Arischia

frazione del comune italiano di L'Aquila

Arischia è una frazione del comune di L'Aquila, posta ad un'altitudine di 860 metri s.l.m. e distante circa 14 km a nord-ovest del capoluogo. Il territorio arischiese confina a sud con le frazioni di San Vittorino e Coppito, a ovest con il comune di Pizzoli, a nord con il comune di Campotosto e a est con le frazioni di Pettino e Collebrincioni e con il capoluogo L’Aquila. È attraversata dalla Strada Nazionale S.S. 80 del Gran Sasso di Italia anche denominata Strada maestra del Parco che, passando per il Passo delle Capannelle, conduce a Teramo e a Giulianova. L’abitato, adagiato alle pendici di Monte Omo, è diviso negli storici quattro quarti: il Colle (dial. Ju Colle), la Villa (dial. La ‘Illa), il Fossato (dial. Ju Fossatu) e la Piazza (dial. ‘nanzi alla Chiesa).

Arischia
Circoscrizione
Localizzazione
StatoItalia Italia
Regione Abruzzo
Provincia L'Aquila
Comune L'Aquila
Territorio
Coordinate42°25′05.45″N 13°20′26.7″E / 42.41818°N 13.34075°E42.41818; 13.34075 (Arischia)
Altitudine860 m s.l.m.
Abitanti1 800 (31/12/2009)
Altre informazioni
Cod. postale67011
Prefisso0862
Fuso orarioUTC+1
Cod. catastaleA406
Nome abitantiArischiesi
PatronoSan Benedetto da Norcia
Giorno festivo21 marzo
Cartografia
Mappa di localizzazione: Italia
Arischia
Arischia

StoriaModifica

OriginiModifica

Le origini di Arischia sono tuttora molto incerte, tuttavia reperti archeologici ne testimoniano l'esistenza già in epoca romana, vista la vicinanza della città di Amiternum. Le rilevanti cisterne rinvenute sotto il pavimento dell’Abbazia di San Benedetto indicano la presenza sul luogo di grandi abitazioni romane, in particolare domus, che necessitavano di molta acqua. Il toponimo latino Ofinianus (derivato da Aufidius) colloca nelle immediate vicinanze del borgo i pascoli, le strutture e i fabbricati adibiti all’allevamento di Publio Aufidio Ponziano ricordato perfino da Varrone[1]. Il territorio era attraversato trasversalmente dalla Via Caecilia.

Epoca tardoantica: dalla caduta di Amiternum all’avvento di FarfaModifica

Dopo la distruzione di Amiternum, anche il vicus di Arischia subì una lenta decadenza. dovuta alla mancanza delle strutture sociali e politiche amiternine e all’arrivo dei longobardi. Negli stessi anni il luogo vede la prima ondata di cristianizzazione grazie all’opera dei monaci equiziani del vicino monastero di San Lorenzo di Marruci. Il primo nucleo della futura Abbazia di San Benedetto è stato fondato proprio dai monaci di sant’Equizio sui ruderi delle antiche cisterne romane. Comincia a strutturarsi anche il toponimo, che nei documenti farfensi e aquilani si presenta nelle forme Ascle, Ariscla, Ariscle, Oriscola, Ariscola e, più tardi, Arischia. In lingua latina il toponimo è Ariscola e, di conseguenza, il nome degli abitanti è ariscolanus, -a, -um, -i, -ae, -a.

Nel 765 d. C. il gualdo di Arischia, per decreto del duca di Spoleto Teodicio, viene concesso all’Abbazia di Farfa.

La rifondazione saracena, la diffusione dell’islam e il ritorno del cristianesimoModifica

Dopo le vicissitudini legate alla presenza dei longobardi e le distruzioni da essi compiute, nel IX secolo il territorio di Arischia viene visitato da una colonia di donne saracene, sopravvissute alla distruzione di Traetto, nel Garigliano, giunte sul luogo dopo aver attraversato la Valle del Liri, la Marsica e il Cicolano. L’arrivo delle donne saracene coincide con la rifondazione del paese e con l’introduzione dell’islam[2][3]. Il passato islamico è ancora ben visibile nel simbolo principale del paese, ovvero la mezzaluna e la stella, posto sui portali dell’Abbazia di San Benedetto, sul portale della Madonna della Cona e su numerose abitazioni del borgo. Arischia dispone anche di un altro stemma molto vicino alla simbologia islamica, ovvero la mano aperta, che richiama chiaramente la Mano di Fatima. Su questo simbolo si è molto discusso e sono state avanzate anche probabili origini benedettine dello stesso, ma, essendo la mano in questione rappresentata aperta e non benedicente come in altri contesti monastici, si può scartare la filiazione benedettina.

