Chiesa di San Giovannino (Alessandria)

edificio religioso di Alessandria

La chiesa di San Giovannino è situata nella via principale di Alessandria. È sede della Veneranda Confraternita del Santissimo Crocifisso.

Chiesa di San Giovannino
StatoBandiera dell'Italia Italia
RegionePiemonte
LocalitàAlessandria
Coordinate44°54′37.33″N 8°36′45.22″E / 44.91037°N 8.61256°E44.91037; 8.61256
Religionecattolica
TitolareGiovanni Battista
Diocesi Alessandria
ArchitettoGiuseppe Domenico Trolli
Stile architettonicobarocco
Inizio costruzioneXVI secolo
CompletamentoXVIII secolo
Sito websan giovannino

Storia modifica

La chiesa di San Giovannino era nel quartiere di Gamondio, contrada del Correggio, nella zona vicino alla porta, nelle mura della città, che si diceva “di Genova” e fu costruita a seguito di un lascito testamentario di Stefanino Pupino che, con atto del 20 dicembre 1484, chiamò erede la Veneranda Confraternita del Santissimo Crocifisso in questi termini: Vult quod omnia eius bona perveniant in priorem et verberatores seu disciplinantes ecclesiae sancte Joannis decollati (…) hac tamen leqe et conditione, quod dicti pricr et verberatores teneantur et obligati fieri facere unum oratorium juxta et prope dictam ecclesiam deversus magnificum dominum Antonium Trottum. Va detto che la chiesa di san Giovanni decollato alla quale il testamento si riferisce era, con ogni probabilità, la chiesa dei cavalieri dell'Sovrano Militare Ordine di Malta che sorgeva quasi davanti alla chiesa di san Giacomo della Vittoria, più spostata verso piazza Marconi. Si faccia inoltre attenzione alla terminologia usata: i confratelli dovevano costruire non un'ecclesia, ma un oratorium quindi un edificio più piccolo, juxta et prope dictam ecclesiam, cioè “simile e vicino” a quella, non in sua sostituzione o ampliamento. Tra questa e quella che fu costruita: l'attuale, in corso Roma - proprio davanti alle case che allora e fino alla metà del XIX secolo appartenevano alla famiglia Trotti - vi sono poche centinaia di metri cioè, come è affermato nel testamento: juxta et prope, “simile e vicino” a quella.

Perciò, il titolo originario della chiesa e della Confraternita era: san Giovanni decollato. Essa, però, non deve essere confusa con la chiesa e Confraternita di san Giovanni decollato di Bergoglio (sempre citata nei documenti con il predicato: de Bergolii o de Burgo); né con la chiesa di san Giovanni del Cappuccio, poi detta: san Giovanni “il grande”.

Per evitare tutta questa confusione, già nel 1524, in un testamento rogato dal notaio Giovanni Stefano Stortiglione, ed ancora nel 1529, in una carta fra gli atti del notaio Lorenzo Berneria contenente l'elenco delle Confraternite di Alessandria, veniva chiamata (poiché era la più piccola delle chiese alessandrine dedicate a questo santo che peraltro è anche sovente raffigurato con le fattezze di un bambino): sancte Joannes parvus o parvulus, comunemente: san Giovannino.

Il titolo della Confraternita, però, con l'aggregazione all'Arciconfraternita romana del santissimo Crocifisso[1] mutò gradualmente: nel 1632, nel “Libro grosso delle Confraternite” è citata con il nome di “santissimo Crocifisso in san Giovanni decollato”; ancora nel 1782, negli atti della visita pastorale, viene chiamata: v.dae Confraternitatis s. Joannis decollati aggregata Arciconfraternitati ss. Crucifixi erecta in ecclesia s. Marcelli almae urbis ed anche, negli stessi atti, Confraternitatis s. Joannis decollati aliter ss. Crucifixi appellata. Nella “Raccolta di iscrizioni alessandrine” pubblicata nel 1935 dal marchese Francesco Guasco di Bisio, essendo coautori il prof. canonico Francesco Gasparolo ed il dott. Carlo Parnisetti, si afferma che nel manoscritto del marchese Carlo Guasco di Castelletto (1724-1796) il quale già nel corso del XVIII secolo aveva compiuto una prima raccolta di iscrizioni alessandrine, san Giovannino è definita “Chiesa della Confraternita dei Nobili di Alessandria sotto il titolo del ss. Crocifisso”.

Nel 1706, a seguito di un incendio provocato dallo scoppio di un magazzino avvenuto il 14 ottobre, la chiesa subì gravissimi danni. I confratelli allora decisero di costruire una nuova chiesa sul sedime di quella precedente. Ottenuto il permesso dal vescovo Francesco Arborio Gattinara, nel 1709 iniziarono la demolizione ed il 29 agosto - festa della Decollazione (martirio) di san Giovanni il battista - dello stesso anno fu posta la prima pietra sull'angolo verso la casa del conte Trotti. Nel 1731 fu terminata.

In un locale minore della chiesa è custodito un quadro raffigurante la decollazione di san Giovanni il Battista eseguito nel 1718 dal pittore Giuseppe Daneo, confratello. Nello stesso locale, a fronte del precedente, è pure custodito un altro grande quadro raffigurante san Bovo, fatto eseguire nel 1717 da alcuni "massari" (allevatori e commercianti di bestiame) per onorare il loro santo protettore che si festeggiava con una novena nel mese di maggio.

Dal “Libro dei conti” si apprende pure che nella prima metà del settecento hanno lavorato a san Giovannino i pittori Andrietti e gli intagliatori Rabaglietti e Chiara.

 
San Giovannino

Nel 1756 vennero aperti due sepolcreti, ora non più visibili a seguito del rifacimento del pavimento negli scorsi anni cinquanta. Uno era in cornu Evangelii, per i confratelli; l'altro in cornu Epistulae, per le consorelle.

Nel 1767 subì un nuovo intervento. Su progetto dell'architetto Giuseppe Domenico Trolli, furono costruiti il coro, la sagrestia, il campanile e la volta sopra il presbiterio. Fu cioè costruita l'abside e di conseguenza fu alzata. L'intervento che la rese conforme ai canoni del barocco, fu completato con la decorazione dell'interno ed il 13 marzo 1769 fu benedetta dal vescovo Giuseppe Tommaso de Rossi.

Nel 1890 furono nuovamente realizzati alcuni interventi.

Dal 1643 al 1651 ospitò la parrocchia di Sant'Andrea dalla quale dipendeva, quando i padri trinitari scalzi che l'officiavano, autorizzati già dal 16 aprile 1625 da papa Urbano VIII, ricostruirono la chiesa parrocchiale esistente già nel XIII secolo.

Nel 1806, essendo stata san Giovannino occupata per decisione del governo francese “per causa dell'imperial servizio”, fu la Confraternita ad essere ospitata in sant'Andrea.

Successivamente, nel riordinamento delle parrocchie cittadine provocato dallo stesso governo francese, la parrocchia di sant'Andrea fu unita a quella dei santi Alessandro e Carlo - in quel momento temporaneamente Cattedrale a seguito della demolizione dell'antico Duomo - e la chiesa fu chiusa. Allora, con decreto del vicario generale, Nicolao Benevolo, dell'11 febbraio 1807, la Confraternita fu trasferita nella chiesa della collegiata e parrocchia di Santa Maria delle Neve e della Corte, s. Lorenzo. Rimase in questa chiesa fino al 1816: il 12 novembre, infatti, il gruppo del ss. Crocifisso fu riportato processionalmente a S. Giovannino che, nel contempo, fu riconciliata dopo l'uso profano[2].

Dal 1825, per decreto del vescovo Alessandro d'Angennes del 12 febbraio[3], ospitò la Parrocchia di san Giovanni evangelista per l'assistenza spirituale degli abitanti fuori dalla porta di Savona[4]: un'ampia zona che si estendeva dal Tanaro ai quartieri Cristo e Pista e si concludeva al termine dell'odierno corso 100 Cannoni con l'area dell'ex mulino Fossati, a ridosso della porta di Marengo che prima dipendeva dalla Parrocchia di sant'Andrea e, poi, da quella della collegiata di santa Maria della Neve e della Corte, san Lorenzo. Questa stava diventando gradualmente un'area, in particolare la zona Cristo/Pista, di grande insediamento e di espansione della città.

La Parrocchia nel 1905, a seguito dell'ultimazione della chiesa parrocchiale, si trasferì definitivamente al Cristo e le fu assegnato, però, non tutto il territorio che originariamente aveva, ma unicamente quello a ponente della ferrovia. San Giovannino, tuttavia, continuò ad ospitare una nuova Parrocchia che prese il nome dalla Confraternita, la Parrocchia del santissimo Crocifisso, appositamente costituita per gli abitanti a levante della ferrovia (cioè del quartiere Pista) ed in città fino al ponte della ferrovia sul Tanaro, ed al cappellano della Confraternita (nominato dal vescovo sulla base di una terna di nomi definita dal Sodalizio) vennero affidate le funzioni di parroco[5]. Ciò continuò fino al 1935 quando, ultimata la chiesa della Madonna del Suffragio[6], anche questa Parrocchia si trasferì definitivamente nella sua sede naturale e san Giovannino tornò di piena pertinenza della Confraternita.

Architettura e spiritualità architettonica modifica

Orientamento dell'edificio modifica

L'edificio è rivolto ad oriente[7]: l'abside, cioè, è rivolto ad est, verso il punto in cui sorge il sole. Cristo è infatti il “Sole di giustizia”[8], è “il sole che sorge dall'alto per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace”, come prega la Chiesa ogni mattina alle Lodi con il Benedictus (il cantico di Zaccaria)[9]; è “la luce degli uomini, la luce che splende nelle tenebre (...) la luce vera, quella che illumina ogni uomo”[10]. “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli unì con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio ci purifica da ogni peccato”[11]. “E tuttavia è un comandamento nuovo quello di cui vi scrivo, il che è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende. Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, dimora nella luce è non v'è in lui occasione di inciampo. Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi”[12]. Ma il passaggio più ricco di bellezza è la descrizione, nell'Apocalisse, della luce dell'Agnello nella città di Dio, la Nuova Gerusalemme. Così il veggente descrive la città celeste: “Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno poiché non vi sarà più notte (...)”[13].

Non ci volle molto tempo perché i cristiani cogliessero questo simbolismo e la liturgia lo accogliesse. Infatti, la luce di Cristo che dà vita e salvezza venne quasi subito identificata con il significato del battesimo: “quelli che furono...illuminati, gustarono il dono celeste, diventarono partecipi dello Spirito santo e gustarono la buona parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro (...)”[14]. Per questo nella Chiesa primitiva il battesimo era chiamato photisma, illuminazione, e coloro che dovevano essere battezzati erano photizomenoi, illuminandi. Alla sera, a conclusione della giornata, ci rivolgiamo ancora una volta a Dio in preghiera. Il calare del giorno ci ricorda le tenebre della Passione e della Morte del Signore e la natura transitoria di tutto il creato. Ma il dono della luce richiama di nuovo alla nostra mente Cristo, luce del mondo. L'ufficio dei Vespri termina, come quello del mattino alle Lodi, con le intercessioni per le necessità di tutti gli uomini e nella benedizione finale “rendiamo grazie a Dio” per i benefici ricevuti durante il giorno, soprattutto per Cristo risorto. Chiediamo perdono per i peccati commessi durante il giorno ed invochiamo protezione per la notte che sopraggiunge, poiché siamo esortati: “Non tramonti il sole sulla vostra ira, e non date occasioni al diavolo (...) scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda, come Dio ha perdonato voi in Cristo”, e la motivazione è chiara: “perché siamo gli uni membra degli altri”[15].

Per le prime comunità cristiane quello dell'orientamento, anche fisico dell'assemblea, era un aspetto determinante della liturgia. L'unica cosa sulla quale si insisteva era quella che il celebrante doveva recitare la preghiera eucaristica, al pari di tutte le altre, rivolto ad oriente. Nei casi in cui l'altare non consentiva questa posizione il celebrante doveva fare il giro e portarsi verso oriente. Allo stesso modo, nella prima parte della celebrazione, quando pregava stando alla sede, Io faceva rivolto allo schienale, esattamente nel modo prescritto ai rabbini ed agli anziani allorché avevano lo schienale del loro seggio nella direzione di Gerusalemme. Non era il solo celebrante a volgersi verso oriente: era anche l'intera assemblea che lo faceva con lui. Era cioè la posizione normale per la preghiera eucaristica. All'inizio, infatti, di questa il diacono lo ricordava al popolo con l'invito: “Volgetevi verso oriente!”. Il Signore, secondo la profezia del Salmista, sale al cielo dalla parte di oriente: (…) psallite Deo, qui ascendit super caelum caeli, ad orientem[16] e dall'oriente lo stesso Cristo aveva detto doversi aspettare il suo ritorno: sicul fulgur exit ab orientem (…) ita erit adventus Filii hominis[17]. Anche sant'Agostino afferma: cum ad orationem stamus, ad orientem convertimur[18]. Le Costituzioni apostoliche si richiamano a questo primordiale significato quando prescrivono che “dopo l'omelia, stando ritti in piedi, rivolti ad oriente (...) tutti quanti con voce concorde, preghino Dio salito al cielo superno dalla parte di Oriente”[19]. Inoltre, ad oriente - si credeva - era situato il paradiso terrestre, e “noi - afferma san Basilio magno - quando preghiamo, guardiamo verso oriente, ma pochi sappiamo che così cerchiamo l'antica patria”[20]. Un antico orazionale attesta a Roma: terminato il Kyrie, nota la rubrica, dirigens se pontifex contra populum, dicens “Pax vobis” et regirans se ad orientem, usquedum finiatur. Post hoc, dirigens se iterum ad populum, dicens “Pax vobis “et reqirans se ad orientem, dicit “Oremus”. Et sequitur oratio”. Ancora tempo dopo, nel secolo IX, un Sacramentario gregoriano prescrive che nel Giovedì santo il vescovo pronunci la solenne preghiera consacratoria del sacro Crisma respiciens orientem. Una prima indicazione si trova già nel secolo III, nella Didascalia si legge: Segregetur presbiteris locus in parte domus ad orientem versa (...) nam Orientem versus eportet vos orare. In questa posizione e contesto, si comprende meglio la preghiera della Didachè: Maranatha! Veni, Domine Jesu! che - con le parole di san Paolo[21] e dell'Apocalisse[22] esprime l'attesa della parusìa, quindi con grande precisione e chiarezza, l'indole escatologica dell'eucaristia. In questa ottica assumono ben altro significato le parole che la liturgia fa pronunciare nelle due feste più importanti dell'anno. Nella preghiera della Messa celebrata nel mezzo della notte per onorare la nascita di Cristo il celebrante si rivolge a Dio che ha voluto hanc sacratissimam noctem veri luminis (...) illustratione clarescere (...) illuminare questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo (...). E la Messa dell'Aurora nello stesso giorno inizia significativamente con la parola lux, si legge infatti nell'introito: Lux fulgebit hodie super nos: “Oggi su di noi splenderà la luce perché è nato per noi il Signore”; e prosegue con una preghiera che è un inno a Cristo luce del mondo: Da nobis, quaesumus, omnipotens Deus: ut qui nova incarnati Verbi tui luce perfundimur; hoc in nostro resplendeat opere, quod per fidem fulget in mente: “Signore, Dio onnipotente, che ci avvolgi della nuova luce del tuo Verbo fatto uomo, fa' che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito”. La Veglia pasquale nella notte santa inizia con il “lucernario” e la benedizione del fuoco che si faceva scaturire da una selce fuori dalla chiesa. Il fare scaturire il fuoco da una pietra richiamava l'idea di Cristo pietra scartata dai costruttori che, invece, nella notte pasquale risorgendo dà luce al mondo, cioè redenzione e salvezza[23]. Si legge, infatti, negli Atti degli Apostoli che: “Pietro, pieno di Spirito santo, disse loro: “(...) Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi costruttori, è divenuta testata d'angolo. In nessun altro c'è salvezza (...)”.[24].” Ciò emergeva chiaramente dall'antica preghiera di benedizione del fuoco che richiamava anche letteralmente la preghiera natalizia: Deus, qui per Filium tuum, angularem scilicet lapidem, claritatis, tuae ignem fidelibus contuliti: productum e silice, nostris profuturum usibus, novum hunc ìgnem sanctifica: et concede nobis, ita per haec festa paschalia caelestibus desideria inflammari ut ad perpetuam tuae claritatis, puris mentibus, valeamus festa pertingere.

