altresì al settimanale milanese di Arturo Labriola «Avanguardia socialista» e firmò nel 1907 il manifesto del sindacalismo rivoluzionario in cui si accusava il riformismo della CGL, tacciata di essere uno strumento passivo del Partito Socialista Italiano.

Nella sua rivista si impegnò nella revisione del marxismo (in particolare riguardo alle sue pretese scientifiche), istanza comune ai sindacalisti rivoluzionari, e nell'elaborazione di un sindacalismo antistatalistico, manifestando perciò posizioni antielettoralistiche e sovversive, e aderendo alle tesi sorelliane favorevoli alla violenza rivoluzionaria in quanto «ogni dottrina politica che tende all'avvenire è dottrina di forza, e la violenza è forza», e riprendendo inoltre il vitalismo e il volontarismo della filosofia bergsoniana per affermare un «socialismo divenuto spontaneità di movimento e di lotta, fatto fisiologico, organico»[6]. Caratteri precipui della sua concezione sindacalista sono inoltre uno spiccato aristocraticismo ed elitismo, conforme alle tesi di Gaetano Mosca, Robert Michels e Vilfredo Pareto, oltreché — probabilmente per l'influsso familiare — un orgoglio nazionale che avrà conseguenze notevoli nel futuro sviluppo della sua riflessione teorica. Sin dall'articolo di presentazione della rivista, infatti, affermò:

«Specialmente noi italiani che dovremmo essere eredi e custodi del pensiero della nostra gente, così limpido e preciso, fatto di naturalismo e di buon senso, indagatore di ogni verità fisica e sperimentale, iniziatore di ogni umanesimo nel primo e nel secondo rinascimento, anticipatore della scienza moderna nel travaglioso '600, noi inventori della politica scientifica, demolitori del papato, immuni dalla infatuazione della riforma, noi dobbiamo alla nostra internazionalità della vita moderna, di ritrovare noi stessi. È questo il doppio scopo che ci proponiamo pertanto: ravvivare la italianità del pensiero nazionale, in quanto cosmopolita ed universale nella origine e nei modi, ed esercitare la critica dei fatti contemporanei, al cospetto del proletariato che ascende alle vette della storia, convocando nella nostra società di idee gli intelletti dediti al puro pensiero ed alla pura bellezza, che per ciò solo hanno con noi una intima ragione di fraternità spirituale»

Il pensiero olivettiano ebbe inoltre un importante influsso sulle idee del giovane Mussolini[8][9], tanto che lo stesso Duce nel 1932, vergando La Dottrina del Fascismo per l'Enciclopedia Treccani, scrisse:

«Nel grande fiume del Fascismo troverete i filoni che si dipartono dal Sorel, dal Peguy, dal Lagardelle del "Mouvement Socialiste" e dalla coorte di sindacalisti italiani, che tra il 1904 ed il 1914 portarono una nota di novità nell’ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana, con le "Pagine Libere" di Olivetti, "La Lupa" di Orano, "Il Divenire Sociale" di Leone»

In seguito all'espulsione dei sindacalisti rivoluzionari dal Partito Socialista, l'Olivetti fu favorevole all'impresa libica, dando man forte dalle colonne della sua rivista all'avvicinamento — allora in corso — tra sindacalisti rivoluzionari e nazionalisti:

«Ora il sindacalismo come il nazionalismo riaffermano una originalità frammezzo all'onda dirompente della mediocrità universale: quello la originalità di una classe che tende a sprigionarsi ed a superare, questo amoroso di far rivivere il fatto ed il sentimento nazionale, inteso come originalità di una stirpe, come affermazione di una personalità collettiva, con caratteristiche note culturali, sentimentali, con un istinto proprio e differente. Sindacalismo e nazionalismo sono perciò antidemocratici, antipacifisti, antiborghesi. E, diciamo la parola, sono le due solo tendenze aristocratiche in una società quattrinaria e bassamente edonistica, quello agitante l'avvento di una élite di produttori, questo auspicante il predominio di una élite della razza che vuole reindividuare traverso il progressivo smarrimento di ogni nota di personalità e di schiettezza primitiva. Finalmente nazionalismo e sindacalismo hanno comuni il culto dell'eroico, che vogliono far rivivere in mezzo ad una società di borsisti e di droghieri. La nostra società muore per mancanza di tragedia. (...) Il nazionalismo ed il sindacalismo sono le sole concezioni politiche del nostro tempo che agitano le profondità di un mito, quello invocando la supremazia della stirpe, questo lo sciopero generale e la rivoluzione sociale»