Il ritorno del cristianesimo avviene per opera dei benedettini che, avendo ormai inglobato definitivamente il movimento equiziano, ne ereditano anche i luoghi e i monasteri. I monaci ricostruiscono l’abbazia dedicandola a san Benedetto, organizzano la comunità monastica attorno a un abate, inaugurano un’economia basata principalmente sull’allevamento di ovini e ridanno impulso al ripopolamento del vecchio vicus, che gradualmente si struttura attorno al loro centro di culto[4]. La popolazione arischiese che decise di convertirsi al cristianesimo rimase nel borgo, mentre coloro che vollero rimanere musulmani si spostarono ad est e fondarono un nuovo castello, Sarracciano, e i loro morti vennero sepolti nella Valle Saracena o del Ferone, una gola naturale rivolta a oriente[5]. Della fortificazione di Sarracciano rimangono ancora resti importanti, che indicano una frequentazione del posto anche nella più tarda epoca normanna [6]. Erroneamente si crede che questa roccaforte possa essere stato il castello di Arischia, il quale invece con molta probabilità doveva trovarsi sotto la chiesa di San Michele in una posizione più vicina all’attuale centro abitato.

Il MedioevoModifica

Nel 1156 il castello di Arischia, di origine longobarda, viene citato nel Catalogus Baronum insieme ad altri castelli del territorio amiternino e novertino (monterealese) [7].

Nel 1254 partecipa attivamente alla fondazione della città dell'Aquila. Ad Arischia viene affidato una porzione di territorio nel quarto amiternino di San Pietro nel quale viene costruita l’Abbazia di San Benedetto intra moenia distrutta nel Novecento per far posto al Viale Duca degli Abruzzi[8]. In questa chiesa avrà sede la Confraternita di San Sebastiano.

Il 18 settembre 1379 il paese, entrato nelle lotte intestine tra i Camponeschi e i Pretatti, viene saccheggiato dalla soldataglia del nobiluomo aquilano Francesco Antonio Pretatti[9].

Nel tardo medioevo il paese diventa feudo delle famiglie Pica[10][11]. Nel 1532 durante l’occupazione spagnola il feudo viene concesso ai capitani spagnoli Jayme Ros (morto senza eredi) e, successivamente, a Ferrando de Figueroa[12].

Dopo il periodo spagnolo la baronia di Arischia viene riacquistata dalla nobiltà aquilana.

Nel 1562 il nobile aquilano Giovanni Francesco Porcinari compra il feudo, che rimarrà di proprietà della famiglia fino al 1595.

Con l’estinzione del ramo arischiese dei Porcinari, il feudo passa nelle proprietà della famiglia Alfieri: Ascanio e, successivamente, Filippo Alfieri ne sono baroni fino al 1595.

Nel 1630 muore il barone Pirro Alfieri Ossorio e nel 1644 Arischia viene ‘rilevato’ dal figlio Alessandro, barone e cavaliere gerosolimitano[13]

Nel 1647 gli arischiesi, sull’onda dei disordini diffusi nel Regno di Napoli, si ribellano al barone Lorenzo Alfieri Ossorio[14]

I terremoti del 1703Modifica

Il territorio di Arischia, come tutto l’Alto Aterno e l’aquilano, viene sconvolto dai terremoti del 1703. Con la scossa del 14 gennaio nei pressi del borgo si formarono due aperture nel suolo dalle quali fuoriuscirono pietre e grandi quantità d'acqua, che formarono un piccolo bacino idrico[15]. Il terremoto 2 febbraio 1703, stimato XI grado della scala Mercalli, viene classificato come completamente distruttivo. La quasi totalità dell’abitato viene rasa al suolo. Ad Arischia furono contate 400 vittime, buona parte delle quali perì nella chiesa parrocchiale, lì riunite per la celebrazione della Candelora. A causa del terremoto i fuochi censiti passarono da 283 a 247.

Epoca moderna: il decreto del 1927 e il 1947Modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Grande Aquila.

È stato uno dei borghi che contribuirono alla fondazione della città dell'Aquila e fino al 1927 è stato comune a sé stante.

