Assedio delle legazioni

L'assedio delle Legazioni Internazionali avvenne durante la ribellione dei Boxer nella città cinese di Pechino.

Assedio delle legazioni
parte della guerra dei Boxer
Soldati statunitensi scalano le mura di Pechino.
Data20 giugno-14 agosto 1900
LuogoPechino, Cina
EsitoVittoria degli alleati
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
409 soldati
473 civili stranieri
2.800 cristiani cinesi
20.000 uomini impiegati nei combattimenti
(su un totale di 40.000)
Perdite
76 soldati morti
150 soldati feriti
6 bambini stranieri morti
qualche centinaio di cristiani cinesi morti
Sconosciute, ma molto pesanti
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Minacciati dai Boxer, un movimento di contadini anti-stranieri ed anti-cristiano, circa 900 tra soldati e civili, soprattutto provenienti da Europa, Giappone e Stati Uniti, e circa 2.800 cinesi cristiani si rifugiarono nel Quartiere delle Legazioni a Pechino. Il governo Qing si schierò dalla parte dei Boxer. Gli stranieri e i cinesi cristiani sopravvissero nel Quartiere delle Legazioni per 55 giorni all'assedio dell'Esercito Qing e dei Boxer. L'assedio venne spezzato da una forza militare internazionale che marciò dalla costa della Cina, sconfiggendo l'Esercito Imperiale cinese e occupando Pechino. L'assedio venne definito dal New York Sun come «l'episodio più emozionante mai conosciuto dalla civiltà» (the most exciting episode ever known to civilization).[1]

Le tensioni internazionali

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Un dipinto ad olio di un artista occidentale raffigurante l'imperatrice vedova Cixi.

Nel 1900, le grandi potenze avevano intaccato la sovranità cinese già da 60 anni. Avevano imposto alla Cina l'importazione dell'oppio, che causò una diffusa dipendenza, l'avevano sconfitta in diverse guerre, costretta ad accettare il diritto di promuovere il cristianesimo e le avevano imposto dei trattati ineguali in base ai quali vennero accordati agli stranieri e alle società estere in Cina privilegi e l'immunità dalle leggi cinesi. La Cina, umiliata dagli occidentali in seguito alla guerra dell'oppio e alla rivolta dei Taiping, era stata ulteriormente indebolita dall'aggressione nipponica del 1894-1895, cosicché le grandi potenze l'avevano ridotta al ruolo di semi-colonia e suddivisa in zone d'influenza. Sembrava che la Cina stesse per fare la stessa fine dell'Africa: a fine Ottocento erano già 62 gli insediamenti stranieri presenti in Cina.[2]

Alla fine del XIX secolo, il risentimento nei confronti degli occidentali giunse al suo apice a causa della continua ingerenza straniera negli affari interni della Cina, con la connivenza passiva dell'imperatrice vedova Cixi. La rabbia derivava non tanto dall'invasione di una nazione sovrana, quanto dalla sistematica violazione delle tradizioni e regole di comportamento cinesi, che non veniva perseguita perché di fatto gli occidentali erano immuni da qualsiasi procedimento. Nel 1900 l'impero Manciù della dinastia Qing, che aveva guidato la Cina per oltre due secoli, si stava sgretolando e la cultura cinese era sotto attacco religioso e laico da parte di una potente cultura straniera.[3] Questo risentimento crebbe fino al punto di portare alla distruzione e alla violenza contro aziende straniere, loro dipendenti, e persino oggetti quali violini, automobili, linee telefoniche, ecc.

Anche se il governo Qing condannò formalmente le azioni violente, non ne perseguì i responsabili. I disordini anti-occidentali iniziarono nel 1899, la guerra vera e propria contro le truppe occidentali cominciò nel giugno 1900 e durò fino al 7 settembre 1901, durante gli anni finali dell'impero Manciù in Cina sotto la guida della dinastia Qing.