Sulla questione tripolina, tuttavia, i sindacalisti rivoluzionari non fecero fronte comune: se ad esempio Olivetti e Labriola erano favorevoli all'impresa bellica, infatti, De Ambris e Filippo Corridoni risultarono contrari. Per queste frizioni politiche «Pagine Libere», la cui redazione era stata ristrutturata e in cui importanti ruoli erano rivestiti dallo stesso De Ambris e Paolo Mantica, all'inizio del 1912 si trovò costretta a sospendere le proprie pubblicazioni[12]. Nello stesso periodo, inoltre, per alcuni articoli giudicati lesivi degli interessi svizzeri, Olivetti fu espulso dalla Svizzera.

Il corso della rivista olivettiana, comunque, riprese nel 1914, allorché il direttore appoggiò fervidamente l'intervento dell'Italia nella Grande Guerra (stavolta seguìto da tutto il movimento sindacalista rivoluzionario). Olivetti, inoltre, fu uno dei fondatori del Fascio rivoluzionario d'azione interventista che diffuse un manifesto rivolto ai lavoratori italiani in favore dell'entrata in guerra della nazione[13]. Nei suoi articoli, in particolare, si scagliava contro i socialisti, che negavano «la persistenza dei motivi di nazionalità», arroccati in un pacifismo astratto, complici della «bancarotta fraudolenta del vecchio internazionalismo», e perciò definiti «reazionari», laddove «il più grave problema per i veri e sinceri rivoluzionari» risiedeva ora nel «coordinare la rivoluzione sociale col fatto nazionale»[14]; sicché il socialismo, difensore di uno status quo, non era per Olivetti capace di intendere che le rivendicazioni nazionali erano, in quel preciso momento storico, «la necessaria tappa di passaggio innanzi alle rivendicazioni sociali»[15]. Al contrario la guerra, sempre secondo l'intellettuale ravennate, avrebbe contribuito a «compiere i fati della nazione» e a completare definitivamente «l'opera fatale di unificazione della nazione e della stirpe»[16]. Più in generale, egli intravedeva nella lotta tra l'Italia e le potenze nemiche la conflagrazione tra «l'internazionalismo bastardo dei tedeschi» e «l'universalismo latino», definendo quest'ultimo un «internazionalismo integrativo, non negativo delle nazionalità»[17].

Tra il 1918 e 1922, pertanto, difese le teorie del sindacalismo nazionale, collaborando altresì al settimanale di Edmondo Rossoni «L'Italia nostra», in cui sosteneva l'importanza fondamentale della fusione del concetto di nazione con quello di proletariato e di rivoluzione sociale:

«La classe non sta contro la patria, ma entro la patria. Se la classe annulla la patria compie opera stolta e parricida, perché nel suo vasto brigantaggio del mondo una tale opera non può che essere di profitto alla patria degli altri. (...) L'interesse operaio non è di negare la patria, ma di avervi una sempre maggiore parte. Come non è nel campo economico di voler diminuire la produzione della ricchezza, ma anzi di intensificarla e di conquistarne una maggiore porzione. Questa concezione rafforza la patria, perché la spinge a maggiore compattezza e ingagliardisce la classe operaia perché la spinge a maggiore solidarietà per conquistare maggiori diritti entro la patria. Ed affina la coscienza operaia perché le addita una conquista ideale, la più nobile, la più eletta, la più santa. La classe vive nella nazione e deve vivere per la nazione. In questa lotta la classe più numerosa e consapevole prevale e fa sua la patria, come si vince una bella donna dopo prove e aspri cimenti. Noi vogliamo l'Italia del popolo, di tutto il popolo italiano e non di caste esclusive per quanto rachitiche e impotenti, non una Italia prona allo straniero per dispetto alle classi dominanti italiane. L'internazionalismo operaio, come è concepito dal socialismo ufficiale, è reazione tedescofila, e perciò feudale e militaristica. Il patriottismo operaio, come lo concepisce con perfetta coerenza il sindacalismo rivoluzionario, è conquista, rivoluzione nazionale, è la continuità della tradizione dei nostri grandi»