Trattasi del Regio Decreto-legge del 29 luglio 1927 numero 1564 che prevede la soppressione e l'annessione al comune dell'Aquila degli Abruzzi dei comuni di Arischia, Bagno, Camarda, Lucoli, Paganica, Preturo, Roio, Sassa, nonché la frazione di San Vittorino del comune di Pizzoli. Nel 1947 Lucoli dopo essere stato per 20 anni una frazione dell'Aquila fu il solo a riuscire a ritornare comune autonomo a differenza degli altri 7 comuni soppressi.

Secondo alcuni studi sarebbe stato originario del luogo lo scultore Silvestro de Ariscola vissuto nel secolo XV che lavorò al sepolcro di Maria Pereira moglie di Pietro Lalle Camponeschi nella basilica di San Bernardino.

Terremoto del 2009Modifica

Arischia è uno dei borghi aquilani devastati dal terremoto del 6 aprile 2009. Nonostante non ci siano state vittime dovute a crolli di abitazione il borgo è stato in parte distrutto dal sisma. Numerose abitazioni nelle zone Fossato e Colle sono state abbattute in seguito ai danni strutturali riportati. La chiesa parrocchiale è profondamente danneggiata, la scuola elementare Ten. Crescenzo Taranta inaugurata nel 1958 è stata abbattuta. Riguardo ai dati della ricostruzione, la chiesa di San Benedetto è stata ricostruita nel 2015.

Monumenti e luoghi d'interesseModifica

Architetture religioseModifica

Abbazia di San Benedetto in ArischiaModifica

L'abbazia di San Benedetto è il monumento principale di Arischia, si trova al centro della frazione ed è ben inserita all’interno del contesto urbanistico.

La chiesa fu costruita nel XI secolo, come riportato nel Catalogus Baronum nel 1157, e viene edificata su una struttura più antica di epoca romana (molto probabilmente una domus), che ospitò la prima abbazia equiziana successivamente, con l’arrivo dei monaci benedettini, dedicata a san Benedetto. I sotterranei riscoperti nei primi anni del 2000, antiche cisterne domestiche, mostrano ancora la fattura romana del pregevole rivestimento in cocciopesto. La grandezza, l’ampiezza è l’altezza di questi ambienti ipogei fanno immaginare l’importanza del luogo al quale garantivano consistenti quantità di acqua. Per molti secoli questi locali sono stati utilizzati per la collocazione dei defunti della parrocchia.

L'imponente facciata abbaziale ha una cortina muraria rifinita con conci di pietra legati con malta. L'assetto compositivo esterno, con parte centrale con il coronamento a spioventi, riflette l'organizzazione degli spazi interni a tre navate. Ciascuna delle tre divisioni della facciata mostra un rosone, eccetto l'oculo centrale in sommità che ospita l'orologio. La raffinatezza d'intaglio delle mostre lapidee di queste tre finestre induce a pensare all'eventuale presenza di trafori in pietra andati perduti per via di terremoti. La facciata ha vissuto vicende alterne di ricostruzione, tra le quali il riutilizzo grezzo di altro materiale dopo il terremoto di Avezzano del 1915, e il successivo restauro del 1928. In alcune fotografie storiche pre-1927, la facciata si presentava assai manomessa, con la parte superiore ricostruita in mattoni in cotto, rispetto alla pietra bianca della parte inferiore. Successivamente i lavori di ripristino rimossero il finestrone centrale, inserendovi un orologio, e anche la sommità in seguito venne modificata con un rialzo centrale terminante a spioventi. Durante i lavori del dopo terremoto 2009 alla facciata, tra le pietre smontate sono state ritrovate alcune che sul retro presentano iscrizioni e fregi; su una di queste c'è la scritta "sumptibus" a indicare il committente. Il reperto sarebbe stato asportato dal pavimento, tagliato e rifinito per essere utilizzato per la facciata, e alcuni storici pensano che il pezzo di pietra appartenesse al pavimento originale dell'abbazia. Nella parte bassa della facciata sono presenti anche altri simboli: un’aquila, delle croci e il nodo di Salomone sono i particolari scolpiti più degni di attenzione.

Alla base della facciata ci sono tre portali romanici, conservatisi perfettamente, con il tipico arco a tutto sesto e lunetta, in origine affrescata. Il portale principale è attribuito a Silvestro dell’Aquila, mentre i due laterali alla sua scuola. Con il tempo sugli architravi dei portali sono stati aggiunti titoli e dediche dei procuratori che ne hanno curato il restauro. Sopra ogni portale campeggia la mezzaluna e la stella stemma principale del paese.