Il concetto è comunque espresso molto bene anche dall'odierna preghiera che il sacerdote pronuncia mentre accende il cero pasquale con il fuoco nuovo: “La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito”. Ecco perché dopo aver acceso il cero con tale fuoco, al suo ingresso in chiesa, il diacono acclama per tre volte - all'ingresso, a metà dell'edificio e davanti all'altare: Lumen Christi! ed i fedeli rispondono non con l'Amen, ma più giustamente con il ringraziamento: Deo gratias! Peraltro, il concetto di luce è intrinseco all'idea stessa di Dio. La scrittura nasce come rappresentazione grafica di concetti, si può osservare che la grafia del “theta” che è la prima lettera del vocabolo greco “theos”, Dio, in minuscolo ed in maiuscolo, deriva dal più remoto simbolo del cerchio recante un puntino al centro che esprimeva il sole, la luminosità, la divinità suprema che ha come carattere essenziale l'unicità; inoltre la radice indoeuropea div dalla quale derivano i termini latini Deus, Dio, e dies giorno cioè tempo di luce, designa proprio la divinità come essere luminoso. Questo concetto viene ancora espresso in innumerevoli modi: i raggi che circondano l'ostia consacrata nell'ostensorio o la raffigurazione del Santissimo Sacramento come ostia raggiante o la stessa aureola che originariamente era tipica solo del Cristo o la raggiera attorno al Crocifisso che viene impressa sulle ostie da consacrare o l'onore che si rende al Santissimo Sacramento con le candele accese sull'altare specialmente nelle solenni esposizioni eucaristiche e la stessa lampada che arde davanti al Santissimo. E ben altro significato ha la preghiera fatta dal celebrante a braccia aperte e con gli occhi levati al cielo, come adorazione in spirito e verità, gesto filiale di confidenza in Dio suo e dell'assemblea. Ed anche le invocazioni della preghiera liturgica con i salmi 24 (25) e 122 (123): Ad te, Domine, levavi animam meam (…) Ad te levavi oculos meos, ma soprattutto la grande conclusione dossologica della preghiera eucaristica: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito santo ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”. Così l'amen dell'assemblea ha una valenza che va assai oltre il “semplice”: così sia. Quindi, quello dell'orientamento delle chiese non è un aspetto che deve essere rilevato come mero elemento architettonico, ma era la realizzazione concreta di quanto si affermava nelle preghiera: Dio è luce, è perciò naturale quando si prega rivolgersi verso il punto geografico in cui la luce sorge. Così l'uomo nella sua unità - mente, voce e corpo - rendeva lode del Signore, in spirito e verità.

L'importanza dell'orientamento nella liturgia è presente ancora, per esempio, nel Duomo di Milano dove si conserva una piccola particolarità: il celebrante, durante il canto del lucernario dei Vespri specie se solenni e presieduti dal cardinale arcivescovo, è rivolto ad oriente[25].

Si tramanda così l'antica tradizione comune a molte Chiese sia di occidente sia di oriente tanto più significativa perché attinente al rito con cui si acclama Cristo luce del mondo proprio mentre sul mondo scendono le tenebre. In conclusione, fu per l'estremo riguardo a questo aspetto che le stesse Costituzioni apostoliche prescrivono: Aedes (ecclesia) sit oblunga, ad oriuentem versus, navi similis. E ciò è stato realizzato costruendo san Giovannino.

Il sagrato e la facciata modifica

Il sagrato antistante la chiesa non ha solo la funzione utilitaristica di rendere facile e comodo l'accesso all'edificio, ma è un “passaggio” estremamente delicato, un limite che può richiamare la divisione dello spazio sacro da quello profano.[26]

La prima iniziativa che la Confraternita realizzò non appena riprese la propria attività nel 1990, fu il recupero di questo spazio, fino ad allora occupato per parcheggio con le autovetture che giungevano al limitare della soglia della chiesa.

L'aspetto originario della facciata è descritto in una relazione dell'Ufficio d'arte del Comune del 6 giugno 1876, redatta in occasione di un sopralluogo effettuato a seguito della richiesta presentata dalla Confraternita per ricostruire lo zoccolo ed alcune profilature. Si legge nella relazione che “varie parti del prospetto della chiesa del santissimo Crocifisso sono intonacate, alcune poi bianchite, altre a finto mattone e il resto è, come si dice, alla cappuccina” e che vi è “qualche cornice fatta con mattoni tagliati a martello”. L'Ufficio conclude affermando di essere dell'avviso che “il prospetto dell'edificio andrebbe intonacato e tinteggiato, conservando o meglio ancora migliorando le attuali fasce, cornici, modanature, ecc.”. Cosa che fu fatta e completata nel 1890 quando la facciata fu “riordinata”. Si legge, infatti, nella deliberazione della Giunta municipale del 5 luglio dello stesso anno con la quale l'intervento venne autorizzato che “il disegno presentato non reca alcuna innovazione alle principali linee della facciata, e solo accenna a rendere più regolari tutte le modanature, con l'aggiunta di alcuni ornati e di statue”.

Giova riportare il commento che su questo complessivo intervento fece il canonico Berta: “Sono terminati i restauri della chiesa di san Giovannino interni, e gli esterni con una sbianchitura generale della facciata, coprendo per mal consiglio la fascia del fregio in marmo colla leggenda della sua data ed aggregazione all'Arciconfraternita del ss. Crocifisso in Roma. La facciata veniva contemporaneamente adorna di statue in cemento. Internamente veniva murata una lapide storica[27], inesatta però dove afferma che vi fu eretta nel 1825 la Parrocchia: questa fu eretta al Cristo, sua sede naturale e solo provvisoriamente a san Giovannino”.

La facciata ormai cadente - presentava larghe chiazze di umidità, statue mùtili, ecc. – è stata restaurata con l'autorizzazione della competente Soprintendenza per i beni ambientali ed architettonici del Piemonte e l'approvazione della Commissione diocesana di arte sacra. In collaborazione con l'istituto di storia materiale dell'Università degli studi di Genova, l'arch. Rosa Pagella ha effettuato le indagini stratigrafiche per l'individuazione dei colori originali, ed anche le statue sono state completate con il rifacimento delle parti erose e non più esistenti, sulla base di una fotografia d'epoca fornita alla Confraternita dal comm. Ugo Boccassi. I lavori sono stati ultimati la Vigilia del santo Natale 1991.

La facciata si presenta tripartita da lesene a doppia risega sormontate da capitelli dorici nella parte inferiore e composti in quella superiore. È coronata da un timpano triangolare che culmina in un pinnacolo reggente una croce. Nel timpano si apre una finestra circolare: un “occhio”, al centro che richiama subito l'iconografia tradizionale della santissima Trinità. Nel registro superiore vi sono le statue raffiguranti san Giovanni Evangelista e san Carlo Borromeo, ai lati della Carità; nel registro inferiore, vi sono la Fede e la Speranza. Nel registro superiore a sinistra è raffigurato san Giovanni l'evangelista che, come abbiamo visto, era il santo titolare della Parrocchia che nel 1890, quando la facciata su rifatta, era ospitata a san Giovannino. L'Evangelista è correttamente nell'atto di scrivere (con una penna ed un libro nelle mani) ed ha ai piedi un'aquila, quarta componente del Tetramorfo descritto nell'Apocalisse con il nome di “Quattro viventi”[28]. Nel quadro dell'Apocalisse che richiama la visione del profeta Ezechiele nell'Antico Testamento[29], i Padri della Chiesa non tardarono ad accostare le quattro figure ai quattro Evangelisti ed alle tappe della salvezza[30].

A destra è raffigurato san Carlo Borromeo (contitolare della chiesa) con l'insegna pontificale del pastorale, simbolo della sua dignità di vescovo, di pastore. Esso è collocato proprio nel lato in cui dentro l'edificio v'è l'altare a lui dedicato. Il muro esterno di questo lato presenta una curiosa particolarità: su di esso si vedono conficcate tre palle di cannone (in realtà se ne vede solo una, le altre sono visibili completamente dalle finestre dell'edificio di fronte alla chiesa, in via Legnano). Esse ricordano le offese belliche subite da san Giovannino durante l'attacco del 1745 quando, il 6 ottobre, le truppe franco-spagnole - durante la guerra di successione austriaca detta della prammatica sanzione - dopo la battaglia di Bassignana, iniziarono l'assedio della città[31].

Al centro del registro superiore ed ai lati del registro inferiore sono raffigurate le tre virtù teologali. Nell'inferiore, a sinistra: la Fede che regge il calice con l'ostia sovrapposta, simboli dell'eucaristia, del "mistero della fede". A destra: la Speranza che ha ai piedi un'ancora, secondo l'affermazione dell'Apostolo nella lettera agli Ebrei: «in essa abbiamo un'ancora della nostra vita, sicura e salda»[32]. Infine, la Carità che è raffigurata con le braccia allargate nell'atto di accogliere tutti e di donarsi a tutti e regge la Croce, simbolo dell'atto di suprema carità di Cristo che ha donato la propria vita per la salvezza di tutti. La Carità ha una posizione preminente - è infatti nel registro superiore ed al centro - perché è l'espressione del comandamento nuovo. Lo stesso Apostolo scrive nella prima lettera ai Corinzi: «Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte la più grande è la carità!»[33] e, ancora più chiaramente, nella lettera ai Colossesi: «Al di sopra di tutto poi vi sia la carità; che è il vincolo di perfezione»[34].

Nel registro inferiore, al centro, sopra il portone di ingresso alla chiesa, architravato, v'è l'altorilievo tardocinquecentesco del Crocifisso. Con testamento del 2 gennaio 1573, rogato dal notaio Annibale Spandonari, Vincenzo Caniggia legò alla Confraternita due scudi d'oro con la condizione che venissero spesi per realizzare una raffigurazione della Crocifissione che la stessa Confraternita aveva già deciso di far eseguire. Poi, un altro Caniggia, Mario Antonio, con testamento del 13 dicembre 1588, rogato dal notaio Antonio Francesco Varzi, legò alla Confraternita quattro scudi d'oro perché si facesse dipingere il santissimo Crocifisso sopra la porta della chiesa. Successivamente, invece del dipinto, i confratelli decisero di realizzare l'opera in scultura.

Nel mese di luglio 1996 è stato ritrovato nel "fondo dei notai" conservato presso l'Archivio di Stato cittadino, il contratto rogato il 19 marzo 1596 dal notaio Antonio Francesco Varzi, tra Gerolamo Inviziati, in rappresentanza della Confraternita, ed alcuni scultori luganesi per la fornitura dell'opera[35]. Dal documento ritrovato si ha conferma certa che è stata realizzata su disegno di Raffaele Angelo Soleri (secundum exemplar factum per Raphaelem Angelum Solerium..., si legge nel contratto), probabilmente figlio del più noto artista alessandrino Giorgio che aveva concorso ad affrescare la chiesa dell'Escorial vicino a Madrid[36].

È in marmo, misura cm. 230 × 110 e raffigura il Crocifisso con alla sua destra, san Giovanni il battista (il santo titolare della chiesa) ed alla sua sinistra un Pontefice che indica lo stesso Crocifisso (verosimilmente il papa san Marcello, titolare della chiesa che a Roma custodisce il santissimo Crocifisso che ha dato il nome all'Arciconfraternita alla quale quella di san Giovannino è aggregata dal 1586 e dalla quale ha tratto il nome).

Ai piedi del Crocifisso, altre quattro figure genuflesse, confratelli e consorelle, in abito confraternale dell'epoca, si notano infatti il cappuccio ed un cingolo di corda al posto della cintura.

Pure ai piedi del Crocifisso, collocato tra le figure genuflesse di sinistra e la croce, è raffigurato uno stemma araldico, rappresentante un cigno, privo di ornamenti che pare essere quello del cardinale Ottavio Paravicini, vescovo di Alessandria nel periodo in cui l'altorilievo è stato realizzato[37].

La collocazione dell'opera non è casuale. Essa è sulla facciata proprio sotto la raffigurazione della Carità: il sacrificio di Cristo è espressione definitiva del Mistero pasquale, compendio e fonte delle virtù teologali. È di grande valore simbolico. La porta della chiesa non è unicamente l'ingresso dell'edificio: è una soglia di salvezza, “è questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti”[38]. Il Signore stesso - nel portico di Salomone, durante la festa della dedicazione del Tempio che si celebrava per commemorare la purificazione del santuario del 164 a. O., dopo la vittoria di Giuda Maccabeo sul re di Siria Antioco IV Epifàne - nella parabola del “buon pastore”, dice: “Chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte è un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore... lo sono la porta delle pecore”[39] e subito dopo, ripete: “lo sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore...”[40]. Ricordiamoci che il nome “Gesù” - come era stato chiamato dall'Angelo nell'Annunciazione[41] - in ebraico (Yeshua, forma ridotta di Ye'hoshua) vuoi dire “Dio salva” quindi “Salvatore”, “apportatore di salvezza” e che, significativamente subito dopo queste parole, Egli per la prima volta si proclama Figlio di Dio, rischiando la lapidazione e la cattura[42]. Il Signore ha usato altre volte la similitudine della “porta” in riferimento alla salvezza ed alla vita cristiana: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!”[43] ed ancora: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno.”[44]. Come non ricordare l'immagine della cruna dell'ago dell'evangelista Marco[45]?

Non si dimentichi che al vocabolo latino ianua che significa, appunto, “porta”, corrisponde in sanscrito il termine yana, ”via”, formato sulla base di una radice y-a di derivazione indoeuropea che designa letteralmente il concetto di “passaggio”.

Peraltro, la simbologia della porta si palesa attraverso una sorta di codice universale. Presente in civiltà antiche, ma anche moderne, come evidenzia l'arte sacra di Oriente e di Occidente, la porta infatti - delimitando spazi sacri e profani, un po' in ogni tempo ed in ogni luogo ha assolto la sua funzione separando simbolicamente il mondo delle tenebre da quello della luce, impedendo o consentendo l'accesso al mistero, il superamento dei limiti dell'io, l'affacciarsi sull'assoluto. Indagare l'archetipo della porta è insomma un po' come sostare dinanzi al trascendente[46].

L'altorilievo presentava alcune gravi compromissioni provocate dall'inquinamento e dagli agenti atmosferici; era offuscato da depositi di polvere, il braccio sinistro de! Crocifisso stava scomparendo, v'erano alcune piccole crepe in aggiunta a cospicue tracce di pittura gialla che era stata stesa probabilmente a fine ottocento quando venne rifatta la facciata. Il tutto rendeva l'opera scarsamente “leggibile”.

Il 14 settembre 1996, festa dell'Esaltazione della santa Croce, a 400 anni dalla scultura originaria, è stato inaugurato il suo restauro con l'autorizzazione della Soprintendenza per i beni artistici e storici del Piemonte e l'approvazione della Commissione diocesana per l'arte sacra. Nella relazione finale alla Soprintendenza il restauratore afferma che “la tecnica di esecuzione sembra essere scultura diretta a scalpello e gradina, lisciata superficialmente con abrasivi fino ad ottenere la levigatura finale assai rifinita”. “Il materiale, marmo bianco con ampie venature grigio chiare sembra essere il marmo lunense, originario della zona di Carrara e cavato in epoche antiche; il grande riquadro marmoreo potrebbe essere anche un reperto romano riutilizzato in epoca successiva”. Si può quindi affermare che esso è in città forse l'unico esemplare rimasto di questa tipologia artistica del XVI secolo[47].

L'interno modifica

Dopo aver oltrepassato la “soglia” si entra nell'edificio e si incontra subito l'acquasantiera, a forma di conchiglia. La conchiglia ha un grande valore simbolico e denota anche un modello di comportamento: raffigura, infatti, una mano aperta che dona l'acqua. Da una parte, ci richiama subito il Battesimo: il primo Sacramento che riceviamo e ci fa essere figli di Dio in Cristo e membri della Chiesa; dall'altra, ci ricorda le opere di misericordia (dar da bere agli assetati...) è quindi un invito ad aprirsi agli altri, a soffrire con loro ed è segno di carità. Non va dimenticato che, secondo la tradizione riportata anche da Jacopo di Varagine, era utilizzata dal Battista per battezzare; ancora oggi viene usata (fatta di materiale prezioso) per amministrare il Battesimo. Quindi la conchiglia unita all'acqua cioè posta in immediato e diretto rapporto con il Battesimo è simbolo di rigenerazione, di salvezza soprattutto se si ricorda che anche l'acqua sgorgò dal fianco di Cristo crocifisso.

Affiancato all'acquasantiera, ecco subito l'emblema della nostra salvezza, il Crocifisso: non grande (cm 60 × 250) ma veramente artistico. Si tratta di un'opera di fine secolo XVII (il Cristo) e primo Settecento (la croce) che trovandosi in pessime condizioni (ridipinta più volte, con una bruciatura sul braccio sinistro ed altro) è stata restaurata con fondi messi a disposizione dalla Cassa di Risparmio di Alessandria. L'intervento conservativo, iniziato nel 1995 e concluso nel 1997, è stato effettuato con autorizzazione della Soprintendenza per i beni artistici e storici del Piemonte e della Commissione diocesana per l'arte sacra.

 
Gli affreschi, anonimi, che decorano la volta

L'edificio è ad aula con due cappelle laterali ed altari rispettivamente dedicati a san Carlo Borromeo, raffigurato in un grande quadro di buona fattura, ed alla Beata Vergine Addolorata, che negli atti della visita pastorale del 1730 vengono definiti de novo constructi. Ha copertura a botte ribassata con unghie poggiate su un cornicione sporgente sopra il quale si aprono otto finestre. La decorazione della volta, realizzata durante gli interventi del 1767/69, è un ottimo esempio del barocco dell'area alessandrina. Non se ne conosce l'autore, anche se viene attribuita - con notevolissime perplessità - a Gaudenzio Ferrari[48]. La navata si conclude con l'abside, a pianta semicircolare e volta a catino, che è in posizione leggermente asimmetrica rispetto al “corpo” dell'edificio. Infatti, rappresenta la testa, il capo di Cristo, per questo è così, come Cristo che morendo “chinato il capo spirò”[49].

Al centro dell'abside si apre una grande nicchia (una vera e propria cappella) contenente, come si legge nella scritta sopra l'arco dell'apertura, un “altare privilegiato” a seguito delle Indulgenze concesse alla Confraternita dal papa Clemente XIV con breve del 6 febbraio 1770 per le celebrazioni proprie del Sodalizio officiate su tale altare[50] al di sopra del quale è collocato un imponente gruppo ligneo raffigurante la scena della Crocifissione con il Crocifisso, la beata Vergine Maria svenuta per il dolore (l'Addolorata)[51] e sorretta da san Giovanni l'evangelista, e santa Maria Maddalena, tutte ad altezza più che naturale.