Nel 1921, al congresso nazionale dell'Unione italiana del lavoro (che al tempo aveva già rotto con Rossoni e i sindacalisti fascisti), presentò poi il suo Manifesto dei sindacalisti, che riassumeva le tesi del sindacalismo nazionale:

«Il sindacalismo riconosce il fatto e l'esistenza della nazione come realtà storica immanente che non intende negare, ma integrare. La nazione stessa anzi è concepita come il più grande sindacato, come l'associazione libera di tutte le forze produttive di un paese in quei limiti e con quella unità che furono imposti dalla natura della storia, dalla lingua e dal genio profondo e invincibile della stirpe. Il fatto nazionale è immanente, fondamentale e supremo, è il massimo interesse per tutti i produttori. Estranei alla nazione sono solo i parassiti, gli elementi improduttivi»

Con l'epilogo dell'impresa fiumana, inoltre, si attuò una convergenza tra il sindacalismo nazionale olivettiano e il movimento dannunziano, tanto che era in preparazione un quotidiano nazionale ispirato alla figura carismatica e rivoluzionaria del «Comandante» (con quest'ultimo presidente onorario e Olivetti direttore), punto d'incontro tra le teorie del Manifesto dei sindacalisti e la bozza costituzionale deambrisiana della Carta del Carnaro[20]. Nonostante l'operazione fosse poi sfumata per un ripensamento del «Vate», Olivetti riuscì nondimeno a fondare il settimanale «La Patria del popolo», che aveva come significativo sottotitolo «settimanale sindacalista-dannunziano».

Infine, se in un primo momento si era dimostrato diffidente (e talvolta esplicitamente ostile) nei confronti del fascismo in generale e della rossoniana Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali in particolare, a seguito della «Marcia su Roma» Olivetti si avvicinò sempre più al partito del suo vecchio amico Mussolini.

Dal sindacalismo nazionale al fascismo e al corporativismo modifica

Olivetti si mostrò possibilista nei confronti del fascismo all'inizio del 1924, per poi avvicinarsi sensibilmente al movimento mussoliniano a seguito del delitto Matteotti, cominciando a collaborare a «Il Popolo d'Italia», inizialmente sotto lo pseudonimo di Lo spettatore. L'adesione al fascismo fu dettata sostanzialmente da due ordini di ragioni:

«Influirono, cioè, sulla scelta olivettiana tanto la natura generosa e donchisciottesca dell'uomo che lo portava a schierarsi con i più deboli (in quel momento con un antico compagno di battaglie rivoluzionarie), quanto la speranza, una volta risolta la crisi, di poter influire, con il suo prestigio personale, sul capo del fascismo fino ad indirizzarne le scelte operative»

Già prima dell'adesione al fascismo, comunque, partecipò al dibattito sorto negli anni 1923-1924 sul sindacalismo, nel periodo cioè in cui, con il cosiddetto «Patto di Palazzo Chigi» (19 dicembre 1923), era praticamente tramontato il progetto rossoniano del «sindacalismo integrale», ossia l'accorpamento dei sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro in un unico ente corporativo (guidato ovviamente da Rossoni, soprannominato per il suo enorme potere il «papa rosso»). Olivetti infatti, intervenendo già in aprile sulla rossoniana «La Stirpe», oltre a stroncare il sindacalismo di matrice socialista, affermò esplicitamente di intravedere nel fascismo un «sindacalismo nazionale che si deve attuare giorno per giorno per la ricostruzione tecnica della nazione», definendo altresì questo sindacalismo integrale come

«moto stesso della trasformazione sociale, una specie di nuova cristallizzazione dei gruppi sociali in formazione segnanti il trapasso dalla società individualistica dominata intieramente dal principio della concorrenza borghese, alla società dei produttori di domani dominata soprattutto da due principî etici superiori: quello della solidarietà dei produttori e quello della Nazione concepita come il sindacato dei sindacati, come la realtà storica e fisica che impersona la vita di un popolo»

L'articolo, infine, si concludeva con un significativo appello a sostituire il termine "sindacato" («che ha solo il carattere di resistenza e lotta») con quello di "corporazione" («che implica un carattere costruttivo e formativo»)[22].