Il movimento dei Boxer

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L'Associazione pugilistica di giustizia e concordia, conosciuta anche con il nome di origine inglese "Boxer", era una società segreta fondata nella provincia dello Shandong da persone che erano state portate alla rovina dall'imperialismo e da disastri naturali. Tale gruppo organizzò e mise in atto la cosiddetta "Rivolta dei Boxer",[4] iniziata nel giugno 1900 con l'assedio posto dai Boxer al quartiere delle legazioni a Pechino, assedio sostenuto anche da reparti dell'esercito regolare con il tacito consenso dell'imperatrice Cixi.

I membri dei Gruppi di Giustizia e Concordia erano chiamati semplicemente "Boxer" dagli occidentali (probabilmente vennero chiamati così dal missionario americano Arthur H. Smith), per via della loro pratica di riti acrobatici che comprendevano arti marziali, volteggio di spade, preghiere e incantesimi.[5] Inizialmente i rivoltosi presero il nome di Pugili della Giustizia e della concordia (Yihequan) e in seguito quello di Gruppi di Autodifesa della Giustizia e della Concordia (Yihetuan), o di Pugni della concordia e della giustizia, o ancora dei Pugni Chiusi Giusti.[6] Le pratiche religiose e magiche dei Boxer avevano «come obiettivo di primaria importanza offrire protezione e sicurezza emotiva di fronte a un futuro... che era pieno di pericoli e rischi»[7]

I Boxer raggruppavano contadini senza terre, carrettieri, artigiani, portatori di sedie, piccoli funzionari, ex soldati. Essi vedevano con autentico terrore l'ampliamento della rete ferroviaria, la costruzione delle linee telegrafiche, la comparsa sulle vie fluviali di navi a vapore, l'apparizione di tessuti e filati fabbricati a macchina. Tutte novità che, nell'immediato, toglievano loro posti di lavoro. Portatori di queste novità erano gli stranieri, in modo particolare gli ingegneri delle ferrovie e delle miniere. I Boxer si batterono da principio, oltre che per la salvaguardia delle tradizioni nazionali contro l'"inquinamento" straniero, anche in difesa dei contadini contro le soperchierie dell'amministrazione imperiale e dei grandi signori cinesi, ma i governanti di Pechino riuscirono poi a incanalare solo contro gli stranieri tutto l'odio dei Boxer.[8]

La rivolta iniziò nel Nord della Cina come movimento contadino, anti-imperialista e xenofobo. Gli attacchi erano rivolti verso gli stranieri che stavano costruendo le ferrovie e violando il Feng shui, e verso i cristiani, considerati responsabili della dominazione straniera in Cina. I Boxer non avevano un'organizzazione centrale, ma sembra fossero organizzati a livello di villaggi. Il loro slogan era: «Supportate i Qing! Distruggete lo straniero!».[9]

 
Giuseppe Salvago Raggi ministro residente della legazione italiana

L'attacco dei Boxer

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Frank Gamewell (il secondo da sinistra, in piedi) e le fortificazioni "Fighting Parsons" costruite per proteggere la Legazione britannica dagli attacchi cinesi.

I Boxer bruciavano le chiese cristiane, uccidevano i cinesi cristiani e intimidivano gli ufficiali cinesi che incontravano per la loro strada. Due missionari, il protestante americano William Scott Ament e il vescovo francese Pierre-Marie-Alphonse Favier, vicario apostolico di Pechino, riferirono ai ministri diplomatici (ambasciatori) sulla crescente minaccia per i cristiani in Cina.[12][13] Il ministro americano Edwin H. Conger cablò a Washington che «il paese intero pullula di affamati, scontenti, perdigiorno senza speranza» (“the whole country is swarming with hungry, discontented, hopeless idlers.”). Richiedendo una nave da guerra che stazionasse nelle acque al largo di Tientsin, il porto più vicino a Pechino, egli affermò che la «situazione sta diventando seria» (“Situation becoming serious.”).[14]