La pianta longitudinale è a croce latina, con bracci del transetto sporgenti e abside rettangolare. L'interno a tre navate è stato completamente ricostruito dopo il terremoto del 1703 in stile tardo-barocco, mostrandosi in forme tuttavia tipicamente neoclassiche in seguito ad altri restauri. Un altro sisma che ha caratterizzato profondamente la storia dell’Abbazia è stato quello del 1950: le scosse, comprese tra il marzo e il settembre, provocarono diversi crolli che fecero chiudere lo stabile per ben dieci anni. I restauri successivi e gli aggiustamenti suggeriti dalla riforma liturgica del Concilio Vaticano II portarono alla scomparsa di sette altari laterali e alla conservazione dei restanti cinque altari principali: l’altare dell’Addolorata; l’altare della Madonna del Rosario; l’altare maggiore; l’altare dei santi Benedetto e Scolastica e l’altare di sant’Antonio abate. Molto interessanti sono le tele dipinte da autori napoletani e romani e ospitate negli altari della chiesa: da ricordare la monumentale Ultima Cena dell’altare maggiore, la Madonna del Rosario, la tela di San Benedetto e Scolastica, il quadro di San Spiridione, le tele di sant’Antonio abate, Sant’Agostino e Sant’Emidio, San Carlo Borromeo e la Madonna con Bambino tra i santi Gennaro e Gregorio armeno. Le altre tele non menzionate sono state realizzate nei secoli successivi. Il terremoto del 2009 ha nuovamente compromesso tutta la struttura provocando numerosi crolli e lesioni. I restauri parziali che hanno interessato la chiesa hanno portato alla riscoperta di antichi affreschi di interessante fattura.

Nella parte retrostante è presente la poderosa torre, la torre campanaria. Le pareti del campanile sono molto interessanti perché riportano le date di tutte le ricostruzioni della chiesa dopo i tanti terremoti che l’hanno colpita. Fino alla metà del secolo scorso alla base della torre erano presenti tre croci, che danno anche il nome alla zona sottostante Le croci, in dialetto Le cruci.

Dietro la chiesa e nei pressi della torre era presente fino al 2019 un'altra struttura di modeste dimensioni, ma di non poca importanza storica. La chiesola, in dialetto la chesciola, doveva essere un locale attiguo e di servizio della vicina abbazia. Consistente in due locali posti su due piani, i locali posti al piano terra molto probabilmente dovettero ospitare nell’Ottocento le prigioni francesi. Durante la ricostruzione dei passati terremoti, lo spazio posto al primo piano è stato utilizzato come chiesa. La chiesola è stata demolita recentemente.

Chiesa della Madonna della Cona o del PoggioModifica

Su Via Monte Stabiata si può incontrare la chiesa della Madonna della Cona o, nei documenti diocesani, del Poggio. Il titolo della chiesa viene dal particolare affresco della Madonna con Bambino in trono, presente su quello che era l’altare maggiore. La parete sulla quale insiste presenta altri elementi di affresco, rappresentanti santi e sante di difficile identificazione. Nella chiesa è presente anche un altro altare dedicato alla Santa Croce. Di raffinata fattura è il portale della chiesa sul quale si affiancano il simbolo saraceno di Arischia e il trigramma bernardiniano. Fino al terremoto del 2009 la chiesa veniva utilizzata come cappella cimiteriale, attualmente, data l’inagibilità, è chiusa ed è in attesa di essere restaurata.

Chiesa di San Michele Arcangelo e castello di ArischiaModifica

Sulla cima del monte soprastante l'abitato di Arischia, nascosta nella pineta, si ergono i resti della chiesa di san Michele arcangelo (in dialetto arischiese Sant'Agneru). Dell’antica chiesa, ad aula unica, rimangono i muri perimetrali, ad eccezione del lato a settentrione crollato e sprofondato nella ripida valle sottostante. La chiesa nasce sicuramente su un precedente luogo di culto dedicato all’arcangelo Michele, diffuso nell’amiternino in concomitanza con l'occupazione longobarda. La facciata mantiene ancora elementi dello stucco originario e, nella parte interna, piccole tracce degli affreschi. Anche se dalle visite pastorali la chiesa risulta sempre chiusa al culto, la popolazione locale fino agli anni ‘50 ancora saliva sulla cima del colle per venerare San Michele il 2 febbraio e il 29 settembre. La morfologia del monte, l’altezza della cima e la presenza di grotte giustificano il culto lì praticato, legato sia alla  dimensione celeste che alla natura ctonia (Michele psicopompo) dell’arcangelo.