Ma Olivetti si distinse soprattutto sulle colonne de «Il Popolo d'Italia», di cui «divenne presto una delle penne di punta», tanto da essere molto apprezzato e seguìto da Mussolini stesso[23]. Particolarmente accesa e aspra fu, poi, la polemica scoppiata tra lui — impegnato a difendere il fascismo dagli attacchi esterni — e Luigi Albertini, il direttore del «Corriere della Sera»[24]. Alle critiche del quotidiano milanese e al suo tradizionale liberalismo moderato, nonché legalitario e costituzionale, Olivetti contrappose il sindacalismo fascista in quanto «liberalismo dinamico», di contro a quello «statico» che il «Corriere» — a detta del giornalista ravennate — intendeva preservare dagli intenti rivoluzionari del fascismo:

«L'originalità grande del sindacalismo fu quella di avere scoperto il produttore sotto il cittadino. La concezione monca e conservativa del liberalismo statico consiste nel ritenere di aver dato tutta la libertà con la libertà politica. Il suffragio universale è l'ultima Thule della libertà. E qui interviene allora il socialismo ad impugnare il principio stesso ed inchiodare lo Stato liberale con la sua critica fino a questo punto esattissima e feconda. Ma il liberalismo dinamico, che è il sindacalismo, non intende fermarsi alla prima stazione e vuol raggiungere tutta la libertà, ossia quella del produttore oltre a quella del cittadino; questa senza quella è una vana lustra, una illusione, se non pure un'ironia. Lanciare un'idea simile vuol dire gettare lo scompiglio in tutto il vecchio mondo dei conservatori di ogni specie»

Nello stesso periodo, sempre sul giornale mussoliniano, tracciò le linee teoriche dello «Stato nuovo» fascista, contrapposto a quello liberale e al contempo a quello socialista, e che doveva configurarsi come uno "Stato sindacale", da raggiungersi grazie all'azione antistastalistica del sindacalismo, la quale aveva il compito di demolire la vecchia architettura statuale al fine di permettere l'edificazione della nuova:

«Il sindacalismo è antistatale in quanto tende ad innovare la vecchia concezione dello Stato ed è antisocialista in quanto vede nel socialismo esasperati e non soppressi i difetti dello Stato borghese. Esso preconizza un organismo nazionale costituito non di elementi monocellulari, forma inferiore biologica, bensì da una coordinazione di tessuti ciascheduno dei quali compirà armonicamente con gli altri la propria funzione. Concepita in tal guisa la rivoluzione sindacale non può essere che ricostruttiva. Lo Stato nuovo sarà lo Stato dei sindacati ed il terreno stesso della contesa politica e sociale viene intieramente rinnovato»

L'Olivetti plaudì inoltre alla svolta autoritaria del 3 gennaio 1925, precisando in particolare quella che per lui era la differenza che intercorreva tra una «libertà nominale, ovverosia democratica» e una «libertà integrale e sostanziale», la quale poteva realizzarsi anche grazie a un «governo assoluto», qualora questo avesse dato al lavoratore

«tutta la libertà del lavoro, ossia la libera scelta del lavoro nelle libere associazioni produttive auspicate dal Mazzini, ed una rigorosa giustizia implicante la libertà contrattuale pel lavoratore»

In ambito più strettamente politico, dal settembre del 1924 al giugno 1925, fece parte della cosiddetta «commissione dei quindici» (poi «dei diciotto»), nominata dal PNF, incaricata di discutere e preparare una vasta riforma degli ordinamenti politici e sociali, della quale era presidente Giovanni Gentile e che era composta — tra gli altri — da Enrico Corradini, Agostino Lanzillo, Edmondo Rossoni, Francesco Ercole, Santi Romano e Gioacchino Volpe. Nelle divergenze di idee tra alcuni dei membri (che avranno strascichi anche dopo la fine dei lavori), l'Olivetti si schierò nell'ala di maggioranza, che perorava una ristrutturazione statuale su base corporativa, e che per l'intellettuale ravennate, in particolare, «doveva segnare il colpo d'arresto della politica elettorale, temperare se non sopprimere il suffragio elettorale politico, e sostituirlo con quello corporativo, creare lo Stato organico in luogo di quello liberale»[28].

