Gino Baroncini

sindacalista italiano

Gino Baroncini (Imola, 29 marzo 1893Bologna, 31 ottobre 1970) è stato un sindacalista e dirigente d'azienda italiano.

Segretario della Federazione provinciale fascista di Bologna tra il 1921 e il 1923, Alto Commissario del PNF (Partito nazionale fascista) per l'Emilia-Romagna, poi Presidente delle Assicurazioni Generali.

Biografia modifica

Gino Baroncini nacque il 29 marzo 1893 a Molino della Volta (Imola), da Domenico e Giuseppina Ancarani. Il padre era un mugnaio e la madre una "piccola insegnante di una piccola scuola di campagna". La madre desiderava che il figlio diventasse "per lo meno" ragioniere e nel 1908 lo iscrisse all'Istituto tecnico Pier Crescenzi di Bologna. Diplomatosi ragioniere nel 1913, Baroncini fu assunto nella Mutua Grandine della Associazione provinciale degli agricoltori (Agraria).[1] Non fu arruolato nella prima guerra mondiale a causa di una deformazione alle gambe.[1] Dino Grandi scrisse che

«per fare dimenticare questo suo handicap non esitava ad esibire ad ogni occasione un carattere violento e un particolare coraggio. Era incolto ma intelligente ed organizzatore abile ed astuto»

Il 5 gennaio 1920 Baroncini si iscrisse al Fascio bolognese di Combattimento diventandone presto uno dei capi.[1] Il 7 dicembre dello stesso anno, un centinaio di squadristi alla testa di Baroncini si portarono a Castel San Pietro, devastando il Municipio, la Camera del lavoro e la Cooperativa birocciai; sulle macerie della Camera del lavoro, Baroncini arringò una folla di atterriti braccianti. Il 3 gennaio 1921, in sede di Congresso del Fascio bolognese di Combattimento, Baroncini accusò il Segretario Leandro Arpinati di schiavismo agrario e di voler asservire il fascismo alla "vecchia Italia". Il Congresso emiliano dei Fasci di Combattimento (Bologna, 2-3 aprile 1921) approvò l'o.d.g. presentato da Baroncini e da Gattelli di Ferrara ("la terra a chi la fa fruttare e la lavora di più nell'interesse generale del Paese"). Una formula che tutelava la proprietà privata; condizionava la proprietà all'etica "borghese" del lavoro; ledeva solo quella borghesia che, per dirla con Baroncini, "considera la proprietà non già una funzione, ma un privilegio ereditario". Su L'Assalto Baroncini si era premurato di dire che

«si procederebbe all'esproprio solo a carico di quegli agrari che vivono pacificamente sulle rendite trasmesse in città dai loro agenti di campagna, (...) perciò nulla hanno da temere i piccoli proprietari coscienziosi»

Il Congresso elesse Grandi e Baroncini al Comitato regionale e Arpinati al Comitato centrale dei Fasci di Combattimento. I "triumviri" si candidarono alle elezioni politiche del 15 maggio 1921. Poiché Arpinati era il candidato degli agrari, Baroncini ritirò la sua candidatura per ammassare le preferenze sull'amico e alleato Grandi. Il 21 giugno 1921 Baroncini fondò la Federazione tra i Fasci della Provincia di Bologna, di cui divenne Segretario federale[1] per acclamazione. Con la Federazione egli si proponeva di sottomettere gli indisciplinati Fasci agrari, sottraendoli al controllo dei possidenti locali. Il 22 ottobre 1921 fu convocata l'ennesima Assemblea degli iscritti al Fascio bolognese di Combattimento. Un agente di P.S. riferiva:

«Nell'assemblea si svolse una discussione animata tra due tendenze: quella capitanata dall'Arpinati, con pochi seguaci, che sosteneva il fascismo non dovesse dar vita ai sindacati, e quella capitanata da Grandi e Baroncini che sosteneva la necessità della formazione di un partito nazionale con i sindacati intorno ai quali dovevano raccogliersi le masse operaie per sottrarle ai partiti sovversivi»

Arpinati risultò perdente e dovette ritirarsi a vita privata. Avrebbe ripreso il suo posto nel 1922.