Recentemente si sta facendo sempre più credibile la localizzazione del castello di Arischia sotto l’attuale chiesa. Finora non si era riusciti a dare una determinazione precisa di quello che doveva essere il castello di Arischia, che concorse alla fondazione dell'Aquila. Il luogo di culto infatti poggia su delle strutture preesistenti, visibili e ben possenti. L’ipotesi è surrogata anche dalla toponomastica del luogo, l’edificio è immediatamente soprastante il quartiere del borgo chiamato Ju Castejjittu (Il Castelletto), e dalla particolare posizione, che è visibile e dialoga con gli altri castelli amiternini di Pizzoli, Cesura, Preturo, San Vittorino e Sant'Anza.

Convento di San NicolaModifica

Esisteva già dal 1248 e dipendeva dal monastero di Santo Spirito di Ocre. Nel 1303 il Priore di Santo Spirito, con bolla di papa Alessandro IV concesse l'autonomia al convento. Distrutto dal terremoto del 1349, fu ricostruito con finanziamento di Iacobuccio Gaglioffi dell'Aquila. Successivamente appartenne ai Padri Clareni, ai quali Celestino V aveva concesso l'autonomia dal suo Ordine, nel 1460 il monastero passò ai Frati Minori con intercessione di Pio II e Anton Battista Gaglioffi. Il muro conventuale fu ricostruito nel 1639, e venduto al comune nel 1944, e altre mura vennero restaurate dal 1824 al 1836, e fino al 1880 ospitarono le tombe dei civili di Arischia perché non esisteva un vero e proprio camposanto.

Il convento sorge fuori Arischia, composto dalla chiesa a pianta rettangolare e dal convento maggiore a pianta quadrangolare. La chiesa ha la facciata barocca, preceduta da un portico con arcate, l'interno è a navata unica, di matrice settecentesca, con un prezioso coro ligneo. Il convento è provvisto di un chiostro interno con arcate e pozzo centrale, ed è usato per i viaggi spirituali delle comitive. Ha subito danni durante il terremoto del 2009 ed è ancora in ristrutturazione.

Chiesa ed eremo della Madonna delle PiaggeModifica

La chiesa viene edificata da maestranze abruzzesi nel XIV sec. sulla strada che da Arischia conduce a L’Aquila ed è dedicata alla Madonna delle Grazie. Dalle visite pastorali si evince che le celebrazioni principali vi si svolgevano durante il mese di maggio e il 2 luglio. La frequentazione della chiesa si interrompe nella prima parte del secolo scorso a causa degli eventi sismici del 1915 e del 1950, che ne compromettono seriamente l’agibilità. Nel 1990 si procede al restauro e alla ricostruzione della cappella in pietra a faccia a vista.

L’edificio mantiene ancora la struttura originaria ed è preceduto da un portico coperto e aperto ad arcata laterizia. L’interno è ad aula unica, completamente spoglia. Gli elementi più antichi ancora presenti risalgono al periodo rinascimentale e consistono nei resti di due altari votivi a mattoni, tipicamente quattro-cinquecenteschi, posti sulla parete absidale e sulla parete di sinistra, (le uniche rimaste in piedi dopo il terremoto del 1950). Gli affreschi che adornavano questi altari sono stati trafugati. Il soffitto è a capriate lignee a vista, mentre sul tetto a capanna svetta un piccolo campanile a vela.[16][17]

Alla chiesa si affianca quello che doveva essere l’eremo, due piccoli ambienti poveri e spogli posti su due piani.

Uno dei due affreschi trafugati rappresentava la Madonna degli Angeli, più precisamente sul cartiglio presente nell’affresco era scritto in volgare ‘Madonna delli Agneli’, tra san Benedetto abate patrono di Arischia, e san Michele Arcangelo, anch’esso molto venerato dalla popolazione arischiese. L’affresco si distingueva per la raffinatezza della fattura e la bellezza delle forme. Recentemente nella chiesa è stata posta riproduzione fotografica.