La navata unica e non larga (che richiama il concetto della “via stretta”) conduce immediatamente a puntare diritto verso questo gruppo della Crocifissione. Lo sguardo è portato non a spaziare ma a fissare il Crocifisso e - percorrendo la navata - ad avvicinarsi ad esso il più possibile. È un gesto istintivo ed è il risultato di una precisa scelta architettonica che esprime appieno la spiritualità della Confraternita.

L'edificio, quindi, punta sulla “assialità” o meglio sulla “longitudinalità” con un cammino che non consente “decentramento” ma punta diritto per arrivare al polo finale ben percepibile dall'assemblea, il Crocifisso, che rappresenta la salvezza, espressione della problematica del luogo della celebrazione, ed all'altare che ne è il cuore. E quella dell'“assialità” è una caratteristica tipica della Liturgia: diverse azioni liturgiche prevedono quasi sempre una qualche forma di percorso processionale: la liturgia della domenica delle Palme e quella della Veglia pasquale, l'entrata del celebrante e dei ministri, nella celebrazione solenne della s. Messa, l'entrata e l'uscita degli sposi nel rito del Matrimonio o della bara nelle Esequie cristiane, ma anche tutte le occasioni nelle quali si svolge una processione all'esterno e così via: assialità è cammino.

La struttura dell'edificio quindi guida chi entra ad essere pellegrino in cammino verso il Signore, significando anche la qualità escatologica dell'assemblea cristiana che in esso è raccolta dallo spirito, “in cammino verso il Regno, verso Cristo”. Tutti perciò sono orientati (intendendo questo termine sia per ciò che riguarda la posizione fisica: ad est, sia per ciò che riguarda l'indirizzo dello sguardo), non verso il centro dell'assemblea ma in un'unica direzione, quella che permette di fissare lo sguardo su Cristo che regna dalla Croce (regnavit a ligno), in direzione cioè di Colui che precede sempre e tutti.

 
Sacrificio d'Abramo

Nella navata in grandi nicchie - aperte nei muri laterali e fino al limitare del presbiterio sono collocati altri quattro grandi gruppi lignei, per complessive quattordici statue di dimensioni naturali, settecenteschi, di pregevole fattura, raffiguranti altrettanti episodi dell'antico Testamento[52] (l'uccisione di Abele[53], il sacrificio di Noè dopo il diluvio[54], Abramo ed Isacco[55] e Mosè ed il serpente di bronzo[56]) che si riconnettono direttamente al Mistero pasquale espresso dal gruppo della Crocifissione.

Tutti i gruppi, alla base delle nicchie che li contengono, recano un'epigrafe con il richiamo ai passi biblici che ad essi si riferiscono. Quella dell'episodio di Noè: “Questo è il segno del patto che io taccio tra me e voi - Giov 9, 12”, è errata nella citazione conclusiva. Queste parole non sono infatti nel vangelo secondo san Giovanni ma nel libro della Genesi, quindi: Gen 9, 12.

I gruppi si caratterizzano per uno stato di conservazione gravemente precario: sono ricoperte da uno spesso strato di polvere, vi sono numerose fenditure, probabilmente provocate anche dall'antico uso processionale; la policromia, oltre ad evidenti e numerosi strati di ridipinture, presenta numerosi stacchi del colore e della preparazione a gesso, ecc;. Il gruppo raffigurante l'uccisione di Abele, contemporaneamente al Crocifisso dell'ingresso, è stato restaurato. Pure questo intervento conservativo è stato effettuato con autorizzazione della Soprintendenza per i beni artistici e storici del Piemonte e della Commissione diocesana per l'arte sacra.

La prima notizia di questi gruppi si ha in un “madrigare” composto dal “dottor fisico” Giacomo Ferrari, priore della Confraternita, in occasione del giovedì santo del 1759[57].

Lo stesso priore Ferrari compare quale intestatario dell'“autentica” - rilasciata il 7 aprile 1714 dall'arcivescovo Orazio de Mattei. canonico della Patriarcale basilica liberiana di santa Maria maggiore, in Roma - della Reliquia delta santa Croce conservata dalla Confraternita. Sul foglio vi sono le firme autografe del vescovo de Rossi, in occasione della visita pastorale del 1782, e del vescovo d'Angennes, in occasione della visita pastorale del 1829, che ne autorizzano l'esposizione anche nelle chiese della città e della Diocesi.

Per la verità, il citato “madrigare”[58] del priore Ferrari si riferisce ai gruppi raffiguranti Caino ed Abele, Abramo ed Isacco e Mosè ed il serpente di bronzo. Dagli atti dell'Archivio della Curia vescovile si apprende con precisione l'anno in cui furono realizzati i gruppi raffiguranti Noè dopo il diluvio e quello della Crocifissione. Infatti, il 2 aprile 1765 i confratelli scrissero al vescovo de Rossi che avendo fatto costruire per compimento della processione solita farsi il giovedì santo a sera due altre macchine, una rappresentante il Crocifisso, con la beata Vergine Addolorata, san Gioanni evangelista e s.a Maria Maddalena, l'altra rappresentante Noè co' suoi figli fuori dall'arca a sacrificare il Signore in ringraziamento d'essere stati dal diluvio liberati, desidererebbero che queste prima d'esporle al pubblico venissero, come le altre benedette.. Si trova, quindi, conferma che tutti i gruppi sono in realtà “casse processionali”[59]. Le statue furono benedette lo stesso giorno, martedì santo, dal cappellano della Confraternita, il canonico don Carlo Domenico Berio, a ciò delegato dal vescovo. A proposito del Berio v'è da dire che egli compare Magister caerimoniarum eletto nel Sinodo diocesano indetto dal vescovo Giuseppe Tommaso de' Rossi e celebrato il 10, 11 2 12 giugno 1771; e quale cappellano della chiesa della Commenda dell'Ordine di Malta nella visita priorale compiuta il 13 maggio 1787 dal Titolare della Commenda fra Carlo Ignazio Ordogno de Rosales e dal gran priore di Lombardia fra don Francesco Paternò per lo scambio delle consegne con il precedente commendatore fra don Antonio Barbiano di Belgioioso. Il Berio apparteneva ad una famiglia di confratelli di san Giovannino: suo padre, Carlagostino, compare spesso in atti notarili come priore o procuratore della Confraternita[60]. Ciò probabilmente conferma il permanere di legami fra la Confraternita e l'Ordine che, come si è detto, duravano da secoli, fin dal sorgere del Sodalizio. La chiesa, per questi gruppi, nel 1908 fu dichiarata monumento nazionale con decreto del Ministero della pubblica istruzione.

 
Vista sul presbiterio

Il presbiterio è illuminato da due finestre con ai lati le figure dei quattro Evangelisti affrescate, ed è congiunto alla navata con una balaustra in marmo divisa in due parti da un cancelletto in ferro; sulla volta un affresco raffigura la “Gloria della Croce”[61].

 
L'altare maggiore e il crocifisso che gli è sopra

Nella navata - in mezzo ai fedeli cioè proprio in grembo ecclesiae - al culmine dell'arco trionfale, sopra la balaustra, v'è un cartiglio recante la scritta: Passus est pro nobis[62].

Al Crocifisso ed all'altare, tutt'uno nella visione prospettica interna, vanno gli sguardi e le preghiere e l'altare acquista definitivamente il suo vero ed originale significato. Esso non è un arredo seppure sacro e venerabile (ciò equivarrebbe a ridurlo alla sua mera materialità, con un deprecabile processo di “cosificazione”) ma è il memoriale della Croce e della Resurrezione, è l'immagine dell'unico Mediatore: Cristo, il Signore93. Sull'altare l'assemblea celebra l'eucaristia, perpetua il sacrificio di Cristo, quel sacrificio di salvezza preannunciato da Abele il giusto, da Abramo nostro padre nella fede, da Noè dopo il diluvio, dal grande patriarca Mosè con il serpente di bronzo: sacrifici di alleanza, di comunione, di espiazione, di ringraziamento raffigurati dai gruppi lignei. Alle pareti della navata sono appese le stazioni della Via Crucis (sono di buona fattura, non se ne conosce l'autore ma si può notare che la “mano” non è uguale in tutte, ed una di esse reca nella parte posteriore la data: 1760) che qui acquistano un valore ancora più significativo.

La stessa navata quindi, se la consideriamo nel suo complesso, si presenta come un “libro aperto”: il Libro.

La balaustra, poi, collocata il tale contesto, pur ricordando la struttura del Tempio di Salomone in cui v'era una netta separazione fra l'aula (hecal) per i fedeli e la cella (dehir) riservata al Sommo sacerdote (se ne ha un ricordo nell'iconostasi delle chiese bizantine) in realtà ad una lettura più appropriata non divide la chiesa ma è la linea di congiunzione tra l'antico (rappresentato dai gruppi lignei, ante legem: Caino ed Abele, Abramo ed Isacco, Noè; e sub lege: Mosè, collocati “al di qua”) ed il nuovo Testamento (sub gratia, rappresentato dall'altare, dal gruppo della Crocifissione e dagli evangelisti affrescati a fianco delle finestre che illuminano il presbiterio, collocati “al di là”), tra il “già” ed il “non ancora”, tra le antiche promesse ed il loro compimento. Questa dialogìa tra antico e nuovo Testamento merita ancora qualche considerazione: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge ed i profeti. Non sono venuto ad abolire ma a compiere”[63], dice il Maestro. Se l'antica legge proibisce con severità, la nuova suggerisce, in positivo, dei precetti di mitezza. Il Signore integra i dieci “comandamenti”[64] con le dieci “beatitudini” predicandole nel Discorso della Montagna[65], tra cui “Beati i miti, perché possederanno la terra...Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia (...) Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio”. Queste sono le promesse del Signore per chi gli è fedele. Non soltanto uccidere è peccato, ma anche adirarsi è peccato: “Avete udito che fu detto agli antichi: “Non uccidere”; e che se qualcuno avrà ucciso, sarà sottoposto al giudizio. Io però vi dico che chiunque si adira col suo fratello sarà sottoposto al giudizio.”[66]. E ancora: “Avete udito che fu detto: “Ama il prossimo tuo e odia il tuo nemico”. Io però vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano. Se voi, infatti, perdonate agli uomini le loro colpe, anche il Padre vostro celeste perdonerà a voi.”[67]. Dunque Cristo parlando dalla montagna e promulgando la nuova legge, predica il perdono, l'amore, la carità, la calma e la compostezza di fronte a qualsiasi contrarietà.

Se ricordiamo l'antico Testamento, Mosè, invece, si lascia assalire da un violento sentimento d'ira, spezza le Tavole della Legge e fa sopprimere i propri seguaci che hanno peccato adorando l'idolo d'oro. Ridisceso dal monte, Mosè inscena questa cruenta vendetta contro i peccatori. Cristo, invece, sceso dalla montagna, risana il lebbroso, ovvero purga il peccatore dal peccato: che la lebbra, ovvero il male fisico, sia, in questo contesto, una figura del peccato, del male nella sua accezione morale, è unanime parere dei Padri della Chiesa. Ancora: Mosè riceve la legge da Dio; Cristo, come Figlio di Dio, la promulga egli stesso; Mosè ha la sua visione su una vetta alta e lontana, Cristo parla da un'altura più accessibile. La legge del vecchio Testamento è scritta su tavole di pietra, quella evangelica è comunicata attraverso la parola di chi è veramente Parola.

La legge evangelica - dice sant'Agostino - non è scritta su tavole di pietra, ma nei vostri cuori; “e per tal modo la prima non è stata che una legge esteriore, che Dio impone ad un popolo duro, che egli ha impaurito con le sue minacce, e che è rimasto carnale e ribelle; la seconda è stata una legge interiore, che è penetrata nel profondo degli uomini.”. Continua san Agostino: “Nella prima (legge) Dio appare in mezzo alle folgori, o alle tempeste e fa risplendere la terribile sua grandezza, nella seconda Dio sparge la pienezza della sua grazia sopra i fedeli, e non segnala che la sua misericordia e la sua bontà”. Tutto ciò che nel vecchio Testamento ha una pesante materialità ed è fondato sul timore, si contrappone all'immateriale interiorità del messaggio evangelico, al suo simbolismo spirituale ed alla sua legge dell'amore.[68]

A san Giovannino, quindi, la navata, nel significato letterale del termine, diventa un mezzo per pellegrinare: una nave, una barca: " la Barca” che, nel mare della nostra esistenza, ci conduce verso il Crocifisso così come la Chiesa è via verso il Regno, verso la Salvezza, verso il Maestro che Egli stesso è “via, verità e vita”[69], quindi vero ed unico Nocchiero della Nave.