Il 12 giugno 1921 un migliaio di fascisti, convenuti a Molinella per "tricolorizzare" il paese, devastarono la Camera del lavoro socialista e i locali della Cooperativa di consumo: Giuseppe Massarenti si sottrasse a stento ai bravacci di Augusto Regazzi, riparando a Roma. Nel bolognese i morti per mano fascista furono 19 e i feriti 1936. Il diretto mandante di queste violenze era il Federale di Bologna Baroncini, che dalla sua scrivania in via Galliera ordinava di "legnare" gli oppositori, incendiare le Camere del lavoro e "indurre" alle dimissioni le Amministrazioni comunali socialiste. Con le sue ben note capacità organizzative, Baroncini aveva disseminato il bolognese di fasci e sindacati nazionali, costruendosi una posizione pari solo a quella di Italo Balbo tra i ras emiliani e romagnoli. La firma, il 2 agosto 1921 a Roma, di un "patto di pacificazione" tra fascisti e socialisti, avvenne dopo che il 5 luglio il Comitato emiliano dei Fasci di Combattimento aveva formalmente diffidato Mussolini e il Comitato centrale dall'"impegnarsi in definitivi accordi senza aver tenuto conto delle particolari condizioni delle province emiliane e romagnole".

In un'intervista rilasciata da Baroncini a Il Resto del Carlino, il Federale di Bologna pose esplicitamente la questione dei sindacati nazionali. Il trattato, a detta di Baroncini, non dava

«sufficienti garanzie per la vita di quegli organismi operai che noi abbiamo contribuito a creare: (...) Nelle nostre provincie non si potrà addivenire ad una vera e reale pacificazione fino a quando i socialisti non abbiano abbandonato tutte le pretese di monopolio del lavoro, e non abbiano rinunciato a tutti quei contratti, stipulati durante la loro dittatura, coi quali si stabilisce che coloni, affittuari e proprietari non possano servirsi che agli uffici di collocamento delle leghe rosse»

Quello che Baroncini non diceva era che il suo "apostolato" tra le masse si riduceva, di fatto, all'olio di ricino e al manganello. In effetti, i braccianti e i mezzadri che Baroncini non voleva "abbandonare" erano ostaggi dei sindacati fascisti. Il Congresso dei Fasci emiliani di Combattimento (Bologna, 16 agosto 1921) definì quelli di Roma "trattati insidiosi". Fu Baroncini che aprì i lavori del Congresso, osservando che "mentre a Milano s'invoca la disciplina, nelle Camere del lavoro si preparano le armi per pugnalare i fascisti". "Si dice che oggi che siamo degli indisciplinati. No, noi vogliamo salvare il movimento fascista!": parole vivamente applaudite dalle camicie nere convenute a Bologna, che "beccarono" l'ex socialista Mussolini con lo slogan "chi ha tradito tradirà".

Tra il "patto di pacificazione" e le assise romane dell'Augusteo si colloca, il 17 ottobre 1921 a Ferrara, il Congresso della CISE (Confederazione italiana Sindacati economici). In quella sede, Baroncini e Rossoni si fecero fautori di una Confederazione apolitica. Espulso dalla locale Camera sindacale del lavoro perché "attende a organizzare i sindacati in nome e sotto gli auspici della Federazione provinciale fascista", il 18 gennaio 1922 Baroncini fondò la Federazione bolognese dei Sindacati nazionali. Meno di una settimana dopo, nella sede di via Saffi, nacque la Confederazione generale dei Sindacati nazionali, alla cui Segreteria fu chiamato Edmondo Rossoni. Il Congresso fondativo del PNF (Roma, 7 novembre 1921) elesse Baroncini al Comitato centrale.

Il 12 aprile 1922, chiudendo il Congresso della Federazione provinciale fascista, Baroncini constatò

«con vivo dolore che l'eventuale disorganizzazione dei datori di lavoro prepara la riscossa di tutti i propositi disperati di reazione da parte della classe lavoratrice, anche di quella parte che milita nei sindacati (fascisti)»

Il Federale divideva gli agricoltori bolognesi in "buoni e cattivi", affidando gli "schiavisti agrari" alle sue camicie nere. I buoni agricoltori, scrisse, erano quelli che "dirigono le aziende con criteri moderni, mandano i loro figli a frequentare i corsi di agraria, si occupano della industrializzazione dell'agricoltura", i cattivi quelli che "considerano la ricchezza come un diritto che non ha doveri". L'individualismo contrattuale degli agrari era inconciliabile con il sindacalismo fascista.

Il 17 ottobre 1921 a Ferrara Baroncini aveva insistito "perché si discutesse il concetto di Rossoni: sindacalismo autonomo". Il 24 gennaio 1922 a Bologna era nata la Confederazione generale dei Sindacati nazionali. Renzo De Felice ha scritto che i sindacalisti fascisti preoccupavano quella borghesia "parruccona, codina e pescecanesca" beccata su L'Assalto da Baroncini: borghesia con cui Mussolini cercava un modus vivendi. Si trattava per il "duce" di subordinare la neonata Confederazione al PNF.