 
Il ministro britannico Sir Claude MacDonald

Il 30 maggio 1900 i diplomatici, guidati dal ministro britannico Claude Maxwell MacDonald, richiesero l'invio di soldati stranieri a Pechino per difendere le legazioni e cittadini di altri Paesi. Il governo cinese accettò riluttante, e il giorno successivo più di 400 soldati da otto paesi sbarcarono dalle navi da guerra e si mossero via treno da Tientsin a Pechino. Essi crearono un perimetro difensivo intorno alle loro rispettive missioni.[15][16] Lo stesso 31 maggio un gruppo di ingegneri ferroviari francesi e belgi fu aggredito a cinquanta chilometri da Tientsin: quattro furono uccisi, alcuni altri feriti e si ritenne il fatto – non a torto – un'ulteriore conferma del pericolo in cui versavano gli Occidentali. Il 1º giugno cominciarono ad arrivare i distaccamenti a Pechino per proteggere le rispettive delegazioni.

Il 5 giugno la ferrovia da Tientsin fu interrotta dai Boxer nella campagna e Pechino rimase isolata. Il 13 giugno il diplomatico giapponese Sugiyama Akira fu ucciso dai soldati del generale Dong Fuxiang e lo stesso giorno il primo Boxer, vestito con i suoi abiti rituali, fu visto nel Quartiere delle Legazioni. Il plenipotenziario tedesco, barone Clemens von Ketteler, e i soldati tedeschi catturarono un ragazzo Boxer e, inspiegabilmente, lo giustiziarono.[17] In risposta, quel pomeriggio, migliaia di Boxer irruppero nella città murata di Pechino e bruciarono la maggior parte delle chiese e delle cattedrali cristiane della città, uccidendo molti cinesi cristiani e alcuni preti cattolici. I cinesi cristiani furono accusati di collaborazionismo con gli stranieri.[18] I missionari britannici e americani e i loro convertiti trovarono rifugio nella missione metodista e da lì un attacco fu respinto dai marines statunitensi. I soldati all'ambasciata britannica e alle legazioni tedesche spararono e uccisero diversi Boxer.[19]

Nel complesso chi pagò il prezzo più alto della ribellione dei Boxer furono proprio i cinesi cristiani, molte migliaia dei quali furono uccisi, e in grandissima maggioranza, 18.000, erano cattolici. Iniziata nello Shandong, diffusasi poi nello Shanxi e nell'Hunan, la Rivolta dei Boxers raggiunse anche lo Tcheli Orientale Meridionale, allora Vicariato Apostolico di Xianxian, affidato ai gesuiti, ove i cristiani uccisi si contarono a migliaia. Secondo alcuni storici, in tale Vicariato circa 5.000 cattolici furono uccisi, di 3.069 di loro è stata accertata l'identità,[20] soprattutto nelle province di Shandong e Shanxi. Un gruppo di 120 tra ecclesiastici, religiosi, missionari e laici uccisi nel corso di diverse persecuzioni in varie regioni della Cina tra il 1648 e il 1930, noti come "martiri cinesi", furono proclamati santi da papa Giovanni Paolo II il 1º ottobre 2000.

Lo svolgimento

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Il 21 giugno l'imperatrice Cixi dichiarò guerra a tutte e otto le potenze straniere. L'esercito regolare cinese e i Boxer assediarono il quartiere delle legazioni per 55 giorni, da giugno al 14 agosto 1900; in esso trovarono rifugio 473 civili stranieri (di cui 149 donne e 79 bambini), 451 soldati di otto Paesi diversi[21] (il gruppo proveniente da Tientsin era riuscito ad arrivare poco prima) e oltre 3.000 cinesi convertiti al cristianesimo con i loro servitori.[22] Dall'altra parte della Città Proibita, nella cattedrale cattolica di Beitang, Alphonse Favier, vicario apostolico di Pechino, assieme a 3.500 membri della comunità cristiana cinese, riuscì a resistere grazie all'aiuto di soli 41 marinai francesi e italiani.

Il Quartiere delle Legazioni

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Il Quartiere delle Legazioni, con l'ubicazione delle legazioni diplomatiche straniere e delle prime linee durante l'assedio di Pechino. La maggioranza dei civili si rifugiò nella Legazione Britannica.