Avversò inoltre lo strapotere della Confederazione rossoniana, esercitando un notevole influsso sulle decisioni di Mussolini che portarono allo «sbloccamanto» dei sindacati, ossia lo smembramento della Confederazione stessa in altre sei[29]. Diede altresì un contributo indiretto, seppur importante, alla stesura della Carta del Lavoro (1927): fu lui l'ispiratore infatti della concezione, recepita dalla Carta, del lavoro in quanto «funzione economica e sociale» e in quanto «fatto nazionale»[30]. Una volta proclamata, Olivetti ne fu entusiasta, lodandola come superamento del liberalismo e del comunismo in campo economico-sociale, e mostrando quelli che per lui erano i suoi punti di maggior importanza, soprattutto in quanto apportatori di benefici ai lavoratori: il carattere giuridico e obbligatorio del contratto collettivo di lavoro, l'indennità di licenziamento, e il principio del controllo dello Stato sulla produzione.

Nel 1929 invece, in occasione del primo plebiscito (24 marzo), ravvide in quest'ultimo una riforma elettorale adeguata al nuovo Stato corporativo in cui, al mandato politico («una delegazione di potere»), subentrasse il mandato corporativo, ossia un «affidamento di funzione» in grado di rispondere agli interessi organici delle categorie produttive e, soprattutto, al supremo interesse della nazione[31].

L'anno successivo, nel suo Lineamenti del nuovo Stato italiano, riassunse e compendiò tutta la sua elaborazione teorica sullo Stato corporativo, in cui ribadiva l'importanza delle élite politiche dinamiche e volitive, il concetto di «aristocrazia dei produttori» (cioè la nuova classe dirigente che il fascismo stava creando) e il controllo della produzione nazionale da parte dello Stato.

Nel 1931 fu infine nominato da Sergio Panunzio professore ordinario presso la neonata Facoltà Fascista di Scienze Politiche dell'Università di Perugia, ove insegnò storia delle dottrine politiche.

Morì a Spoleto, nello stesso anno, a causa di un infarto.

Opere modifica

  • Per la interpretazione economica della storia: alcune note sull'assegnazione coloniaria nel diritto e nella vita romana, Treves, Bologna 1898.
  • Discussioni socialiste sulla questione religiosa, Cooperativa Tipografica Sociale, Lugano 1904.
  • Problemi del socialismo contemporaneo, Società editrice Avanguardia, Lugano 1906.
  • Questioni contemporanee, Partenopea, Napoli 1913.
  • La mia espulsione dalla Svizzera: fatti e documenti, Tipografia Cooperativa Veresina, Varese 1913.
  • Azione diretta e mediazione, Società Editrice Partenopea, Napoli 1914.
  • Cinque anni di sindacalismo e di lotta proletaria in Italia, Società Editrice Partenopea, Napoli 1914.
  • Bolscevismo, comunismo e sindacalismo, Rivista Nazionale, Milano 1919.
  • Storia critica dell'utopia comunistica, Libreria del Littorio, Roma 1930.
  • Lineamenti del nuovo Stato italiano, Libreria del Littorio, Roma 1930.
  • Commercio e corporativismo (con Mario Racheli), Colombo, Roma 1934.