Il 13 agosto 1922 si riunì il Comitato centrale del Partito. Rossoni e Baroncini si dovettero difendere dall'accusa di populismo. La querelle tra la Federazione fascista bolognese e la Lega provinciale dei contribuenti, nell'estate 1922, si chiuse con le dimissioni di Giacobbe Manzoni e le botte agli agrari Del Turco e Cesari. Su L'Assalto, Baroncini scrisse che la Lega dei contribuenti era il rovescio della medaglia socialcomunista e delle leghe rosse di infausta memoria. Il 10 febbraio 1922 trecento fascisti bolognesi si portarono da piazza dei Tribunali a piazza Vittorio Emanuele II, ammassandosi minacciosamente sotto Palazzo D'Accursio; qui furono caricati dalla Guardia Regia, che ne arrestò una ventina tra cui Baroncini. Scarcerato il 13 febbraio, Baroncini fu nuovamente arrestato il 4 aprile dopo un comizio a Porretta Terme.

Per sottrarre alla Federterra i braccianti occupati nel bacino della Bonifica renana, Baroncini organizzò con Balbo i "crumiri" ferraresi: a Molinella, a Budrio e a Medicina la tessera fascista diventò la tessera del pane.

Il 23 maggio 1922 il Prefetto di Bologna, Cesare Mori, emanò un decreto con cui proibiva ai fascisti di "importare" operai da una Provincia all'altra. "Autorità Bologna, asservita spudoratamente socialisti, vieta transito operai Sindacati, minaccia arresto rimpatrio lavoratori, situazione gravissima", telegrafò Baroncini a Roma. In una intervista a Il Giornale d'Italia, il ras bolognese presentò il suo "cahiér de doleance": Mori era il leader di una "coalizione contro i fasci e i sindacati nazionali"; il Prefetto non tutelava la "libertà di organizzazione", istituzionalizzando il "monopolio" socialista del lavoro; i suoi poteri erano anticostituzionali. Il 26 maggio Mori scrisse una lunga lettera per rispondere alle accuse di Baroncini. Il "Viceré" parlò di una "combinata azione agrario-fascista" per annientare il Partito Socialista Italiano in Provincia di Bologna, e per strappare alle masse i diritti civili, politici e sociali. L'Autorità, scrisse, era Autorità dello Stato, e lo Stato non cede alla piazza.

Il Federale di Bologna mobilitò la sua "Decima Legio". Tra il 26 maggio e il 3 giugno 1922 gli squadristi devastarono decine di case del popolo, cooperative e circoli operai. Gli uomini di Baroncini setacciarono i quartieri operai, in cui avevano cercato rifugio socialisti, comunisti e popolari. Il 29 giugno convennero sotto le Due Torri Baroncini, Grandi, Oviglio, Balbo e il Segretario del PNF Michele Bianchi. "È incominciata l'occupazione della città", annotò Balbo nel suo diario. Si trattava di una occupazione manu militari con l'intento dichiarato di "cacciare" Mori da Bologna. Mori fu effettivamente deposto il 23 giugno. Lo Stato aveva ceduto alla piazza.

L'occupazione di Bologna prefigurava già la Marcia su Roma. "Elezioni o insurrezione?", si domandò Baroncini su L'Assalto del 19 agosto 1922. Il fascismo reclamava "l'onere e l'onore di governare il Paese". Pur essendo un rivoluzionario "duro e puro", Baroncini non era nemmeno uno sprovveduto. Intervenendo in sede di Comitato centrale del Partito, si pronunciò con Grandi per le vie legali. L'esercito socialista era stato disperso. La sua "Caporetto politica" era stata lo "sciopero legalitario" promosso dall'Alleanza del lavoro.

Tra il 29 e il 30 luglio 1922 Baroncini e Balbo condussero un raid terroristico sui Comuni rossi del ravennate e del forlivese. Annotò Balbo nel suo diario:

«Prendo posto io stesso, insieme con Baroncini, in una automobile che apre una lunga fila di camion, e si parte. Quasi ventiquattro ore di viaggio, durante i quali nessuno ha riposato un momento né toccato cibo. Siamo passati da Rimini, Santarcangelo, Cesena, per tutte le città tra la Provincia di Forlì e la Provincia di Ravenna, distruggendo tutte le case rosse e le sedi di organizzazioni socialiste e comuniste. È stata una notte terribile. Il nostro passaggio era segnato da alte colonne di fuoco e di fumo»

La tristemente nota "colonna di fuoco" attraversò la Romagna senza incontrare resistenze. Il 2 agosto 1922 Baroncini intimò ai suoi squadristi di stroncare lo "sciopero legalitario" in "qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo". Il neoprefetto di Bologna Enrico Palmieri, scrivendo il 26 agosto a Facta, osservò che nell'ex "Provincia rossa" "nulla più resta dell'antico". Il "novus ordo" a cui alludeva Palmieri consisteva, di fatto, in un ritorno all'ordine. Gli agrari venivano meno ai patti siglati con i Sindacati nazionali, riducendo gli arativi e reintroducendo nelle scritte le feudali corvée. Dei mezzadri senza terra e dei braccianti senza lavoro si fece carico Baroncini nel 1923.