Il Quartiere delle Legazioni era lungo circa 3,2 km e largo 1,6 km. Era ubicato nell'area della città designata dal governo Qing per le legazioni straniere. Nel 1900 vi erano 11 legazioni nel quartiere, così come un certo numero di imprese straniere e banche. Sparse per il quartiere vi erano anche case e imprese occupate da cinesi. Le 12 organizzazioni cristiane di missionari a Pechino non si trovavano nel quartiere, ma piuttosto disperse per la città. In totale, risiedevano nella città circa 500 civili provenienti dai Paesi Occidentali e dal Giappone. All'estremità settentrionale del quartiere delle Legazioni vi era la Città imperiale dove risiedeva l'imperatrice vedova Cixi. All'estremità meridionale vi era la massiccia muraglia tartara che circondava la città.[23] I confini orientale e occidentale erano invece due grandi strade.

Filmografia

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L'episodio dell'assedio è narrato nel film 55 giorni a Pechino del 1963.

  1. ^ Thompson, Larry Clinton. William Scott Ament and the Boxer Rebellion: Heroism, Hubris, and the Ideal Missionary. Jefferson, NC: McFarland, 2009, pp. 1, 83–5
  2. ^ Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza 2005, pagina 89
  3. ^ Thompson, pp. 7–8.
  4. ^ «Le carestie e le inondazioni che infieriscono nello Shandong dal 1898 vi fanno rifiorire uno dei rami del Loto Bianco. Si tratta del movimento degli Yihequan, che praticano la boxe cinese come metodo di formazione fisica e morale e che per tale motivo, hanno ricevuto dagli Occidentali il nome di Boxer», in Gernet 1978
  5. ^ O'Connor, Richard. The Spirit Soldiers: A Historical Narrative of the Boxer Rebellion. New York: Putnams, 1973, p. 20.
  6. ^ Cohen, Paul A. (1997). History in Three Keys: The Boxers as Event, Experience, and Myth Columbia University Press, solo per citare un serio libro di ricerca storica
  7. ^ Paul Cohen, The Boxers, China, and the World, a cura di Robert Bickers e RG Tiedemann, Lanham, MD, Rowman and Littlefield, 2007, pp. 183, 192..
  8. ^ Augusto Camera e Renato Fabietti, Elementi di storia, Vol. III, Zanichelli, pagina 1.178
  9. ^ Cohen, Paul A. History in Three Keys: The Boxers as Event, Experience, and Myth. New York: Columbia U Press, 1997.
  10. ^ C. Po-tsan, S. Hsun-cheng e H. Hua, Storia della Cina antica e moderna, Editori Riuniti, Roma 1960, pagina 117
  11. ^ Peter Fleming, La rivolta dei boxers, Dall'Oglio, Varese 1965, pagine 53-54.
  12. ^ Porter, Henry D. William Scott Ament: Missionary of the American Board to China. New York: Fleming H. Revell, 1911, pp. 175–9.
  13. ^ Foreign Relations of the United States, 1900, p. 130
  14. ^ Foreign Relations of the United States, 1900, Washington: GPO, pp. 122, 130.
  15. ^ Morrison, Dr. George E. “The Siege of the Peking Legations” The Living Age, Nov 17, 24 and Dec 1, 8, and 15, 1900, p.475.
  16. ^ Thompson, 42.
  17. ^ Weale, B. L. (Bertram Lenox Simpson), Indiscreet Letters from Peking. New York: Dodd, Mead, 1907, pp. 50–1.
  18. ^ Robert B. Edgerton, Warriors of the rising sun: a history of the Japanese military, WW Norton & Company, 1997, pp. 70, ISBN 0-393-04085-2. URL consultato il 28 novembre 2010.
  19. ^ Morrison, p. 270
  20. ^ San Remigio Isoré
  21. ^ Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza 2005, pagina 92
  22. ^ Thompson, 84–85
  23. ^ Thompson, 29–39.

Voci correlate

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