Note modifica

  1. ^ Al fine di dare unità ed indirizzo ad un settore della vita ecclesiale che è sempre stato, fin dalle origini, “troppo marcatamente” caratterizzato da una spiccata autonomia - su indicazione soprattutto di san Carlo Borromeo secondo lo spirito del Concilio di Trento - si instaurò la prassi delle “aggregazioni”. Fu, cioè, favorita l'affiliazione a Confraternite in larghissima parte romane che, a seguito di privilegi accordati dai Sommi Pontefici, per la loro antica fondazione o per particolari benemerenze o per la loro importanza, venivano definite, per ciò, Arciconfraternite. L'aggregazione, quindi, da una parte fu il vincolo spirituale con il quale le Confraternite aggregate venivano a godere dei privilegi e dei benefici spirituali dell'Arciconfraternita "madre"; dall'altra costituì lo strumento per esercitare il controllo sull'attività spirituale ed anche funzionale delle Confraternite aggregate.
  2. ^ Questa non fu la sola volta in cui la chiesa fu coinvolta in eventi bellici. Già negli anni 1745-46 quando la città cadde in mano alle truppe franco-spagnole dopo l'assedio che seguì la battaglia di Bassignana di cui si dirà in seguito trattando di una singolare caratteristica di un muro laterale - fu utilizzata come magazzino di granaglie. Poi, durante il Risorgimento, ospitò i soldati francesi impegnati nel 1859 nella II guerra di indipendenza e successivamente fu sistemato in essa un magazzino per la paglia. Fu riconciliata il 7 gennaio 1860 e riprese così la normale officiatura che da allora non è stata più interrotta. San Giovannino custodisce anche un'altra particolarità dovuta agli eventi storici che hanno coinvolto la città. La parete di un armadio a muro nel corridoio che dalla chiesa conduce alla sagrestìa, presenta un'interessantissima iscrizione “graffita”. Essa ricorda che in s. Giovannino, nei giorni della battaglia di Marengo, furono rinchiusi i filofrancesi, fatti arrestare dal feldmaresciallo Michael von Melas, comandante dell'armata imperiale austriaca. I prigionieri, concentrati a Torino, furono trasferiti il 4 giugno in Alessandria e rinchiusi a san Giovannino. Il 17 giugno, quando la città fu ripresa dai francesi, furono tutti liberati e la scritta di cui si è detto, lo ricorda: 17 giugno/gli/patrioti piemontesi/qui/furono liberati/i 800 VIII rep.
  3. ^ Il decreto del vescovo d'Angennes faceva seguito all'atto del 21 ottobre 1824, rogato Sacco, con il quale veniva stipulata un'apposita convenzione. Alla nuova Parrocchia furono trasferiti tutti i beni che formavano la dotazione del beneficio prepositurale con cura d'anime di santa Maria dell'Olmo, già detta: del Campo, con chiesa parrocchiale dello stesso titolo, che sorgeva ove si trova l'Istituto Magistrale. Va ricordato che, a seguito dell'abbattimento del vecchio Duomo e della conseguente traslazione delta Cattedrale nella chiesa dei domenicani di san Marco (l'attuale Duomo) che era posta, appunto, nel territorio parrocchiale di santa Maria dell'Olmo - nell'àmbito della rideterminazione delle circoscrizioni parrocchiali di cui si è detto nella nota 21 - questa fu, ovviamente, incorporata in quella della Cattedrale. Tuttavia esistendo ancora il suo beneficio e resosi vacante per la morte del parroco, don Vincenzo Pellati, avvenuta il 26 febbraio 1823, il vescovo lo utilizzò assegnandolo alla nuova parrocchia di san Giovanni evangelista. Il parroco era anche cappellano della Confraternita ed aveva l'obbligo di celebrare per essa la santa Messa festiva alle ore 10, la benedizione eucaristica del venerdì e - dal 1873 - una santa Messa mensile per i confratelli defunti. La chiesa di santa Maria dell'Olmo era antichissima. Se ne trova notizia già nei cataloghi delle chiese alessandrine del 1350 e 1355. Fu officiata dai monaci benedettini che, come si apprende da una bolla di papa Callisto III del 20 giugno 1457, dipendevano dal monastero dei santi Vittore e Corona di Grazzano. Successivamente fu data in commenda al vescovo di Alessandria e negli atti delle antiche visite pastorali si legge che era unita alla “mensa vescovile”. Era amministrata da un rettore amovibile con le funzioni di parroco che, per disposizione del visitatore apostolico, nel 1567 fu trasformato in vicario perpetuo. Il vescovo Pietro Giorgio Odescaichi nel 1600 trasferì nelle case attigue alla chiesa il seminario che vi rimase fino al 1628 quando passò ad occupare le case di san Gerolamo in via Vochieri, rimanendovi fino a qualche anno fa. Nel 1711. per consiglio del vescovo Francesco Gattinara, le Suore orsoline si insediarono nelle stesse case. NeI 1728 (a seguito della demolizione del quartiere di Borgoglio per la costruzione della cittadella) fu trasferita in essa la prepositura di san Michele di Borgoglio ed al preposito fu affidata la cura d'anime. La Parrocchia cessò di funzionare, come si è detto, nel 1807 a seguito della rideterminazione delle circoscrizioni parrocchiali e la chiesa divenne, così, conventuale delle Orsoline. Nel 1848 fu rifatta ed abbellita, aveva la facciata rivolta verso via Lodi ed il fianco verso la via Faà di Bruno (di essa non rimane che il campanile, forse trecentesco). Nel 1852 le Orsoline aprirono una scuola per ragazze povere. L'intero complesso, passato al Comune nel 1867, fu destinato al Collegio convitto femminile ed alla Scuola normale per aspiranti maestre.
  4. ^ Originariamente si chiamava “porta di Genova” (da non confondere con piazza Giacomo Matteotti detta Genova) e si trovava all'incirca nella zona di piazza Giuseppe Garibaldi quasi dirimpetto a via san Giacomo della Vittoria, aperta diagonalmente nell'omonimo baluardo delle fortificazioni. Per il commercio della città era la porta principale per la quale in allora si andava normalmente a Genova. Questa porta fu abolita agli inizi dell'Ottocento dal governo francese che, nel suo piano di nuove fortificazioni, ne aprì un'altra a poca distanza, chiamandola porta di Savona, dal nome della strada che ancora indirizza a quella città, sulla quale si affacciava. Nella pianura antistante la porta di Genova, il 25 luglio 1391, ebbe luogo la battaglia vinta dagli alessandrini e dai milanesi - capitanati dal veronese Jacopo dal Verme, al servizio di Gian Galeazzo Visconti - sui francesi agli ordini del conte Giovanni III d'Armagnac, sostenitore della lega antiviscontea ispirata da Firenze. In memoria di tale vittoria - ricordata anche dall'Ariosto nell'“Orlando furioso” (c. 33, 21 -22) - fu poi edificata a poca distanza una chiesa dedicata a san Giacomo (festeggiato, appunto, il 25 luglio) che per ciò fu chiamata “della vittoria”.
  5. ^ Già nel 1904, con lettera del 25 novembre, il vescovo Capecci aveva comunicato alla Confraternita che intendeva attribuire al suo cappellano, però da lui nominato, i diritti ed i doveri di parroco. Quindi, intendeva mantenere di fatto nella chiesa della stessa Confraternita una parrocchia per l'assistenza spirituale degli abitanti a levante della ferrovia cioè del quartiere, poi chiamato: la Pista. I confratelli si dichiararono a più riprese non favorevoli a questa iniziativa ed il 26 marzo 1905 elessero il proprio cappellano nella persona del sac. don Giovanni Gamalero che, come si dirà, fino a quel momento aveva continuato l'attività a s. Giovannino quale vice-parroco. Il 29 maggio successivo il vescovo comunicò alla Confraternita le condizioni che poneva per la costituzione della parrocchia: il cappellano della Confraternita sarebbe stato parroco, nominato dal vescovo su una terna di tre nomi proposti dalla stessa Confraternita la quale doveva provvedere al suo sostentamento con un assegno annuo a proprio carico. Infine, alla Confraternita era affidata l'amministrazione della Parrocchia. Sostanzialmente il vescovo affidò la Parrocchia alla Confraternita che, evidentemente, accettò tali proposte.
  6. ^ La costruzione della chiesa era iniziata nel 1932, auspice il vescovo Nicolao Milone che in essa è sepolto, su progetto dell'ing. Gallo di Torino. Fu solennemente benedetta il 1º novembre 1935.
  7. ^ Sull'“orientamento” e sulla ‘luce’, v. R. Tatt - La liturgia delle ore in oriente e in occidente - Ed. Paoline; Milano, 1988.
  8. ^ Ml 3, 20.
  9. ^ Lc l, 78-79.
  10. ^ Gv 1, 4-5.9.
  11. ^ l Gv l, 5-7.
  12. ^ ib.2, 8-11.
  13. ^ Ap 21, 22-26.
  14. ^ Eb 4, 4-6. -
  15. ^ Ef 4, 25-32.
  16. ^ Ps 67, 34-35.
  17. ^ Math 24, 27.
  18. ^ De serm. Dom. II, 18.
  19. ^ C. A. lI, 57.
  20. ^ De Spir. Sanc., 27.
  21. ^ l Cor l6, 22.
  22. ^ Ap 22, 20.
  23. ^ Sal 118, 20.
  24. ^ At 4, 8.11-12.
  25. ^ Il Duomo di Milano e la liturgia ambrosiana - a cura di G. Mellera e M. Navoni (n.d.a.: canonici, maestri delle cerimonie) - NED, Milano 1992. A proposito dei rapporti tra la Chiesa alessandrina e Milano bisogna ricordare che fino al secolo XVIII Alessandria fu intimamente una città lombarda. L'Ughelli ne parla nel tomo III della sua Italia sacra quando, trattando della Provincia septima sive Lombardia transpadana appellata olim Insubria Galliaque cisalpina ubi accurate de Mediolanensi Metropoli eiusque suffraganei episcopi pertractatur, afferma che Alexandria civitas in munitissimis Insubriae civitatibus potest adnumerari. Sul piano ecclesiastico, nel 1175 - come si legge nel Regesta pontificum Romanorum, Italia Pontificia (vol. VI, parte II, Berlino 1914, rìst. an. Berlino 1961) e nel Liber Pontificalis (a cura del Duchesne, torno II, Parigi 1955, p. 431) - papa Alessandro III recepta instantissima petitione Galdini Mediolanensi archiespisci, Apostolicae sedis legati, et consulum Mediolanensium et Marchiae, decorat Ecclesiam et Civitatem, quae in honorem beati Petri et ad profectum et exaltationem totius Lombardiae aedificata est, pontificali dignitate; et concedit Arduino subdiacono apostolico quem eis in episcopum et pastorem concessit, et successoribus eius ius episcopale. Il santo arcivescovo Galdino che chiese l'erezione della Diocesi era nato a Milano nei primi decenni del secolo XII da una famiglia nobile e ricoprì l'ufficio di cancelliere e di arcidiacono della Chiesa milanese. Si oppose a Federico Barbarossa che aveva eletto un antipapa Vittore IV, e - dopo la resa e la distruzione di Milano del 1162 - fu costretto all'esilio con il suo vescovo Oberto. Alessandro III lo chiamò a Roma creandolo cardinale nel dicembre del 1165 ed il 18 aprile 1166 lo ordinò vescovo di Milano. Giunto a Milano, diede il suo appoggio alla Lega lombarda e tra le rovine della città diroccata dalle truppe del Barbarossa trovò gli accenti per rianimare i cittadini umiliati e per organizzare un ampio ed efficace servizio di assistenza a favore del popolo prostrato nello squallore. Si preoccupò di far deporre i vescovi della sua provincia ecclesiastica aderenti all'antipapa; come vescovo si distinse anche nella predicazione e nell'azione contro le nascente eresia càtara dimostrandosi intrepido difensore dell'ortodossia della fede. La morte lo colse sul pulpito il 18 aprile 1176 mentre predicava contro gli eretici. In tale giorno la sua memoria liturgica è ricordata nel calendario della Diocesi ambrosiana. San Galdino è raffigurato in Cattedrale nell'affresco che sovrasta il portone principale. In esso - dice il can. Giuseppe Amato nel suo libretto “La Cattedrale di Alessandria” - l'autore, il torinese Luigi Morgari, “accostò due avvenimenti importanti nella storia della città; Alessandro III nella Cattedrale di Benevento, accetta solennemente la consegna delle chiavi della Città fatta dai due consoli Rufino Bianchi e Biagio Braschi. Dalla parte sinistra vi è il notaio che redige l'atto di nomina del primo vescovo di Alessandria, Arduino. Questi è assistito dal Metropolita san Galdino, arcivescovo di Milano”. Il tutto è sintetizzato nella scritta sulla fascia di contorno: MCLXX Fidelitatem recipit – MCLXXV Episcopatum erigit. Il tutto è sormontato dallo stemma della città. Ai piedi, il nome del pontefice: Alessandro III. In estrema sintesi il messaggio è questo: Alessandro III nel 1170 ricevette la dichiarazione di fedeltà della città e nel 1175 ne eresse la Diocesi. Nella seconda discesa in Italia, Federico Barbarossa aveva accentrato il sommo potere di ogni città nel podestà da lui imposto. Egli divenne ancora più impopolare per la serie di antipapi che aveva suscitato contrapposti al legittino pontefice Alessandro III, colpevole di non assecondare il suo cesaropapismo. Nei dodici anni in cui l'imperatore sì tenne lontano dall'Italia (1162-1174) andò organizzandosi la reazione antitedesca, prima nelle città venete e poi in quelle dei comuni lombardi i quali, per onorare il papa Alessandro III, proclamato capo della lega che si andava stabilendo contro l'imperatore, dedicarono al suo nome la città che stava formandosi alla confluenza della Bormida con il Tanaro, allo scopo di tenere divisi il Monferrato e Pavia rimasti fedeli all'imperatore. Questi scese in Italia nel 1174, tentò di dividere le città della lega ma trovò fortissime resistenze. Distrusse Milano che quasi subito fu ricostruita ed il vescovo Galdino chiese al papa di elevare a sede vescovile quella piccola e nuova città che però aveva saputo superare l'assedio imperiale. Il pontefice assecondò la richiesta e vi destinò quale primo vescovo il suddiacono romano Arduino che però morì subito dopo, senza aver ricevuto la consacrazione. Il secondo vescovo Ottone eresse il Capitolo della Cattedrale il 18 luglio 1180. Sorsero, successivamente, non pochi scontri con la diocesi di Acqui, che veniva a trovarsi privata di non poco territorio concesso ad Alessandria, cosicché fu governata dagli arcidiaconi del capitolo della cattedrale (cioè la prima dignità, essendo quella “pontificale” vacante) fino al 1405, quando - come si legge nel Màdaro, Vecchi cronisti alessandrini, Casale 1926, p. 276: (ad annum 1405) Die vigesimo quinto mensis ianuarii Bertolinus Beccari Bergoliensis, Ordinis fratrum Eremitarum sancti Augustini, magisterque theologiae datur episcopus Alexandrirns ad Innocentio VII summo pontifice; cum sedes episcopalis interregnum fecisset annis ducentum circiler et triginta. Infatti, in un documento del 1462 si afferma che le Confraternite erano state fondate in Alessandria con l'autorità ed il consenso degli antichi arcidiaconi: (...) praeferitorum r. d. archidiaconorum ecclesiae majoris sede vacante. Il legame con la Chiesa milanese era richiamato anche da alcune particolarità. Nel quartiere di Borgoglio - dove fino al Concilio di Trento si celebrava con il rito ambrosiano - il Monastero di san Pietro era alle dipendenze dirette dell'Arcivescovo di Milano e la chiesa della Collegiata di santa Maria di Borgoglio ancora nel 1336 era sanctae ecclesiae mediolanensis subiecta ed addirittura nel 1697 il suo sigillo recava l'immagine di sant'Ambrogio che pure era dipinta sul campanile unitamente allo stemma della città ed alla parola: libertas. Anche sul piano più strettamente civile, la città ed il suo contado furono comprese nel Ducato di Milano fino al trattato di Utrecht deI 1713, quando - a conclusione della guerra di successione spagnola - gli austriaci occuparono la Lombardia e la smembrarono cedendo al re Vittorio Amedeo Il, Alessandria, Valenza, la Lomellina e la Valsesia che ancora nel 1759 - insieme al novarese ed al vogherese (passati nel 1748 a seguito del trattato di Aquisgrana, a conclusione della guerra di successione austriaca) - erano chiamate “Lombardia di Savoia”. Alessandria fu perciò staccata dalla Lombardia alla quale la legavano l'appartenenza e le tradizioni storiche, addirittura, antecedenti alla sua fondazione e divenne, come si legge negli atti del governo sabaudo, “Provincia di conquista” o “di nuovo acquisto”, tappa fondamentale dell'espansione dei Savoia verso la pianura padana. I vescovi di Alessandria - pur rimanendo la diocesi suffraganea di Milano - vennero da allora in poi nominati su proposta del capo di Casa Savoia. Di tale proposta, però, non verrà mai fatta menzione nelle bolle pontificie di nomina in quanto la Diocesi di Alessandria, come quelle di Casale Monferrato e di Acqui Terme, era esclusa dall'elenco delle sedi episcopali soggette a tale privilegio poiché, nel periodo in cui fu concesso (il 10 gennaio 1455 da papa Nicolò V), non apparteneva agli allora domini di Casa Savoia ma, come appunto si è detto, al ducato di Milano. La diocesi rimase suffraganea di Milano tino al 1803 quando, in vista della stipulazione del concordato con lo stato francese, papa Pio VII dovette cedere alle imposizioni di Napoleone e, con un breve del 1º giugno, rifuse o soppresse le sedi episcopali piemontesi riducendole a sette (Alessandria fu soppressa ed unita a Casale) ed assegnandole all'Arcidiocesi di Torino. Caduto Napoleone, con la Restaurazione, lo stesso papa Pio VII, aderendo alle richieste del re di Sardegna, Vittorio Emanuele I, con un breve del 17 agosto 1817, ricostituì le Diocesi in precedenza soppresse ed istituì la sede metropolitana di Vercelli assegnandole, quale suffraganee, le Diocesi di Alessandria, Biella, Casale e - successivamente, con altro breve del 26 novembre - Novara e Vigevano alle quali furono trasferite le Parrocchie delle Diocesi ex lombarde ed ora in territorio piemontese. Tutte le altre Diocesi rimasero suffraganee di Torino ad esclusione di quelle di Tortona e di Bobbio che furono trasferite all'Arcidiocesi di Genova. (cfr G. Vigotti - Milano metropoli ecclesiastica - NED, Milano 1981).