Note modifica

  1. ^ Perfetti 1984Introduzione, p. 11.
  2. ^ Perfetti 1984, pp. 11-12.
  3. ^ Angelo Oliviero Olivetti, Per la interpretazione economica della storia: alcune note sull'assegnazione coloniaria nel diritto e nella vita romana, Treves, Bologna 1898.
  4. ^ Perfetti 1984, p. 19.
  5. ^ Vedi W. Gianinazzi, Pagine libere et Il Divenire sociale, «Cahiers Georges Sorel», 5, 1987.]
  6. ^ Olivetti, Problemi del socialismo contemporaneo, Società editrice Avanguardia, Lugano 1906, pp. 219 e 269.
  7. ^ Presentazione, in «Pagine Libere», 15 dicembre 1906.
  8. ^ Perfetti 1984, pp. 31-32: «Durante la sua esperienza svizzera, Mussolini (...) fu, in particolare, molto legato ad Angelo Oliviero Olivetti di cui frequentava abitualmente la casa e con il quale aveva un continuo scambio di idee. La curiosità intellettuale di Olivetti, la ricca cultura di questi (...) contribuirono a far sorgere, sviluppare e consolidarsi, tra l'Olivetti appunto e Mussolini, un rapporto di stima e di amicizia, che non verrà mai meno».
  9. ^ De Felice, pp. 41-42.
  10. ^ Opera omnia, vol. XXXIV, La Fenice, Firenze 1961, p. 122.
  11. ^ Sindacalismo e nazionalismo, in «Pagine Libere», 15 febbraio 1911.
  12. ^ Perfetti 1984, pp. 37-43.
  13. ^ Il testo del manifesto è riportato in De Felice, pp. 679-681.
  14. ^ Olivetti, Ricominciando..., in «Pagine Libere», 10 ottobre 1914.
  15. ^ Olivetti, Salutatemi i pacifisti, in «Pagine Libere», 10 ottobre 1914.
  16. ^ Olivetti, Risposta all'inchiesta sulla guerra europea, in «Pagine Libere», 30 ottobre 1914.
  17. ^ Olivetti, Luce più luce, in «Pagine Libere», 20 marzo 1915.
  18. ^ Nazione e classe, in «L'Italia nostra», 1º maggio 1918.
  19. ^ Manifesto dei sindacalisti, in «Pagine Libere», aprile-maggio 1921.
  20. ^ Perfetti 1984, pp. 68-71.
  21. ^ Perfetti 1984, p. 76.
  22. ^ Olivetti, Sindacalismo integrale, in «La Stirpe», aprile 1924.
  23. ^ Perfetti 1984, pp. 78-81.
  24. ^ La diatriba, molto lunga e su diversi temi, durò dall'agosto del 1924 all'inizio dell'anno successivo.
  25. ^ La seconda ai Corinti, in «Il Popolo d'Italia», 30 agosto 1924.
  26. ^ Lo Stato dei sindacati, in «Il Popolo d'Italia», 16 luglio 1924.
  27. ^ Libertà vo' cercando, in «Il Popolo d'Italia», 31 gennaio 1925.
  28. ^ Lettera di Olivetti a Carlo Costamagna, 24 settembre 1925.
  29. ^ Perfetti 1984, pp. 90-101.
  30. ^ Perfetti 1984, pp. 95-96.
  31. ^ Olivetti, Mandato politico e mandato corporativo, in «Il Popolo d'Italia», 21 febbraio 1929.

Bibliografia modifica

  • Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, Roma-Bari 1974.
  • Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario (1883-1920), Torino, Einaudi, 1965.
  • Emilio Gentile, Le origini dell'ideologia fascista (1918-1925), 2ª ed., Il Mulino, Bologna, 1996.
  • Willy Gianinazzi, ´Intellettuali in bilico. «Pagine libere» e i sindacalisti rivoluzionari prima del fascismo, Unicopli, Milano 1996.
  • Benito Mussolini, Opera omnia, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, 44 voll., La Fenice, Firenze-Roma 1951-1963.
  • Angelo Oliviero Olivetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, a cura e con saggio introduttivo di Francesco Perfetti, Roma, Bonacci, 1984.
  • Giuseppe Parlato, La sinistra fascista: storia di un progetto mancato, Il Mulino, Bologna 2000.
  • Giuseppe Parlato, Il sindacalismo fascista, vol. II: Dalla grande crisi alla caduta del regime (1930-1943), Bonacci, Roma 1989.
  • Francesco Perfetti, Il sindacalismo fascista, vol. I: Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919-1930), Bonacci, Roma 1988.
  • Francesco Perfetti, Lo Stato fascista: le basi sindacali e corporative, Le Lettere, Firenze 2010.
  • Zeev Sternhell, Nascita dell'ideologia fascista (1989), tr. it., Baldini e Castoldi, Milano 1993.

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