Grancia di San Severo di ArischiaModifica

Dedicata a Severo di Pitinum, vescovo di Pitinum e dispensator di Aufinum, o a Severo di Antrodoco, il cui culto si diffonde molto rapidamente nel territorio amiternino, la grancia di San Severo nasce su un precedente luogo di culto equiziano, dipendente dalla vicina abbazia di Arischia. La prima testimonianza della grancia farfense di San Severo risale al 975 d.C. anno in cui già è ascritto tra i possedimenti del monastero di Farfa[18]. Di impianto imponente, alcuni ambienti sono ancora visibili, ma non visitabili a causa dell’avanzato stato di distruzione. La struttura più ampia, di pianta rettangolare, mostra un curato e pregevole opus aquilanum nella  muratura; molto probabilmente questo locale doveva essere il granicum il magazzino dove deporre le granaglie e l’attigua abitazione. L’altra struttura, ben distinta dalla grancia è la chiesa di San Severo. Un ampio ambiente dove, fino a pochi decenni fa, erano ancora ammirabili i resti di un pregevole ciclo di affreschi, oggi perduto. Lo storico francescano p. Giacinto Marinangeli riuscì a identificare: “iniziando dall’angolo in cornu epistolae: S. Lucia, Madonna con Bambino, altra santa; S. Caterina d’Alessandria, S. Antonio Abbate. Irriconoscibile la figura successiva. Indi un Santo Vescovo e Dottore: forse S. Agostino od anche S. Martino”[19]. Di grande interesse è la volta a mattoni con apparecchio a spinapesce, ancora parzialmente in piedi nonostante l’incuria e i terremoti[20]. La grancia di San Severo ha avuto anche una sua importanza nella pianura sottostante e nella gestione dei territori amiternino e pitinate, infatti lo storico Ludovico Antinori trascrive che: “la chiesa di S. Severo in Valle Popera aveva dipendenti le due di S. Lucia in Valle Cupa in Cansatesse, e di S. Martino de Feronibus presso la Maina”. Conteso dai castelli di Arischia e Coppito, San Severo ha conosciuto anche una sua popolazione, della quale un piccolo monumento lapideo ne ricorda ancora i nomi. Nel 1234 San Severo viene donato alla Basilica Lateranense e nel 1294 papà Celestino V concede la grancia di San Severo all’abbazia di Santo Spirito al Morrone. Anticamente il 15 febbraio, nella festa del santo, giungevano sul luogo pellegrini provenienti da Arischia, Coppito, Cansatessa e dal quarto di San Pietro di L’Aquila.

Chiesa di Sant'Antonio al CupoModifica

La piccola chiesa di Sant'Antonio Abate nella Valle del Cupo è un classico esempio di architettura religiosa di ambito appenninico. Inserita in un contesto storico-archeologico degno di nota (rovine di Sarracciano, salere, presenza costante di rifugi a tholos), molto probabilmente la cappella nasce su un luogo di culto preesistente inglobato nella struttura settecentesca, ormai diruta[21].

La prima testimonianza storica certa che si ha del monumento è una pietra dedicatoria (trafugata negli anni Settanta) della quale rimane un'esigua documentazione fotografica. Sull’epigrafe era scritto in lingua volgare: “CHIESOLA DI SANT’ANT(ONIO) ABB(ATE)/ FATTA DI CARITÀ DE/ DIVOTI DEL SANTO/ DELLA PROC(URA) DIC (DETTA) PESC(E) D’A/SCENZO A(NNO) D(OMINI) 1733”. L’iscrizione, sopra tradotta, prevedeva al suo interno anche la riproduzione dello stemma di Arischia, la luna e la stella.

Il complesso consta di due vani: il primo, quasi totalmente distrutto, era adibito a luogo di culto, mentre il secondo ancora in piedi fungeva da rifugio per i pastori e le greggi. I due ambienti disponevano di volte a botte costruite con la pietra locale, delle quali permangono alcuni chiari resti[22].

Le edicole votive di Sant'Antonio Abate e San Vincenzo FerrerModifica

Ai due estremi dell'abitato, nei quartieri del Colle e della Villa, sono presenti due edicole votive dedicate a sant'Antonio abate e san Vincenzo Ferrer. La loro conformazione ricalca la semplice struttura delle cunnicelle abruzzesi: un unico ambiente all’interno del quale è presente la raffigurazione del santo, osservabile e venerabile attraverso una cancellata sulla facciata. La loro localizzazione suggerisce anche una funzione apotropaica delle stesse, poste a difesa e tutela del borgo.