  26. ^ Per la chiesa è uno spazio di accoglienza ed insieme di vero e proprio “inizio della celebrazione”, intatti nei primi secoli era chiamato paradisus ed era così importante da essere nel VI secolo oggetto di un canone del concilio di Orleans: “Si proibisce di edificare una chiesa senza aver prima informato il vescovo della città, che deve intervenire per segnare il perimetro dell'edificio e per indicare sul terreno lo spazio dell'atrio”. L'atrio era un luogo dove non si poteva commettere violenza, c'era diritto di asilo e così via, aveva pertanto un significato giuridico anche civilmente riconosciuto. Inoltre, poiché in questa area venivano pure seppelliti i morti, ciò favorì il culto dei morti, come vivi che hanno preceduto nella strada della salvezza; ricordiamo che l'unità della fede cristiana attribuisce alla vita terrena un valore transitorio, di “cammino”, di “passaggio”, appunto. Tutto ciò, però, andò affievolendosi dal secolo XII-XIII in poi, ed il “paradiso” si trasformò in “sagrato”, spazio di continuità con lo spazio urbano. Praticamente, l'attività della vita urbana si concentrò sul sagrato-piazza come luogo di aggregazione degli interessi religiosi ma anche civili e politici. Questa vera e propria componente della chiesa venne quindi progressivamente laicizzandosi, tanto che nel 1612 san Carlo Borromeo pubblicò un editto in cui precisò che in esso “niuno appoggi armi alla chiesa (...), non si facciano cose profane (...), non si facciano processi né si diano sentenze sia civili sia criminali, ne si facciano contratti di sorta (...)”. Alla fine del XVIII secolo, quando i cimiteri vennero definitivamente allontanati dalla città, questo spazio venne definitivamente desacralizzato ed acquistò una centralità per “tutto” l'uomo, religioso e laico: divenne il luogo privilegiato, lo spazio urbano privilegiato per la comunicazione sociale. Soprattutto nel XVIII secolo si pervenne alla razionalizzazione delle funzioni coesistenti nella città e non si riconobbe più alla piazza-sagrato l'originaria funzione globale, civile e religiosa, ma si giunse a separare il sagrato recingendolo o sconvolgendolo per esigenze di viabilità, in ogni caso disconoscendone il valore. Questo spazio deve però essere ricompreso come cerniera tra Chiesa e mondo, tra il luogo di celebrazione e la vita quotidiana; non separazione, ma continuità; segno della Chiesa che non si estranea dal mondo e dalla storia, che è nel mondo ma non del mondo. Certamente per fare questo è necessaria una rielaborazione dei “segni” in rapporto alla vita quotidiana dell'oggi e, più radicalmente, una maggiore attenzione alle dimensioni antropologiche dell'esistenza personale e collettiva.
  27. ^ Sulla lapide, collocata sul muro di sinistra all'ingresso, si legge: QUESTA CHIESA/DELLA V. CONFRATERNITA DEL SS. CROCIFISSO/FU EDIFICATA PRIMA DEL SEC. XVII/QUASI DISTRUTTA PER TEMPI CALAMITOSI E GUERRE/VENNE RIFATTA E DECORATA NEL 1769/ ERETTA IN PARR.A COL TITOLO DI S. GIO. EV.STA NEL 1825/SI RISTORO' NEL 1890 ESSENDONE PRIORE/ PAMPURO LORENZO. COADIUTORE MORANDI PIETRO/ VICE-PRIORI BIGATTI CARLO E RAVA LUIGI/CAMAGNA SEBASTIANO PREF. DI SACRESTIA/TESTERA INNOCENTE TESORIERE. CAMAGNA GIOVANNI SEGRETARIO/CONSULTORI: ASTUTI GIUSEPPE. ASTUTI GIOV. BESOSTRI CAV. SEC./BALOSSINO PAO. BORASIO LOR. CAMAGNA LUIGI. GABEY GIO./JACQUEMOND Gb. MAGGIOLI PIETR. MOISO FRAN. NEGRI LOR./NEGRI VEN. NEGRI LOR. PALLAVIDINO FIL. PAMPURO FRAN./PORTA GIO. PICAROLI GIO. RAVAZZI GIUS./PREV. BARISONE GIOV. PARROCO.
  28. ^ Ap 4, 6-8.
  29. ^ Ez l,5-6.10-11.
  30. ^ San Matteo ha come simbolo l'uomo: il vangelo da lui scritto inizia, infatti, con la genealogia di Cristo. L'uomo, inoltre, ricorda l'incarnazione. Il vitello o il bue, animale tradizionalmente legato ai sacrifici, simboleggia san Luca che inizia il suo racconto con il sacrificio di Zaccaria. Il vitello - vittima rituale, ai tempi dell'antica Legge - ricorda la Passione del Redentore che ha sacrificato la propria vita per la salvezza dell'umanità. Il leone, invece, designa san Marco che, fin dalle prime pagine del vangelo da lui scritto, ci parla della “voce che grida nel deserto”, come il leone. È inoltre simbolo della Resurrezione in quanto, si diceva, che dormisse con gli occhi aperti. Il cristiano, a sua volta, deve essere come un leone perché il leone è anche un animale coraggioso ed il giusto che ha rinunciato a tutto, non ha nulla da temere in questo mondo. L'aquila, come si è detto, simboleggia san Giovanni giacché il testo, fin dalle primissime parole, ci pone di fronte alla divinità del Verbo (luce vera) e l'aquila - si credeva - fosse l'unico animale ad avere la prerogativa di” guardare il sole in faccia”. L'aquila, poi, è anche il simbolo dell'Ascensione; il cristiano deve essere come un'aquila che vola alle grandi altezze e fissa il sole senza chiudere gli occhi, così come il cristiano deve saper “guardare in faccia” le realtà eterne. È evidente qui il richiamo all'essenza delle opere giovannee sia il vangelo sia le tre lettere sia l'Apocalisse. Sarebbe un trattazione interessante, ma non è certamente questa la sede per compierla. Inoltre, era opinione comune che l'aquila mostrasse particolari attenzioni per i suoi piccoli portandoli su ali spiegate nell'alto del cielo per insegnare loro a “fissare il sole” e lasciando cadere quelli che non riuscivano a sostenerne lo splendore. Quindi, l'aquila fu anche il simbolo dei neofiti e dei catecumeni. Il salmo 102 (103) - inno di lode al Signore per la sua misericordia, ringraziamento di un peccatore perdonato e guarito, celebrazione dell'Alleanza - dice, infatti, al versetto 5: “Egli sazia di beni i tuoi giorni e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza”. Sul “Tetramorfo” e la sua simbologia v.: G. de Champeux e dom S. Sterckh - I simboli del Medioevo - Jaca book, Milano, 1988; e O Beigbeder - Lessico dei simboli medievali - Jaca book: Milano, 1989.
  31. ^ Le fortificazioni della zona della porta di Genova furono al centro dell'attacco che le truppe franco-spagnole, agli ordini del generale Caracaval, portarono ad Alessandria il 6 ottobre 1745, dopo la battaglia di Bassignana, durante la guerra di successione austriaca detta della "prammatica sanzione". La prammatica sanzione, emanata nel 1713 e confermata nel 1720, disponeva nella casa d'Austria il diritto di successione in favore del ramo femminile. Perciò, alla morte di Carlo VI d'Asburgo, il 20 ottobre 1740, estintosi il ramo maschile, salì al trono sua figlia Maria Teresa, moglie del granduca di Toscana Francesco di Lorena. Si levarono, allora, a vantare diritti sulla corona d'Austria, per imparentamenti diversi in linea femminile, Filippo V di Spagna, Carlo Alberto di Baviera, Augusto di Sassonia ed, infine, ma con altri scopi e motivi, anche Federico Il di Prussia. A difendere la successione di Maria Teresa si coalizzarono: Russia, Inghilterra, Paesi Bassi e Carlo Emanuele III, re di Sardegna. Lo schieramento avversario comprendeva, quindi: Spagna, Baviera, Sassonia, Prussia, Francia, Modena e Napoli. I franco-spagnoli (o, come si diceva allora, i gallo-ispani) erano giunti nell'alessandrino già nel luglio 1745, tentando di arrivare in Lombardia, tenuta dagli austriaci. Era, quindi, evidente che l'ostacolo maggiore da superare era costituito dalla cittadella di Alessandria. Intatti, dopo aver vinto a Bassignana il 27 settembre, si approntarono ad investire Alessandria e la sua cittadella, in mano agli austro-piemontesi. L'attacco ebbe luogo il 6 ottobre 1745, proprio nella zona della porta di Genova. Racconta, infatti, il Guasco nelle sue memorie (custodite nella Biblioteca civica) che «... nel primo sparo una palla andò a colpire la chiesa di san Giovannino in tempo appunto che si faceva la solita novena della mattina e che quell'Oratorio era pieno di popolo. Fece la palla cadere alcuni mattoni i quali offesero tre donne, onde tutta la gente fuggì sbigottita all'aperto e il sacerdote che apparato vi stava all'altare, riposto subito il Venerabile che stava esposto, fece chiudere la chiesa.» Per evitare sofferenze agli alessandrini, il 1º ottobre il governatore di Alessandria - l'ottuagenario Ignazio G. B. Isnardi di Castello-Havard, marchese di Caraglio, conte di Sanfrè - si recò dal vescovo Alfonso Miroglio e lo incaricò di parlamentare, unitamente a quattro deputati della città, con gli assedianti e di trattare la capitolazione alle migliori condizioni possibili per la città ed i suoi abitanti. Nella notte il Caraglio si rinchiuse nella cittadella ed il giorno dopo, proprio dalla porta di Genova, uscì il vescovo ed i deputati per parlamentare ed offrire al Caracaval le chiavi della città. Nello stesso giorno entrarono in città 14 battaglioni franco-spagnoli ed il tenente generale Guglielmo di Lascj, irlandese, fu nominato governatore. Incominciò, così, da parte dei franco-spagnoli il cosiddetto "blocco della cittadella". La vicenda si concluse il 10 marzo 1746 con la vittoria degli austro-piemontesi. Quando i franco-spagnoli lasciarono la città, racconta ancora il Guasco, «abbandonarono tra noi gran quantità di grani, farine, legna, fieno e paglia oltre ad un'infinità di medicamenti e di droghe ad uso de' loro ospedali. L'infima plebe al tempo della loro partenza del gran magazzino di granaglie lasciato nella chiesa di s. Giovannino, ne ruppe le porte e saccheggiò ogni cosa.» (B. Gho, L'agro alessandrino durante le guerre della prammatica sanzione, U. tip. Ferrari, Ocella & c.; Alessandria, 1931; ed anche: La distinta relazione dell'assedio della città di Alessandrià, Ed. dell'Orso, Alessandria, 1981). Come si legge nella biografia ufficiale pubblicata dalla santa Sede in occasione della canonizzazione proclamata dal papa Giovanni Paolo II il 19 maggio 2002, in questo stesso periodo fu presente in Alessandria sant'Ignazio di Santhià, cappuccino, cappellano capo dell'esercito del re Carlo Emanuele III che assistette i feriti di questa guerra non solo nella nostra città ma anche ad Asti ed a Vinovo. La zona in cui sorge san Giovannino era un punto strategico per la città da ogni punto di vista soprattutto economico-commerciale e militare che, di conseguenza, assegnava alla chiesa un ruolo decisamente significativo. La zona continua ad essere strategica: è il centro, l'isola pedonale, e san Giovannino - proprio dove la gente passa di corsa oppure passeggia distratta e disattenta guardando vetrine e negozi - continua a svolgere il suo ruolo di richiamo a fermarsi, anche per un solo istante, "in ascolto".
  32. ^ Eb 6,19.
  33. ^ 1 Cor 13, 13.
  34. ^ Col 3, 14.
  35. ^ vol. 1431, filza 776.
  36. ^ G. A. de Giorgi - Notizie sui celebri pittori e su altri artisti alessandrini - Tip. Capriolo; Alessandria, 1836: reprint: A. Forni ed., Bologna 1977.
  37. ^ Ottavio Paravicini è senza dubbio una figura di primo piano nella storia della Chiesa alessandrina. Discendente da nobile famiglia comasca, nacque a Roma nel 1552. Fin dalla giovane età fu discepolo di S. Filippo Neri e completò la sua formazione come allievo del cardinale Cesare Baronio, autore degli Annales ecclesiastici e confessore di papa Clemente VIII. All'età di 32 anni, il 5 marzo 1584, fu eletto da papa Gregorio XIII vescovo di Alessandria mentre era Nunzio in Spagna. E proprio dalla Spagna, il 1º maggio 1584, chiese a S. Carlo Borromeo (Alessandria in quel tempo apparteneva alla provincia ecclesiastica ambrosiana) di assisterlo nella sua missione e di consacrarlo personalmente. Cosa che avvenne nel Duomo di Milano il 15 luglio dello stesso anno, alla presenza dei vescovi di Novara, Tortona, Pavia, Piacenza e Novara (abbiamo il discorso tenuto da S. Carlo: Homiliae IV, 282-285). San Carlo onorò il Paravicini con una grande attenzione incaricandolo più volte di predicare in Duomo alla sua presenza. L'8 agosto partì da Milano ed il 10, con una solenne cerimonia, prese possesso della sua Chiesa. Appena giunto, iniziò, il 4 settembre, la visita pastorale della Diocesi. Il 19 settembre 1587, papa Sisto V lo nominò Nunzio in Svizzera con l'incarico di riorganizzare i cantoni elvetici cattolici. Cosa che fece svolgendo, anche con intransigenza, una vasta opera riformatrice e realizzando il rinnovamente auspicato dal Concilio di Trento. La stessa dott.ssa Cosola in un altro pregevole studio: "La Nunziatura in Svizzera di Ottavio Paravicini, Vescovo di Alessandria - corrispondenza della sua Missione Diplomatica" ha esaminato tutta l'azione del Paravicini in Svizzera documentando con precisione le doti di perfetto diplomatico, di prudenza e di fermezza che gli consentirono di "realizzare un'importante e necessaria opera riformatrice degli usi e costumi della popolazione, in nome della religione cattolica e quale campione dell'umanesimo devoto, attinto ad litteram alla scuola di S. Carlo Borromeo e dagli esempi del cardinale Agostino Valier di Verona.". Fu, poi, anche, cardinale protettore della nazione tedesca e dell'Ordine camaldolese e fu chiamato da numerosi Pontefici (Innocenzo IX, Clemente VIII e Paolo V) a far parte di diverse Congregazioni della Curia romana. Nel 1591, papa Gregorio XIV lo promosse alla porpora con il titolo presbiterale di S. Giovanni a Porta Latina e l'anno dopo lo trasferì al titolo di S. Alessio all'Aventino. Il 13 luglio 1591 ritornò in Alessandria festeggiato da tutta la città e, tornato a Roma, il 9 agosto, fu nominato legato a latere in Francia. Nel 1595, ancora trattenuto a Roma, mandò il vescovo di Tortona Maffeo Gambara, a supplirlo nelle necessità della diocesi. L'anno dopo rinunciò al vescovado di Alessandria e scelse (avendogliene data facoltà il papa Clemente VIII) a sostituirlo mons. Pietro Giorgio Odescalchi. Su quest'ultimo si avrà occasione di tornare: fu un Presule zelatissimo (istituì le SS. Quarantore perpetue da celebrarsi ogni 15 giorni a turno nelle Parrocchie della città, iniziando dalla Cattedrale il 1º settembre 1599; visitò la Diocesi tre volte, iniziò le serie dei Sinodi celebrandone complessivamente tre) e personaggio di grande impegno culturale (diede, per esempio, nuovo impulso all'Accademia degli Immobili, fondata nel 1562 e poi decaduta). Tornando al cardinale Paravicini, va detto che, nonostante la lontananza a causa dei suoi impegni al servizio della Chiesa universale sopra illustrati, non trascurò mai la sua Diocesi né fece venir meno la sua attenzione nei confronti della Chiesa alessandrina. Lo si deduce dall'ampia corrispondenza e dalle diverse opere di cui fu promotore fra le quali il Palazzo Vescovile (Inviziati) che adornò ed accrebbe: per questo è ancora visibile il suo stemma sull'architrave della seconda porta a destra sotto il porticato. All'età di 59 anni e dopo aver partecipato a quattro Conclavi, morì il 3 febbraio 1611 per un attacco di difterite, e fu sepolto a Roma nella sua Chiesa titolare di Sant'Alessio. Il Paravicini è anche ricordato per aver cercato di imporre, come San Carlo a Milano, l'attuazione delle severe Bolle del 12 luglio 1555 e del 19 aprile 1566 rispettivamente dei papi Paolo IV e san Pio V in cui si ordinava la segregazione degli ebrei in appositi quartieri: i ghetti. Gli ebrei erano giunti in Alessandria a metà del XV secolo (nel 1456 ne esisteva già un piccolo nucleo) e nel 1501 ottennero il permesso definitivo di abitare in città. Ottenuti i necessario poteri dal Governatore e dal Podestà, l'11 settembre 1584 emanò un editto con il quale ordinava che, entro il marzo 1585, tutti gli ebrei alessandrini dovessero andare ad abitare entro i portici vecchi della città, in un luogo a loro soli assegnato. Gli interessati si lamentarono presso il re di Spagna, Filippo II, asserendo che il quartiere scelto era troppo piccolo e che non si prestava alle loro attività. Il re appurò che in Alessandria vivevano 145 ebrei che fino a quel momento avevano vissuto in 24 case, esercitando i loro commerci in 22 botteghe; mentre il ghetto proposto comprendeva invece unicamente 14 case e 10 botteghe. Si scelse allora "una contrada di carreggio, qual è ancora frequentata, e messa a sboccare nella strada maestra vicino alla piazza". Il quartiere assunse presto la denominazione di "contrada degli ebrei" con cui è ancora noto. Lo stemma del Paravicini ("di rosso al cigno d'argento") recava un motto che racchiudeva perfettamente le caratteristiche della sua attività apostolica al servizio sia della nostra Chiesa locale sia della Chiesa universale: agitado mas siempre firme. Il Gasparolo, trattando del Palazzo Inviziati, sede vescovile, afferma che al piano terreno vi era il "salone dei vescovi" con i ritratti di quindici vescovi e le relative "imprese" e motti. L'ultimo di questi ritratti era proprio quello del cardinale Paravicini. Le sue "imprese” erano: un gallo, con il motto: somnolentos arguit ; ed un uomo che distribuisce cibi a più persone, con il motto: ‘'supra multa te constituam. Considerato lo "spessore" del personaggio, v'è da presumere che la sua azione influenzasse fortemente tutta la Chiesa alessandrina. Per esempio, considerati gli usi dei tempi, è significativo che il suo stemma sia pure scolpito sull'altorilievo collocato sulla facciata san Giovannino sopra il portone di ingresso, ai piedi della Croce. Era il riconoscimento pubblico di qualche benemerenza. Infatti, in mancanza di documentazione certa si possono azzardare ragionevoli ipotesi. Se si confrontano le date, si notano "singolari coincidenze". Egli fu vescovo di Alessandria dal 1584 al 1596. In questo periodo viene fatto scolpire l'altorilievo di cui si è detto e, cosa più importante, viene richiesta ed ottenuta, il 25 luglio 1586, l'aggregazione della Confraternita alessandrina alla omonima Arciconfraternita romana della Basilica di san Marcello al Corso. Va rilevato che tutte le Arciconfraternite romane - oltre che per gli aspetti devozionali e di culto - si caratterizzavano anche per la loro collocazione politica. Quella dell'Arciconfraternita del santissimo Crocifisso era perfettamente aderente alla linea del cardinale Paravicini: era filospagnola. Fin dalle sue origini probabilmente si caratterizzò in tal senso: papa Leone X che la promosse fu alleato dell'imperatore Carlo V contro Francesco I. Inoltre, delle 250 Confraternite aggregate esistenti nel 1600, la quasi totalità era localizzata in Spagna (una trentina nelle diocesi di Toledo, Siviglia, Salamanca, Granada e Maiorca) o nei domini spagnoli dell'America latina (tre in Perù e Messico) e d'Italia (la rimanenza). Mentre nei territori francesi ve ne erano solo tre: a Lione, Poligny e Carpentras. Lo stesso Ambasciatore spagnolo partecipava regolarmente alle processione ed all'attività dell'Arciconfraternita. Si osservi, infine, che l'aggregazione venne concessa il 25 luglio, giorno in cui si festeggia la festa dell'apostolo san Giacomo il maggiore, Patrono anche della Spagna (Santiago), il cui Santuario a Compostela in Galizia è stato per secoli meta dei più importanti pellegrinaggi della cristianità (insieme a Roma e la Terra Santa costituivano una delle cosiddette ‘'peregrinationes maiores). Quindi, si può dire, che il tutto fu il risultato di quell'importante processo politico e sociale che si può definire "ispanizzazione dell'Italia" nei secc. XVI e XVII. Ma questa considerazione porterebbe il discorso ben al di là dei limiti che ci si è imposti in questa sede. (Ct r E. Ughelli - Italia sacra - S. Coleti stamp.; Venezia, 1719; e, in Biblioteca dell'Accademia Olubrense (Centro internazionale di studi storici e storico-ecclesiastici in Pietrabissara di Isola del Cantone, Ge): n. 7, Paola Cosola - Documenti vaticani per la storia di Alessandria. Il cardinale Ottavio Paravicini, vescovo di Alessandria, riformatore e nunzio apostolico (1552-1611) - Alessandria, 1991; n. 18, Paola Cosola - La Nunziatura in Svizzera di Ottavio Paravicini, vescovo di Alessandria - Roma, 1994; C. Bascapè - Vita e opere di Carlo, Arcivescovo di Milano e cardinale di s. Prassede - ris. NED -Milano 1989).
  38. ^ Sal. 117(118), 20.
  39. ^ Gv 10, 1.2-7.
  40. ^ Gv 10, 9.11.
  41. ^ Lc l, 31.
  42. ^ Gv 10, 24-39.
  43. ^ Mt 7, 13-14.
  44. ^ Lc 13, 24.
  45. ^ 10, 25.
  46. ^ M. Roncati, “Porte aperte al perdono”, in “Luoghi dell'infinito”, anno II, n. 5, febbraio 1998, pag. 24 e segg..
  47. ^ Dello stesso periodo, circa, in cui è stato realizzato l'altorilievo, la Confraternita conserva una pisside che sotto la base reca la scritta: Jacobus Bastus f(ecit) f(acere) 1588.
  48. ^ E. Gasparolo, F. Guasco di Bisio e C. Parnisetti - Raccolta di iscrizioni alessandrine - Società di Storia Arte e Archeologia della Provincia; Alessandria, 1935.
  49. ^ Gv 19, 30.
  50. ^ Oltre a questa Indulgenza “propria” per i confratelli, a san Giovannino si poteva lucrare un'altra Indulgenza destinata a tutti i fedeli che partecipavano regolarmente alla “Novena del santissimo Crocifisso” che si concludeva, il sabato immediatamente precedente la domenica delle Palme. Negli ultimi tre giorni della Novena si celebravano le Quarantore. L'indulgenza era stata concessa dal papa Pio VI con breve del 24 marzo 1781 (Archivio segreto vaticano - secolo brev., lndulg. perpet. 62, ff. 642-645). Papa Pio VI, Giannangelo Braschi, nacque a Cesena il 27 dicembre 1717 da un ramo della famiglia Braschi che abitava in Alessandria dalla sua fondazione: il consoli Biagio Braschi e Ruffino Bianchi giurarono fedeltà a papa Alessandro III, a nome degli alessandrini. Questa famiglia apparteneva al quartiere di Marengo, infatti il 19 maggio 1471 ebbe parte nella divisione della Fraschetta fatta dagli Anziani alle nobili famiglie di Marengo. Un ramo di essa si trasferì a Cesena come si legge in un documento del 6 maggio 1522, in cui fra i consiglieri intervenuti la Consiglio generale v'è Ioannes Matheus Brascus loco Bernardini eius fratris absentis et in civitate Cesenae commorantis (...) Nominato canonico della Patriarcale basilica di san Pietro in Vaticano da papa Benedetto XIV, neI 1773 fu creato cardinale e nel 1775 fu eletto papa e volle chiamarsi Pio in onore del concittadino san Pio V. Morì in esilio (Roma era stata occupata dalle truppe francesi, e successivamente proclamata repubblica) vessato dal governo napoleonico, il 29 agosto 1799. Una grande lapide collocata sulla facciata della Cattedrale, accanto a quella che onora san Pio V, lo ricorda agli alessandrini. Particolare solennità veniva dedicata alle Quarantore che risultano celebrate in Alessandria sin dal 1553. Si legge in un testamento che il sacerdote Luchino Squarciafico il 1º aprile di quell'anno, legò alla chiesa della Collegiata di santa Maria di Borgoglio (poi detta, dal 16 ottobre 1611: santa Maria della Neve) un moggio di frumento per la provvista dell'olio occorrente all'illuminazione del ss. Sacramento durante le ss. Quarantore. Nel 1555 risultano celebrate in sedici chiese di Confraternite e furono stabilmente riprese nel 1682 per disposizione del vescovo Alberto Mugiasca. Questa funzione si era rapidamente diffusa in Alessandria da Milano (la Diocesi di Alessandria è rimasta suffraganea dell'Arcidiocesi ambrosiana fino al 1803) dove nel 1527 Antonio Bellotti, francescano ravennate, predicando nella chiesa del santo Sepolcro, persuase i fedeli a rimanere in preghiera per quaranta ore continue. Egli, probabilmente, si rifaceva a quanto scrive sant'Agostino (De Trinilate IV, 6): Ab hora mortis usque ad diliculum resurrectionis horae sunt quadraginta, ut etiam hora nona connumeretur. Peraltro, già nel Medioevo era diffusa la consuetudine di vegliare, nelle chiese, dal Venerdì santo al notturno della notte di Pasqua, dinanzi al cosiddetto santo Sepolcro. Nel 1537 fu introdotta la “novità” che le Quarantore, terminando in una chiesa, cominciassero immediatamente in un'altra, risultando così un'adorazione ininterrotta. Ciò fu fatto anche in Alessandria e fu stabilmente definito dal vescovo Pietro Giorgio Odescaichi, successore del cardinale Paravicini. Si iniziò il 1º settembre 1599 in Cattedrale proseguendo - ogni 15 giorni, a turno - in tutte le chiese della città. Alla diffusione delle Quarantore fu determinante la contrapposizione cattolica alla dottrina protestante che nega la reale presenza eucaristica. Comunque, nel 1539, su richiesta del Vicario generale di Milano, questa celebrazione fu riconosciuta da papa Paolo III che la arricchì di Indulgenze. Nel 1550 a Roma, san Filippo Neri la introdusse come uno dei principali esercizi della sua Confraternita della santissima Trinità dei Pellegrini e sul suo esempio lo fu per tutte le Confraternite. San Carlo Borromeo nel I Concilio provinciale milanese (1565) la confermò e ne organizzò stabilmente il funzionamento. Nel 1592, con la costituzione Graves et diuuturnae, papa Clemente VIII le organizzava ufficialmente, e nello stesso documento, spiegava che lo scopo a cui doveva mirare tale preghiera era essenzialmente la pace e la concordia. Per questo, nella Instructio clementina, emanata da papa Clemente XII nel 1731, si prescrisse che la Messa da cantarsi nel secondo giorno delle Quarantore fosse, di regola, quella votiva pro pace. La liturgia della Chiesa, pur non prevedendole più come tali, raccomanda che nelle chiese in cui si conserva abitualmente il santissimo Sacramento ogni anno si faccia un'esposizione eucaristica solenne e prolungata per un certo tempo, anche se non propriamente continua (v. Rito della comunione fuori della Messa e culto eucaristico, cap. III, n. 94), che, in molte Parrocchie e comunemente dai fedeli, viene ancora chiamata Quarantore.
  51. ^ Quello dell'Addolorata era un culto che probabilmente si era diffuso in città a seguito del prodigio del simulacro della beata Vergine Maria della Salve, patrona della città e della diocesi, avvenuto il 24 aprile 1489. A ciò non deve essere stata estranea anche la presenza dell'Ordine dei Servi di Maria (i “Serviti”, nella nostra città fin dal secolo XIII) al quale si deve la cura e la diffusione del culto all'Addolorata: tale è infatti la beata Vergine Maria della Salve al culto della quale le Confraternite partecipavano attivamente. Infatti nel giorno anniversario del prodigio, due Confraternite - come racconta il Burgonzio - durante la santa Messa pontificale, processionalmente, “incominciarono fin d'allora, ed indi proseguirono a presentarlo ogn'anno un grosso cereo per ciascheduna; così rendendo esse in faccia a tutti risplendentissima quella interna riconoscenza, che i cuori infiamma dei suoi ferventissimi Confratelli”. lnoltre, le Confraternite - alla quarta domenica di ogni mese - si recavano in Cattedrale per una visita corale alla Madonna ed avevano il compito di portare il venerando Simulacro durante la processione della festa. Il legame al culto della Salve caratterizzò sempre l'impegno devozionale delle Confraternite. Quando il 28 maggio 1843 ebbe luogo la solenne incoronazione del ven.do Simulacro, i Sodalizi intervennero al completo, aprirono la processione ed i confratelli portarono la statua dalla Cattedrale alla piazza della Libertà (allora detta: Reale) dove la cerimonia si svolse alla presenza del re Carlo Alberto. Bisogna qui ricordare che il sorgere di una festa liturgica sul dolore della Madonna proviene proprio da una Chiesa locale. Infatti, il 22 aprile 1423 un decreto del Concilio provinciale di Colonia introdusse in quella regione la festa dell'Addolorata come riparazione agli oltraggi sacrileghi fatti dagli ussiti alle immagini del Crocifisso e delta Vergine ai piedi della Croce. La festa fu chiamata Commemoratio angustiae et dolorum beatae Mariae virginis, ed il decreto conciliare definiva la data della sua celebrazione così: “ordiniamo e stabiliamo che la commemorazione dell'angustia e dei dolori della beata vergine Maria venga celebrata ogni anno il venerdì dopo la domenica Jubilate (n.d.a.: III domenica dopo Pasqua) salvo che in quel giorno occorra un'altra festa, nel quale caso sarà trasferita al venerdì seguente”. Più sopra il decreto fissava anche il momento preciso al quale si riferiva la celebrazione: “...in onore dell'angoscia e del dolore che Ella soffrì quando Gesù, le mani distese sulla Croce e immolato per la nostra salvezza, affida la benedetta Madre al discepolo prediletto'. Inoltre, poiché il documento afferma che tale festa “verrà celebrata soltanto in coro con i primi vespri, mattutino ed ore e con i secondi vespri secondo le note, la storia e l'omelìa composte per questa medesima festa”, pare di capire che esistessero già dei testi liturgici precedenti al Concilio stesso. Quello che merita di essere sottolineato è che si tratta di una festa incentrata sulla scena del Calvario e sulla commendatio della Madre fatta da Gesù in croce all'apostolo Giovanni, ed - inoltre - che tale ricordo o commemorazione era fissato nel tempo pasquale. Nel 1482 papa Sisto IV compose e fece inserire nel messale, con il titolo di” nostra Signora della Pietà”, una Messa incentrata sull'evento salvifico di Maria ai piedi della croce. Successivamente tale celebrazione si diffuse in tutto l'Occidente con varie denominazioni ed in varie date. Oltre che con la denominazione stabilita dal Concilio di Colonia e con quella fissata nella Messa di Sisto IV, veniva chiamata anche De transfixione seu martyrio cordis beatae Mariae, De compassione beatae Mariae virginis, De lamentatione Mariae, De planctu beatae Mariae, De spasmo atque doloribus Virginis, De septem doloribus beatae Mariae virginis, ecc. Quanto alla data si va dal venerdì dopo la Domenica in albis, al primo sabato dopo l'Ottava di Pasqua, al lunedì o venerdì dopo la domenica di Passione (oggi, V domenica di Quaresima). Gradualmente anche nel nome si passò dalla commendatio ai septem dolores cioè dalla scena ai piedi della Croce ai diversi dolori della vita della Madonna, e nella data si passò dal tempo pasquale a quello quaresimale: naturalmente sono passaggi che avvennero lentamente e non è certamente questa la sede per studiare il loro evolversi anche se si può tratteggiarne le tappe fondamentali per osservare come si tratti dell'accoglimento liturgico di un culto popolare antico, assai diffuso e radicato anche in città. Circa l'origine del culto si può subito osservare che i vangeli non descrivono i sentimenti di Cristo e di sua Madre al Calvario. La pietà cristiana, meditando e contemplando Cristo sofferente sulla Croce, ha tuttavia cercato di comprendere ed esprimere il dolore intimo suo e dei vari testimoni della sua Passione e Morte. Il “lamento” o “pianto” di Maria sul Calvario ebbe questa origine ed assunse una crescente importanza al punto di divenire uno speciale genere letterario che ispirò la liturgia. L'oriente lo ha racchiuso nei suoi ”threni” (lamenti). S. Efrem il siro (+373) è forse l'autore del più antico “pianto di Maria”, che fa parte dell'ufficio siriaco dei Vespri del Sabato santo. Romano il melode (secolo VI) nell'inno “Maria presso la Croce” trasformò il pianto-monologo della Madonna in un dialogo tra lei e Gesù, a partire dall'incontro sulla via dolorosa. Nell'occidente, il cistercense Oglerio (+1214), prima di diventare abate di Lucedio, scrisse uno dei più importanti “pianti di Maria”. Oglerio, nel desiderio di piangere la morte di Cristo, chiede alla Vergine di narrargli la sua dolorosa esperienza dell'incontro con Cristo, dalla via dolorosa al Calvario fino alla sepoltura. Il “pianto” latino più celebre è la sequenza Stabat Mater, per lungo tempo attribuita a Jacopone da Todi (+1306). Oggi, però, si preferisce considerare san Bonaventura (+1214) come il poeta di questo canto veramente francescano. Non è un pianto pronunciato direttamente dalla Vergine; tuttavia, drammatizza la sua presenza al Calvario ed il suo dolore di Madre dinanzi alla sofferenza ed alla morte del Figlio. L'inno, caratteristico di tutte le liturgie dell'Addolorata, diventa una preghiera alla Madonna per ottenere l'unione con il suo dolore e la grazia di una buona morte. Proprio un solenne Stabat mater (quello di Rossini) fu eseguito la sera del 28 maggio 1843, nel Teatro civico, a conclusione delle già ricordate celebrazioni per l'incoronazione della Salve. Appaiono, quindi, in tutta evidenza le connessioni esistenti tra il culto dell'Addolorata e quello della Salve ed il legame tra questi, la spiritualità della Confraternita e l'aggregazione all'Arciconfraternita romana. Inoltre, essendo evidentemente scopo precipuo della Confraternita la meditazione della Passione del Signore, non si è trattato altro che di un rafforzamento o della istituzionalizzazione dell'originario carattere penitenziale del Sodalizio. Perciò l'aggregazione all'Arciconfraternita del santissimo Crocifisso di san Marcello assume ben altra importanza: è la naturale conseguenza di precise caratteristiche devozionali e di culto, oltre che di comune sensibilità spirituale. È appena il caso di sottolineare le evidente connessioni che esistono tra l'evoluzione di questo culto e quanto si dice nel testo e nelle note precedenti sull'iconografia del Crocifisso, il concetto di metànoia ed i pellegrinaggi. Comunque la diffusione del culto dell'Addolorata, come peraltro si è già detto all'inizio della nota, è avvenuto non senza l'influenza dell'Ordine dei Servi di Maria (i Serviti). Infatti, il 18 agosto 1714 la sacra Congregazione dei Riti, dietro supplica del Priore generale dell'Ordine, concedeva che la “Commemorazione solenne dei sette dolori della beata Vergine Maria”, già celebrata in qualche diocesi e provincia per indulto speciale, fosse estesa a tutto l'Ordine il venerdì di Passione, con rito doppio maggiore. Il 22 aprile 1727 poi, papa Benedetto XIII, sempre su richiesta dei Serviti, la estendeva a tutta la Chiesa latina e la fissava, secondo la data già concessa all'Ordine, al venerdì dopo la domenica di Passione, unificando così titolo e data. Parallelamente, sorse un'altra festa. Infatti, verso il 1500 si usava tenere nelle chiese servitane una riunione degli iscritti alla “Compagnia dell'abito dei sette dolori”, la terza domenica di ogni mese. Un secolo dopo si incominciò a rendere più solenne una di queste riunioni annettendo ad essa una processione: si scelse la terza domenica di settembre. Il 9 giugno 1698 l'Ordine veniva autorizzato a celebrare solennemente questa festa la terza domenica di settembre. Il 17 settembre 1735, su richiesta di Filippo V, tale festa venne estesa a tutti i domini della Spagna. Il 18 settembre 1814, il papa Pio VII, devotissimo dell'Addolorata, in ricordo delle sofferenze inflitte da Napoleone alla Chiesa nella persona del Pontefice, la estese a tutta la Chiesa latina, con i testi e l'Ufficio già in uso presso i Serviti. È utile qui ricordare che papa Pio VII (Barnaba Gregorio Chiaromonti, di Cesena) passò più volte da Alessandria. La prima volta l'11 novembre 1804 mentre andava a Parigi per incoronare Napoleone imperatore. La seconda volta di ritorno da Parigi il 28 aprile 1805. La terza volta quando, per ordine dello stesso Napoleone, fu condotto prigioniero da Roma: alloggiato in città nell'abitazione del Comandante militare, nessuno poté avvicinarglisi. Attraversò poi la città altre due volte: la prima il 19 giugno 1812, quando da Savona fu condotto in tutta segretezza a Fontainebleau; infine il 17 maggio 1815, quando da Genova andò a Torino su invito del re di Sardegna, nella quale occasione fu esposta la Sindone. Di ritorno da Torino a Roma, il 22 maggio sostò nuovamente in Alessandria fermandosi nella chiesa di sant'Alessandro, in quel momento Cattedrale in sostituzione di quella antica esistente su piazza della Libertà e fatta demolire dal governo francese. Gli alessandrini poterono così dimostrare al Papa l'affetto che non avevano potuto manifestargli le altre volte: al ponte sul Tanaro staccarono i cavalli dalla carrozza che portava il santo Padre ed a braccia la condussero in città. Tornando al discorso sulla festa dell'Addolorata, con la riforma di san Pio X, la quale tendeva a mettere in risalto la domenica, questa festa, nel 1913, cessò di essere mobile e venne fissata al 15 settembre, giorno in cui veniva celebrata nel rito ambrosiano che festeggiava già i” Sette dolori” al posto dell'Ottava della Natività di Maria (8 settembre). Per quanto riguarda la festa del venerdì di Passione, essa fu ridotta con la riforma del 1960 a semplice commemorazione e poi soppressa con la recente riforma liturgica conseguente al Concilio ecumenico vaticano II. (Cfr: AA.VV. - La Madonna di Savona, a cura della Cassa di risparmio di Savona - M. Sbatelli ed., Savona 1985; A. Adam - L'anno liturgico celebrazione del misero di Cristo - ELLEDICI, Leumann (TO); W. Beinert - Il culto di Maria oggi - Ed. Paoline; L. Burgonzio - Le notizie istoriche di Maria santissima della Salve - A. Vimercati stamp. -Alessandria 1738; D. M. Sartor, o.s.m. - Le feste della Madonna - Ed. Dehoniane; G. Segalla, L. Gambero, T. Koehler - Maria ai piedi della croce - Ed. Piemme, Casale M. 1989).