Chiese non più esistentiModifica

Chiesa di San RoccoModifica

La chiesa di san Rocco si trovava nell’omonima piazza nel rione della Villa. La chiesa fu fondata nel XVI secolo come ex voto degli arischiesi per non essere stati colpiti dalla peste. La facciata, modesta ma con un pregevole cornicione e una piccola finestra rotonda nella parte superiore, era movimentata da un curato portale dotato di lunetta decorata e inserito tra due finestre di semplice fattura. Nella chiesa si ricordano l’altare maggiore dedicato al santo titolare e un altro altare laterale dedicato a sant’Onofrio. Fortemente lesionata dal terremoto del 1950, la chiesa è stata totalmente demolita. Dopo il terremoto del 2009 sulla stessa superficie della vecchia chiesa è stata costruita la chiesa provvisoria del paese.

Chiesa dell’Immacolata ConcezioneModifica

Costruita nel XVI secolo come cappella privata del palazzo baronale Pica-Alfieri, la chiesa era collegata ad esso da un passaggio ipogeo. All’interno della Chiesa vi era l’altare maggiore dell’Immacolata Concezione ed altri altari minori, tra cui quello di san Francesco e sant’Andrea Avellino. Dal secolo scorso è adibita ad abitazione privata.

Architetture civiliModifica

Palazzo BaronaleModifica

Il Palazzo Baronale è stato fino a pochi anni fa la costruzione più alta di Arischia, da dove era possibile dominare tutto il borgo. Poiché nessun documento in proposito è stato mai trovato, non si conosce il nome dell'architetto, la data precisa di fondazione e le fasi dei successivi ampliamenti, rifiniture e modifiche. Si può affermare però che, già nel primo Cinquecento, il palazzo aveva pressappoco la stessa planimetria e forma. Nel ‘700 il complesso baronale viene assediato, attaccato e bruciato dalle truppe francesi e, di conseguenza, da questo edificio partì il movimento di cacciata dei contingenti francesi presenti in città.

L’edificio ha una planimetria rettangolare, è aperto verso est dal maestoso e semplice portale di ingresso e verso ovest dal cortile interno. Diviso in pianterreno e piano nobile: nel pianterreno si concentra l’ingresso monumentale e nelle parti più estreme le stalle, mentre al secondo è collocato l'appartamento residenziale. Sul lato orientale è situata la stupenda facciata barocca: alta, snella e movimentata sulla parte superiore da grandi e curvilinee decorazioni barocche. Il Palazzo è completato da vani laterali di servizio. I principali spazi, ancora chiaramente identificabili, rimangono i locali residenziali del piano nobile, dove si sono succedute le famiglie nobili Pica, Porcinari, Ros, de Figueroa, Alfieri, Ossorio e, nel tardo Ottocento, le famiglie borghesi Ciavola e Cortelli. Pur se non rimane molto delle decorazioni pittoriche originarie, dagli ultimi restauri sono emersi particolari pittorici molto importanti che indicano come le pareti dovessero essere completamente affrescate. Il palazzo baronale di Arischia disponeva di un passaggio segreto, un criptoportico che lo univa alla cappella privata dell’Immacolata Concezione.

Palazzo del Comune VecchioModifica

Il Palazzo del Comune Vecchio si trova nel rione del Colle e insiste sul vecchio corso del paese, l’attuale Via Corso. L’edificio ospitava fino al 1927 il Comune di Arischia e, successivamente, per alcuni anni la delegazione comunale. La facciata era animata da un grande portale in pietra sovrastato da un’ampia finestra. Una scalinata in pietra permetteva di salire al piano superiore. Gli ambienti spaziosi del piano rialzato erano illuminati da una serie di finestre in pietra. In seguito agli eventi sismici del 2009 e degli anni successivi il primo piano è stato demolito per motivi di sicurezza e per garantire il transito su Via del Corso.

Palazzo PiazzaModifica

Palazzo Piazza sorgeva sulla piazza di Via Largo al Corso. L’imponente struttura di impianto quattrocentesco apparteneva alla famiglia Piazza, nobili giunti ad Arischia durante il periodo aragonese. Rimaneggiato in epoca cinquecentesca e riadattato in seguito ai tanti terremoti, l’edificio è stato recentemente demolito dopo il sisma del 2009. Il palazzo era provvisto di un ampio giardino con una pregevole cisterna in pietra. Attualmente è in attesa di essere ricostruito.