  52. ^ Gal 6,14.
  53. ^ I gruppi lignei rispondono ai criteri di una concezione estetica caratterizzata dallo spiccato realismo dell'opera d'arte, dall'adesione fedele alla verità storica e teologica del contenuto rappresentato e soprattutto dall'evidente semplicità narrativa, concettuale e formale delle regole artistiche. Per meglio comprendere la loro interpretazione, è sufficiente richiamare il testo del decreto sulle immagini sacre emanato dal Concilio di Trento che così afferma: Illud doceant Episcopi; per historias mysteriorum nostrae redemptionis, picturis, vel aliis similitudinis expressas, erudiri et confirmari populum in articulis fidei commemorandis et assidue colendis (I vescovi insegnino questo, ossia che il popolo per mezzo di storie riguardanti i miseri della nostra Redenzione, raffigurate in pitture o in altre forme di arte figurativa, sia istruito e confermato nel tenere a mente assiduamente gli articoli della fede). Il decreto conciliare focalizza in maniera inconfondibile e certa la portata della decisione e rende più chiare le motivazioni della realizzazione di queste opere d'arte e di altre simili (p. es.: i sacri Monti) la cui conoscenza non può prescindere in alcun modo da quelle finalità didattico-educative dell'arte sacra, fondate sulla portata esemplare delle immagini stesse, sulla facile comprensibilità dei soggetti e sul desiderio di larga apertura della religione verso il popolo. (cfr A. Catelli-D. Roggero - Crea, il Sacro Monte - Ed. Piemme, Casale M. (Al) 1989). Su questi gruppi, v. F. Gualano - Le “casse” processionali di san Giovannino ad Alessandria: un ciclo scultoreo ispirato alla dottrina tipologica - in “Studi Piemontesi”, novembre 1995, vol. XXIV; fasc. 2; ed anche L. Mallè - Le arti figurative in Piemonte - Casanova ed., Torino, in cui afferma che i gruppi ”legano con lo stile del Plura cui potrebbero attribuirsi…”.
  54. ^ Gen 4, 8.
  55. ^ Gen 8, 20.
  56. ^ Gen 22.
  57. ^ Nm 21, 8-9.
  58. ^ Eccone il testo: “Chi vuoi veder l'ucciso Abelle vero/e l'Iri che dal Ciel pace ha portato/e ‘l Sacrificio intero/dell'innocente Isacco/e di Mosè ‘l Serpente in croce alzato/ed altre pur figure/nelle passate età mistiche e oscure/Venga a veder nel Redentor che more/tutto compito: e se non, sente al cuore/di pietade e d'amor teneri affetti/né pietade né amor dal Ciel s'aspetti (dai manoscritti Ferrari, custoditi nella Biblioteca civica).
  59. ^ Quella delle processioni è una caratteristica tipica delle Confraternite: si ricordi, infatti, quanto si è detto su Raniero Fasani e la “grande devozione” del 1260/61. Un altro avvenimento segnò la storia delle Confraternite: il “Movimento dei Bianchi”, dove per “movimento” si intende non solo un fenomeno religioso e sociale, ma anche un fatto fisico relativo al “muoversi”, camminare, pellegrinare. Esso iniziò in Provenza ed in Piemonte alla fine del XIV secolo, sullo sfondo del turbamento delle coscienze provocato dal protrarsi dello scisma e delle divisioni della Chiesa. Nel contempo era in corso la guerra dei cent'anni e pure tra tedeschi e polacchi come in Spagna contro gli Arabi, stavano avendo luogo pesantissime ostilità. Anche in Italia il sorgere delle signorie produceva conflitti interminabili. Inoltre, non bisogna dimenticare che solo nel 1378 papa Gregorio XI pose fine alla “cattività avignonese” durata settanta anni, rientrando a Roma e che nell'anno successivo iniziò il grande scisma di occidente ed una serie di divisioni alle quali pose termine il Concilio di Costanza, nel 1417, con l'elezione di papa Martino V. Sì concluse così un travagliato periodo che aveva visto regnare addirittura quasi contemporaneamente i seguenti papi ed antipapi: Gregorio XII, Benedetto XIII, Alessandro V e Giovanni XXIII. È, quindi, evidente che in un contesto così macerato ed inquietante (nel 1348 infierì su tutta l'Europa una delle più gravi pestilenze della storia, la “peste nera”, vissuta proprio come castigo di Dio per le malefatte degli uomini), nell'umile plebs christiana crebbero il disagio ed il malessere con il risultato di provocare un incoercibile movimento spirituale in cui confluì il mai sopito anelito per una “Chiesa senza ruga e senza macchia”. Lo stesso Giubileo del 1390 fu promulgato da papa Urbano VI, poco prima di morire, con la dichiarata intenzione di impetrare il soccorso della Vergine e per porre fine alla rottura dell'unità della Chiesa. Nel maggio del 1399, secondo il racconto-cronaca di Luca Dominici, notaio di Pistoia, prende avvio il movimento dei Bianchi (al quale egli aveva aderito e di cui era stato testimone) che per molti versi fu culmine e compendio di tutti i movimenti di pace e di penitenza che attraversarono l'intero Trecento. Esso nacque e si sviluppò nell'ambiente comunale cittadino con una potentissima presa sulle realtà socio-politiche ciircostanti. I Bianchi, infatti, giungevano accompagnati da confessori e da notai: i primi per raccogliere il pentimento di molti; i secondi per stendere gli atti di riconciliazione tra famiglie nemiche e di fondazione di ospedali, chiese ed opere pubbliche a testimonianza della pace raggiunta. In una civitas fondata sulle “parti”, drammaticamente solcata dal fenomeno del fuoriuscitismo e agitata da tensioni sociali, chiedere la liberazione dei prigionieri, il perdono dei nemici e la restituzione dell'altrui (con la denuncia dell'usura che non rispetta lo iustum pretium), significava in definitiva minare quell'identificazione tra “cristiano esemplare” e “probo cittadino” che era alla base del sistema comunale. Per questo le autorità, pur non potendo essere dichiaratamente ostili, vedevano con sospetto ed insofferenza queste manifestazioni che spopolavano le città e rimettevano in discussione gli equilibri politici e sociali. Tuttavia, solo a Milano, Giovanni Maria Visconti mandò i soldati contro i Bianchi che lasciarono sulle strade parecchi morti. Diversamente dai “battuti” di quali si è già detto, e la cui devozione aveva connotazioni forti; quella dei Bianchi fu proprio come le loro laudi, prive di motivi escatologici, tutte centrate sulla Passione redentrice, sulla missione della b. Vergine come avvocata dei peccatori, sulla vanità dei beni terreni e sul pensiero della morte. Le suggestioni apocalittiche, probabilmente, furono solo sovrapposizioni dei cronisti davanti ad una devozione che, nella penitenza collettiva, nel perdono e nella pace, voleva ricomporre la vita nel pensiero della morte. Narra il Dominici nella sua “Cronaca della venuta dei Bianchi” che tale movimento avrebbe avuto origine da un episodio molto significativo accaduto nel mese di maggio del 1399 “nei luoghi del Delfinato, di là da Alessandria tre giorni di cammino (…)” Cristo stesso sarebbe apparso ad un contadino, invitandolo ad andare a gettare un pezzo del pane che aveva come pranzo durante il lavoro nei campi, in una fontana vicina. L'uomo si stupì di quell'ordine sia perché aveva già mangiato quel pane quasi completamente, sia perché non c'erano fontane nei pressi. Comunque fu ancora più stupito quando, giunto vicino alla fontana, incontrò una donna vestita di bianco, triste per aver visto eseguire quell'ordine che era un simbolico atto di ira divina di fronte al peccato degli uomini. Era la Madonna che spiegò il tutto al contadino invitandolo a farsi promotore di conversione e di penitenza. Essa invitò i Confratelli a fare penitenza vestiti “di panno lino bianco a modo testé sono vestita io...coperto il capo con croce vermiglia in testa le donne e gli uomini con croce vermiglia su la spalla e vadino per nove dì a modo di processione col Crocefisso innanzi, gridando: “misericordia, misericordia, misericordia; pace, pace, pace”...e il primo sabato...cantando forte quella laude o vero sequenzia che dice: Stabat Mater dolorosa, juxta crucem lacrimosa, dum pendebat Filius…”. Evidentemente, la veste bianca richiamava sia la purezza della veste battesimale (e quindi il recupero dell'innocenza mediante gli strumenti della grazia); sia l'alba stola degli eletti nell'Apocalisse (7, 9). Inoltre, in quel tempo, la veste bianca significava: pazzia; per i Confratelli: santa pazzia evangelica. Sul luogo di origine del movimento dei Bianchi non sia hanno dati certi né univoci che permettano di stabilire se ciò che accadde in Piemonte sia da mettere in relazione con ciò che quasi contemporaneamente avvenne nel sud della Francia. In realtà il movimento dei Bianchi iniziò verso il 1396 e durò almeno fino al secondo decennio del Quattrocento e fu dominato dalla figura di san Vincenzo Ferreri. Inoltre, si osservi il posto centrale occupato dal culto della beata Vergine intesa come mediatrice misericordiosa. I Bianchi si muovevano da una città all'altra in processione cantando laudi ed altri motivi religiosi. Quando nella località ove giungevano si formava un'altra schiera, i primi ritornavano nello loro terra d'origine ed i secondi continuavano; e così via. Esso non passò certo senza effetto e senza risonanza nella nostra terra tanto più che, oltre ad interessare significativamente luoghi vicini alla nostra città (tracce del passaggio dei Bianchi sono presenti a Valenza ed a Gavi), sicuramente riguardò direttamente la stessa Alessandria come il passaggio del Ferreri testimonia. Gli annalisti cittadini ricordano il tutto molto diffusamente. Lo Schiavina – ad annum MCCCXCIX, vere jam adulto - afferma che i partecipanti alla processione induti namque linei vestibus albis, obducto capite, incedebant ordinate dispositi, bini scilicet, et habitu distincto, ut a viris foeminae internoscerentur, cruce semper praeeuate; inter eundum flagellis, ferreisque catenuliis sese caedebant, hymnos, et alias divinas laudes decantantes; civitates, et vicos adibant, et, ubi nox eos intercepisset, nulla habita ratione loci, sive in urbibus sub tectis, sive agris sub dio essent, ibidem consistebant. Cibus et potus illis erat ex piis largitionibus. Tempus omne, aut supplicationibus, aut sacris concionibus, aut componendis controversiis, aut demum conciliandae inter inimicos paci dabant. Ovunque passavano i Bianchi, continua l'annalista, indictum jejunium, tabernae omnes clausae, publicae rei nulla data est opera. Enim vero illi frequentes quotidie urbibus egressi, terna campestria supplicabunti lustrabant; inter civitates vero ad quadrivia quaeque, ubi intersecantur viae conveniebant, prosiratique illic ad terram in crucis similitudinem, a Deo, magni vocibus clamantes, opem, et misericordiam implorabant.. Lumelli - invece, ad annum MCCCXCVIII - più succintamente, dice che...ad Dei misericordiam implorandam in Gallia ulteriori; tum mares, quam foeminae albis indutis vestibus Ecclesias tum patrias, tum finitimas invisere instituerunt; quod et in ilalia itidem fiebat. Praecedebant duo Clerici vexillum cruci deferentes, alii vero bini hymnos, et psalmos cantabant. Utebatur cruce rubea, inaudito quotidie vestium genere utentes, quod factum fuit, ut multae sedarentur discordiae; multa extinguerentur odia: processio ista miseacordiae vocata fuit.. Il movimento interessò quasi completamente l'Italia del nord: il 5 luglio cinquemila Bianchi giunsero a Genova ed il 7 settembre arrivarono a Roma. La presenza di questa grande massa di persone (le cronache del tempo indicano in centoventimila i Bianchi arrivati a Roma) portò in città, come in altre occasioni, malattie ed epidemie. Lo spettro della peste anche questa volta si concretizzò mietendo dalle settecento alle ottocento vittime. Tale evento fu tramandato ai posteri dai cronisti romani con il nome di “morìa dei Bianchi”. Questo fenomeno spettacolare e frenetico rappresentò quindi un serio problema per le autorità romane. Il papa Bonifacio IX tentò in un primo momento di proibire l'accesso a Roma ai Bianchi ma questi iniziarono a flagellarsi supplicandolo al grido di “perdonanza”, e “pace e misericordia”. Alla fine il papa commosso per questa loro grande pietà, li accolse ed accordò loro la sua protezione ed espose alla loro venerazione la reliquia del Sudario della Veronica proclamando il perdono delle colpe e delle pene a chi avesse compiuto opere di penitenza per nove giorni (ecco tornare nuovamente il concetto di “novena”). La “Veronica” (da vera icona) era una sorta di sudario sul quale si voleva che Cristo avesse impresso il suo volto durante la Passione. Era, quindi, una di quelle immagini acheropite, come la Sindone, assai diffuse nel Medioevo. Di essa si hanno notizie a partire dalI'XI secolo, ma fu solo nel Duecento che divenne la più venerata tra le reliquie romane tanto che da allora ebbe inizio la pratica di riprodurla in quadrangulae di tela o di carta che i pellegrini romei appuntavano sul cappello o sul caratteristico mantello (detto appunto “pellegrina”) a testimonianza dell'avvenuto pellegrinaggio. Andò distrutta nel 1527 durante il “sacco di Roma” compiuto dai Lanzichenecchi. Quello dei Bianchi fu un movimento con una spiccata prevalenza degli aspetti religiosi e penitenziali su quelli istituzionali. Anche l'elemento itinerante (ne è rimasta materiale traccia nel “bastone” che ogni priore di Confraternita porta nelle processioni: si tratta defla trasformazione del bordone del pellegrino; non a caso il suo vero nome è: bordone priorale) che impresse loro un'eccezionale mobilità ed una diffusione capillare è un altro dato espressivo della loro pietà e soprattutto della loro missionarietà. Solo, quindi, nel suo preciso contesto storico può essere compreso appieno. È infatti un movimento dal “basso”, attacca i potenti, è “sovversivo” ed è schiettamente popolare con l'adesione di parecchi intellettuali. Il più noto ed attivo fu il poeta Franco Sacchetti, fiorentino, ma soprattutto vittima in prima persona della violenza avendo avuto un fratello giustiziato durante le rivolta dei Ciompi ed un figlio ferito in mare contro i pisani. La devozione mariana ed un più incisivo ruolo e partecipazione dei religiosi caratterizzarono il movimento dei Bianchi che si distinse, poi, per i motivi religiosi di fondo che lo ispiravano: impetrazione della misericordia divina da parte dei fedeli che riconoscevano umilmente i propri peccati, la rievocazione della Passione del Signore ed i fortissimi richiami alla povertà e semplicità evangelica. Questi sono anche i motivi ispiratori delle laude che pure caratterizzarono il movimento. Infatti, i Bianchi ebbero una notevole rilevanza anche dal punto di vista letterario in quanto ripresero e diffusero l'uso, già proprio anche dei Disciplinanti, di accompagnare le proprie devozioni con il canto appunto delle laude. Comunque il dilagare dei gruppi dei Bianchi dalla religiosità vivace e chiaramente proiettata su un programma di rinnovamento della Chiesa, impregnò abbondantemente la storia dei secc. XIII e XIV. Si è detto, più sopra, di san Vincenzo Ferreri. La sua presenza in Alessandria è attestata da diverse fonti. Sulla piazza della Cattedrale, a destra guardando la facciata, è presente (“martirizzata” da continui vandalismi) una colonna di granito al culmine della quale si trova un piccolo baldacchino metallico con all'interno un Crocifisso. Un tempo era collocata, come racconta il can. Berta nella sua “Cronistoria alessandrina”, “in capo alla strada maestra contro alla Rocchetta verso Bormida. ln occasione dell'atterramento della Chiesa di san Siro (1831) fu portata sulla piazza del Duomo”. Questa colonna ricorda due avvenimenti, ma uno soprattutto ci riguarda. Essa ricorda la predicazione del Vangelo fatta da san Siro alle genti della pianura alessandrina nel I secolo; ma ricorda soprattutto la predicazione di s. Vincenzo Ferreri, quando proveniente dalla Provenza, attraversò l'alessandrino. In questa occasione, infiammato di spirito profetico, il Ferreri previde il successo che avrebbe ottenuto con la sua predicazione, un giovane frate, presente tra i fedeli che lo ascoltavano, Bernardino da Siena, poi santo, dell'Ordine dei Frati minori osservanti di san Francesco. Gli Annales fratrum minorum, agli anni 1403-1404, ricordano l'incontro tra i due santi con queste parole: Fructiferam praedicationem in Italiam suscipiendam ante aliqiuot annos praedixit s. Vincentius, cum enin civitate fama et sactitate celeberrimus concionaretur; absoluta concione, Vincentium accessit. Pure, il Razano (vescovo di Lucera) nella sua vita di s. Vincenzo Ferreri presso i bollandisti, narra della predicazione del santo in Alessandria, presente s. Bernardino ancora giovane: Praedicante b. Vincentio Alexandriae, quae est in Lombardiae civitas, interfuit praedicationi eius vir ille toto orbe terrarum nunc nominatissimus fr. Bernardinus ordinis minorum, qui eo tempere erat juvenis, multisque ornatus virtutibus, sed nondum celebre in Italia nomen eius habebatur. Della predicazione del Ferreri ci sono nella Diocesi di Alessandria anche testimonianze indirette rappresentate da tele o affreschi che lo ratfigurano: sono ad esempio due tele conservate nell'oratorio della santissima Trinità di Capriata d'Orba l'una, e l'altra nella chiesa parrocchiale di Pasturana. Lo stesso Bernardino da Siena fu ad Alessandria. Suor Cecilia della Valle nel suo manoscritto “Cronaca del monastero di s. Chiara”, narra che il santo tu invitato dall'abbadessa Margherita dal Pozzo, mentre era di passaggio in Alessandria, intorno al 1421, a fare una predica alle sue monache. E predicò anche al popolo nonché alle monache, come egli stesso attestò (serm. 40. fer. 2 post dominica 6 quadrages.) narrando un fatto di cui fu protagonista: Similiter me praedicante in Alexandria de tali nomine Jesu, quidam puer posuit nomen Jesu super una energumena, et confestim extitit liberata. Va ricordato che nel 1418 Bernardino aveva rappacificato Casale dilaniata dalle lotte fra diverse fazioni. In ricordo di ciò lo stemma della città reca il simbolo dell'eucaristia (le lettere IHS, al centro di un'Ostia raggiante, su fondo azzurro) che era considerato l'emblema della sua missione. Nella prima metà del Cinquecento, poi, le Confraternite ebbero ulteriore incremento quando si diffuse la notizia che la Madonna - apparsa il 18 aprile 1536 ad un confratello della parrocchia di san Bernardo in Valle, nella diocesi di Savona, il beato Antonio Botta - aveva rivolto un pressante appello alla penitenza ed alla preghiera. Successivamente, in una seconda apparizione: l'8 aprile seguente, dopo aver nuovamente insistito sulla penitenza e sulla preghiera soprattutto nel giorno del Venerdì santo, aveva continuato: “...se non fosse per quelle orationi e buone azioni che si fanno per le Confraternità ed altrì servi di Dio, sarebbe il mondo più tribolato di quello che è (…)” e concluse con un significativo appello divenuto, poi, celebre: “Misericordia chiedo, non giustizia!”. Per questo la beata Vergine Maria “Madre di Misericordia” è la Patrona delle Confraternite liguri in particolare e di fatto lo è di tutte le Confraternite che ordinariamente concludono ogni loro liturgia, incontri di qualsivoglia ordine con la recita o il canto della Salve regina, mater misericordiae (...). Tornando alle processioni, san Carlo Borromeo nella “Regola” le codificò e le prescrisse nel capitolo 9º. In esso viene stabilito che nelle tre domeniche dopo l'Ottava di Pasqua, i confratelli si rechino in processione a determinate chiese o, in mancanza, in determinate zone della propria Parrocchia, dando vita a celebrazioni penitenziali. Nelle Confraternite del Crocifisso fu particolarmente sentita. Dopo quella del 1522 l'Arciconfraternita continuò la tradizione di portare il santissimo Crocifisso in processione in occasione di eventi di particolare rilievo o degli Anni santi, mantenendola fino ad oggi. Particolarmente nota è la processione del 1650, dopo la stipulazione della pace di Westfalia che poneva fine alla guerra dei “trent'anni”. Interrotta nel periodo napoleonico, riprese nel 1825. Dopo il 1870 il trasporto del santissimo Crocifisso a san Pietro avvenne in forma privata su un carro coperto da un drappo rosso, mentre la processione vera e propria si svolgeva nella basilica. Nell'Anno santo 1900 lo stesso pontefice, Leone XIII, il 13 marzo, si recò in basilica per venerare il santissimo Crocifisso, varcando la Porta santa in ginocchio. Con l'Anno santo 1925, riprese e fu ripetuta nel 1933, Anno santo straordinario, e mantenuta nel 1950 e nei 1954 (Anno mariano). Nel 1962, per espresso desiderio di papa Giovanni XXIII, il santissimo Crocifisso fu trasportato nella basilica di santa Maria maggiore per un solenne triduo di preghiere in preparazione del Concilio ecumenico vaticano II ed il 7 ottobre fu traslato nella basilica di san Giovanni in Laterano, dove il triduo si concluse con una celebrazione presieduta dal santo Padre. Riportato a san Marcello, il santissimo Crocifisso non è più uscito dalla sua cappella. Questa processione fu caratteristica di tutte le Confraternite del santissimo Crocifisso. Anche in Alessandria, il santissimo Crocifisso della Confraternita, con i gruppi lignei che, come si è detto nella nota precedente e nel testo, sono vere e proprie casse processionali, veniva portato processionalmente in Cattedrale il Giovedì santo e vi rimaneva fino al giorno di Pasqua. Il trasporto doveva essere particolarmente solenne se si osserva con attenzione un ordine di servizio (conservato presso l'Archivio di Stato) dal quale si apprende che nel 1791 erano intervenuti quale guardia d'onore: 42 granatieri”avec bonets et guettres”, con copricapo di pelo e ghette, (1 sottufficiale, 2 sergenti, 1 tamburino, 3 caporali e 36 soldati) e 37 fanti (1 sottufficiale, 1 sergente, 1 tamburino e 30 soldati). Inoltre, i responsabili del distaccamento di tali militari avevano la disposizione di mandare tanti pifferi e tamburini secondo le richieste della Confraternita che avrebbe provveduto a pagare il loro servizio. V'era inoltre la consuetudine di comporre per l'occasione un sonetto che, stampato, veniva distribuito in città per annunciare la celebrazione. in diversi atti d'archivio sono stati ritrovati, oltre quello del 1748 dedicato al cardinale delle Lanze, quelli del 1813, dedicato al prefetto del Dipartimento di Marengo, G. Pietro Ducolombier; del 1819 al marchese Ambrogio Ghilini e del 1844, dedicato alla contessa Giovanetta Figarolo di Gropello. Non si sa con precisione quale fosse il Crocifisso portato in Cattedrale in quanto, come si dirà nel testo, quello che fa parte del gruppo della Crocifissione fu realizzato unitamente al gruppo nel 1765. Probabilmente si trattava della grande Croce processionale conservata nella sagrestia di san Giovannino, unitamente al bastone priorale ed a due “sergentini” che servivano come punto di riferimento dei confratelli durante le processioni. A proposito della famiglia dei conti Figarolo di Gropello v'è da dire che i suoi appartenenti furono per diverse generazioni confratelli e consorelle di san Giovannino. La contessa Giovanetta alla quale si è fatto riferimento in precedenza era nata baronessa Baciocchi di Montalè e Celli. Era una donna molto pia ed impegnata: istituì a proprie spese il “Pio ritiro delle povere figlie', comunemente detto: “Casa Sappa”, dal nome della famiglia originariamente proprietaria della prima casa in cui si stabilì. Era figlia di Giulio Baciocchi, “Maire” di Alessandria durante quasi tutto il periodo del governo francese; imparentato con lo stesso Napoleone in quanto lontano cugino di Felice Baciocchi, marito di Elisa, sorella di Napoleone che le aveva assegnato il principato di Piombino, poi - insieme al marito - di Lucca e Massa Carrara, creandola infine granduchessa di Toscana. Sia per la contessa Giovanetta (deceduta il 6 gennaio 1872) sia per il marito Giovanni (decurione e Sindaco di Alessandria dal 1844 al 1848, deceduto il 19 dicembre 1873) la Confraternita tece celebrare solenni esequie a san Giovannino rispettivamente il 27 gennaio 1872 ed il 6 febbraio 1874. Nel 1873 il cav. Luigi (figlio cadetto di Giovanni; poi dal 1894 conte Figarolo-Tarino quale erede del prozio paterno conte Luigi Tarino) fu accolto nella Confraternita e nel 1874 lo fu anche Giulio (figlio primogenito di Giovanni). Nel 1886 divennero consorelle sia la moglie di Giulio, la contessa Maria Anna dei conti de Bray-Steiriburg originaria della Baviera; sia la moglie di Luigi, Teresa dei marchesi dal Pozzo di Annone. La contessa Maria Anna tu un personaggio di grandissimo valore: aiutò moltissimo don Bosco, incoraggiò negli studi colui che poi divenne il card. Giovanni Bonzano, e così via. Attualmente è confratello Carlo Gustavo Figarolo di Gropello, pronipote di Giulio e Maria Anna. (v. opp. citt. nella nota 56 e F. Glicora, B. Catanzaro - Anni santi, i Giubilei dal 1300 aI 2000 - Libr. ed. vaticana 1996).
  60. ^ A. di Ricaldone op. cit..
  61. ^ L'affresco richiama in modo impressionante - forse per segnare ulteriormente il rapporto con l'Arciconfraternita - il dipinto dello sportello della nicchia che a san Marcello in Roma racchiude il santissimo Crocifisso del prodigio del 1519, di Luigi Garzi (v. L. Gigli op. cit.). Il Garzi (Pistoia 1638-Roma 1721) fu allievo di Andrea Sacchi e, attratto poi nell'orbita del Maratta, assicurò la continuità, ormai nell'avanzato Seicento, del filone classicista nelle sue varie radici e nei suoi diversi sviluppi. Nel suo ultimo ventennio evolse con sostanziale coerenza verso esiti di “classicismo arcadico”. Lavorò a san Marcello negli anni attorno al 1670. (cfr Dizionario della pittura e dei pittori, G. Einaudi ed. - Torino).
  62. ^ L'importanza di queste quattro parole è straordinaria. Non a caso sono collocate nel punto “più nobile” dell'architettura dell'edificio: esse racchiudono mirabilmente l'intera spiritualità della Confraternita ed il significato complessivo della chiesa. Esse, infatti, costituiscono il programma di vita della Confraternita e la sua proposta alla comunità, allo stesso tempo esprimono la risposta dei confratelli all'esortazione di san Pietro nel la sua prima lettera (I Pt 2, 21-25): in hoc enim vocati estis quia et Chiristus passus est pro vobis, vobis reliquens exemplum ut sequamini vestigia eius(...). “A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia. Egli portò i peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime.”. Queste parole, poi, si compendiano con le altre di s. Paolo nella prima lettera ai Corinzi: “noi predichiamo Cristo crocifisso” (l Cor l,18-31). In definitiva, qui il cammino, l'itinerario di salvezza - iniziato nel sagrato, continuato con l'ingresso attraverso il “buon pastore” (la soglia dell'edificio) ed il Battesimo (l'acquasantiera) - si compie, si conclude e contemporaneamente si riapre ad una prospettiva di vita nuova in Cristo, Pastore eterno. Non a caso la liturgia propone la pericope della prima lettera petrina ed il vangelo del “buon pastore” nella stessa domenica, la quarta del tempo di Pasqua. Cristo è la porta che ci consente di entrare in comunione con il Padre nello Spirito. Con le acque del Battesimo siamo stati salvati e guariti dal nostro Pastore, siamo tornati a Lui e nella chiesa quando ci raduniamo, convocati dallo Spirito, siamo invitati ancora a convertirci, sempre più profondamente e con maggiore fedeltà al nostro Pastore. Ascoltando la Parola che ci viene annunciata, riconosciamo la sua voce e, nella fede, siamo illuminati sul mistero del vero “Pastore grande”83 che con il suo sacrificio raduna, raccoglie le “pecore disperse”. Ebbene, da queste parole, da questo cartiglio - abbassando lo sguardo secondo una linea rigorosamente verticale - troviamo immediatamente sotto di esso il grande Crocifisso, poi l'altare superiore con il tabernacolo collocato esattamente sotto il Crocifisso, nel punto di fuga dell'abside; ed infine il tabernacolo dell'altare maggiore. Questa immaginaria linea corrisponde esattamente all'asse verticale della Croce sul quale si trova il corpo di Cristo crocifisso. Il Crocifisso si presenta come un complesso di grande valore simbolico: esso reca alla base un teschio (come nell'altorilievo della facciata) con sopra un serpente che addenta una mela. Il teschio rappresenta L'“uomo vecchio”: Adamo (tutti gli Evangelisti: Mt 27, 33; Mc 15, 22; Lc 23, 33; Gv 19, 17.), inoltre, ci dicono che il Signore fu crocifisso in un luogo dello “del cranio”: il Gòlgota (Trascrizione della parola aramaica Gulgota che significa letteralmente: luogo del cranio, appunto, come pure il latino: Calvàrio, in quanto secondo la tradizione popolare del tempo, lì era stato sepolto Adamo.), il serpente che addenta la mela rappresenta il motivo della condanna: il peccato originale: il tutto in contrasto, o meglio in perfetta antitesi, con l'“uomo nuovo”: Cristo (nuovo Adamo) ed il motivo della salvezza, la Croce. Ed ogni battezzato deve seppellire l'uomo vecchio che ha in sé per essere un uomo nuovo nella fede, conformandosi a Lui (Rm 6, 6-11): il primogenito di ogni creatura (Col 1, 15), il primogenito tra i morti quale risorto (ib l,18). È Lui che ci precede e regna su tutti noi, è Lui il Signore del popolo di Dio, di tutto il popolo di Dio: dei laici, dei presbìteri e di chi presiede; per questo al centro sta Lui, non gli uomini e neppure la comunità. Credo che non vi possa essere migliore compendio del significato del Sacrificio e della Mensa eucaristica. Perciò, orientamento spirituale della Confraternita ed orientamento strutturale della chiesa si fondono, si uniscono in Cristo crocifisso. Questo accade perché san Giovannino ha un'altra peculiarità di fondo che bisogna sempre avere presente: non è una chiesa parrocchiale - luogo tipico in cui la comunità si raccoglie per la celebrazione dei Sacramenti - ma è stata costruita, come tutti gli Oratori delle Confraternite, in funzione di una specifica “devozione”, per polarizzare l'attenzione, nel nostro caso, sull'evento di salvezza costituito da Mistero pasquale della Passione e Morte del Signore (Cfr C.E.I. - L'adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica - nn. dal 50 al 53). Peraltro, afferma il santo Padre Giovanni Paolo II (Giovanni Paolo II, Varcare le soglie della speranza, A. Mondadori editore): “Ogni uomo che cerchi la salvezza, non soltanto il cristiano, deve fermarsi davanti alla Croce di Cristo (...) La Chiesa occidentale, pur conservando il primato della Resurrezione, è andata oltre nella direzione detta Passione. Il culto della Croce di Cristo ha modellato la storia della pietà cristiana e ha motivato i più grandi santi che la Chiesa abbia espresso dal suo seno nello spazio dei secoli. Tutti, cominciando da san Paolo, si sono “vantati della croce di Cristo” (Gv l,14) (...) Non c'è santità cristiana senza devozione alla Passione, come non c'è santità senza il primato del Mistero pasquale.”. È anche per questo che nelle note si esamina in modo un po' più approfondito e diffuso il culto del Crocifisso, della Passione e dell'Addolorata. Ora, è noto che da parte cristiana, alle origini, ci fu una grande recezione della struttura sinagogale. Nella sinagoga tutto era ed è organizzato attorno a due precisi punti di riferimento: al centro dell'abside, al dehir, rivolto ad oriente, l'arca che contiene la Torah: la Legge, la sacra Scrittura, la Parola di Dio; poi, il bema, l'ambòne, il luogo in cui la parola è proclamata e predicata. Ecco un altro significato: anche nella nostra chiesa, al centro dell'abside, al dehir il grande Crocifisso contenuto nella cappella sopra l'altare, quasi arca: la Parola di Dio che si è fatta uomo (Verbum caro factum est et habitavit in nobis, 1 Tim 2, 5) ed al centro l'altare e l'ambòne.
  63. ^ Mt 5,17.
  64. ^ Es 20, 2-17; Dt 5, 6-21.
  65. ^ Mt 5, 3-12.
  66. ^ Mt 5, 21-22.
  67. ^ Mt 5, 6-14.
  68. ^ In riferimento a queste considerazioni, v.: “Una nuova lettura della Sistina” di M. Calvesi, in ARS, anno I, n. 1, dicembre 1997;
  69. ^ Gv 14, 6-7.

Bibliografia modifica

  • Guglielmo Schiavina, Annali di Alessandria. Tradotti, annotati, abbreviati, continuati da Carlo A-Valle, a cura di Carlo A-Valle, Alessandria, Barnabé e Borsalino, 1861.

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