Fonte TondaModifica

Nella piazza principale di Arischia, nell’attuale Piazza Don Giovanni D’Eramo, si trova la Fonte Tonda (loc. Fonte Tonna), una delle prime fontane del paese. Costruita interamente in pietra, prende il nome dalla sua forma rotonda. Grazie alla sua presenza veniva assicurata l’acqua agli arischiesi.

Fonte degli ArchiModifica

Nella pianura sottostante si erge uno dei simboli più importanti del borgo, la Fonte degli Archi (loc. Archi ‘ella Fonte). La fontana medievale insiste su quella che doveva essere la Via Caecilia. Il monumento si compone di tre arcate ognuna provvista di un’ampia vasca. Nella prima arcata c’è la fonte vera e propria con gli stemmi del borgo. Nella sezione centrale invece ancora si vedono i resti di un affresco che doveva ricoprire tutta la parete, il soggetto in questione è la Madonna. Nell’ultima arcata non ci sono elementi interessanti.

AltroModifica

È sede del “Museo del Legno” presso il centro visite del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.

Luoghi d'interesse naturalisticoModifica

  • Pineta di pini rossi sulla strada e pendii che conducono al Passo delle Capannelle;
  • a sud della frazione si apre una vasta area montana che tra boschi, cime e radure, attraverso una rete di sentieri e percorsi escursionistici giunge all'Aquila, passando per le montagne di Aragno e Collebrincioni (Monte Stabiata) e con vista della dorsale occidentale-settentrionale del Gran Sasso.

SocietàModifica

Tradizioni e folcloreModifica

Ogni anno la seconda domenica di ottobre si tiene la tradizionale "fiera di ottobre" con il palio dei rioni "Renzo Martellucci" giunto alla 30ª edizione.

NoteModifica

  1. ^ La chiesa di San Paolo di Barete: dallo scavo al restauro. Venti secoli di storia riscoperta., p. 27.
  2. ^ Angelo Signorini, La diocesi di Aquila descritta e illustrata, Grossi, p. 331.
  3. ^ Massimo Olmi, Italia insolita e sconosciuta, Newton and Compton, 1991, p. 28.
  4. ^ Adriano Ghisetti Giavarina, Le fondazioni benedettine in Abruzzo e Puglia, 2007, p. 110.
  5. ^ Enrico Abbate, Guida al Gran Sasso di Italia, 1888, p. 196.
  6. ^ Alfonso Forgione, I castelli di Ocre, Ariscola e San Vittorino (L'Aquila)
  7. ^ Fabio Redi e Alfonso Forgione (a cura di), La chiesa di San Paolo di Barete: dallo scavo al restauro. Venti secoli di storia riscoperti., pp. 38 e 40.
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  9. ^ Matilde Oddo Bonafede, Storia popolare della città dell’Aquila degli Abruzzi dalla sua fondazione al 1888, Lanciano, Carabba, 1889, p. 122.
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  11. ^ L’Araldo: almanacco nobiliare del napoletano, Napoli, Detken Librajo editore, 1890, p. 237.
  12. ^ Raffaele Colapietra, Gli ultimi anni delle libertà comunali aquilane (1521-1529), p. 66.
  13. ^ Biagio Adimari, Memorie historiche di diverse famiglie nobili, così napoletane, come forastiere, 1691, p. 201.
  14. ^ Matilde Oddo Bonafede, Storia popolare della città dell’Aquila degli Abruzzi dalla sua fondazione al 1888, 1889, p. 246.
  15. ^ Terremoto del 14 gennaio 1703. Effetti sull’ambiente (PDF), su piedelpoggio.it.
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  17. ^ Angelo Signorini, La diocesi di Aquila: descritta e illustrata, vol. 1, Grossi, 1868.
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  19. ^ Giacinto Marinangeli, Severo pitinate dispensator nel 475 della chiesa di Aufinum, 1963, p. 42.
  20. ^ Carla Bartolomucci, L’uso di mattoni nell’Abruzzo aquilano. Primi riscontri mesioncronologici, in Attualità e sviluppi di metodi e idee, ISCUM, p. 298.
  21. ^ Fuori porta la montagna. Area storico-naturalistica del Comune dell’Aquila, Andromeda, gennaio 1998.
  22. ^ Abruzzo: archeologia pastorale sulla montagna di Arischia, su camminarenellastoria.it.

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