Il 28 dicembre 1922 il ras bolognese fondò la Federazione italiana Sindacati agricoltori; era quella élite di proprietari terrieri che intendeva "l'alta funzione del capitale", funzione sociale perché eminentemente produttiva. Tanto la Cgil quanto la Confederazione dell'Agricoltura, nate per la lotta di classe, non potevano sopravvivere alla "rivoluzione manageriale" di Baroncini. Questo in teoria. Perché in pratica quella degli agrari era tutt'altro che la "voce dei morti", e se un morituro politico c'era questi era proprio il potente Federale di Bologna.

Nel 1985 Dino Grandi avrebbe scritto:

«Accanto ad Arpinati, e secondo per autorevolezza e comando nel Fascio bolognese, veniva un personaggio del quale avrei voluto non parlare. Dopo un periodo di attaccamento alle mie idee e alla mia persona sarebbe diventato mio acerrimo avversario insieme a Farinacci che voleva a tutti i costi la mia eliminazione dal partito e la mia condanna come traditore della rivoluzione fascista. Per un anno, e cioè per tutto il 1921, mi dimostrò solidarietà e simpatia che cessarono dopo che, al Congresso di Roma del novembre 1921, io avevo operato la mia svolta, abbandonando il mito di Fiume e schierandomi lealmente a fianco di Mussolini per un fascismo moderato, riformista, diretto ad operare dentro lo Stato e non contro lo Stato»

I riformisti di cui scrive Grandi erano i fascisti leali a Mussolini, che voleva "normalizzare" il PNF e inserirlo, ossia subordinarlo, allo Stato. I massimalisti erano quei fascisti "duri e puri" scontenti dell'esito legalitario che aveva avuto la Marcia su Roma. I dissidenti accusavano il "duce" e i suoi più diretti collaboratori (Grandi, Rocca, Finzi) di aver "tradito" la Rivoluzione fascista, cercando un "modus vivendi" con la "vecchia Italia".

Renzo De Felice ha scritto che i sindacalisti fascisti costituivano una mina vagante per gli agrari e i fascisti "temperati" di Roma. I Federali più intransigenti, il cui potere in Provincia era sovente superiore a quello dei Prefetti, si facevano fautori di una "seconda ondata" rivoluzionaria. È in questo contesto che si colloca la parabola politica di Baroncini.

Caduta modifica

Baroncini cadde nel dicembre 1923 per volontà di Mussolini, di Grandi e dell'Agraria bolognese. Grandi si oppose a Baroncini perché vide nel suo sindacalismo integrale un fattore di disgregazione del Governo di "unità nazionale" varato nel 1922 da Mussolini. Durante tutto il 1923, Baroncini attestò la sua fedeltà al "Capo del Governo Nazionale". E il 15 gennaio 1923 il "duce" lo nominò Alto Commissario del PNF per l'Emilia-Romagna. Misticamente devoto al "Napoleone d'Italia", Baroncini si sfogava sul suo entourage romano. I "politicanti romani" diventarono, dopo i socialcomunisti, il "secondo bersaglio" di Baroncini e dei suoi alleati: Roberto Farinacci a Cremona e Piero Zama a Faenza. I "falsi amici" erano gli affaristi e gli arrivisti, che a Roma "mutilavano la vittoria" del Fascismo; le "eccellenze in erba" (leggi Grandi); gli "eroi della sesta giornata" e gli aspiranti fascisti, tra cui gli ex nazionalisti di Luigi Federzoni. Baroncini si fece promotore di una "santa crociata" contro chi contaminava la "purezza" del PNF. Per tutti i nemici, di destra e di sinistra, il ras bolognese invocava "un poco di corda e un po' di sapone", offrendosi come "boia" al Governo Mussolini. Tra gli "alti papaveri" invisi a Baroncini c'erano Filippo Naldi, comproprietario con gli agrari de Il Resto del Carlino, e il suo direttore Nello Quilici perché, scrive su L'Assalto, c'è bisogno di "un supplemento di rivoluzione" per liberare il Carlino dalla banda di affaristi che lo controllano e per farne il portavoce del fascismo bolognese.[2]. Affronta i due anche a duello.[2]

Con l'imprimatur di Aldo Finzi, Sottosegretario agli Interni di Mussolini, la "cricca naldiana" aveva preteso una mazzetta sull'appalto della Direttissima Bologna-Firenze. La vicenda si chiuse, il 4 agosto 1923, con le dimissioni di Naldi e Quilici. "L'onestà ha vinto!", titolò L'Assalto, ma era una vittoria di Pirro. Naldi e Quilici ripararono ne Il Corriere italiano di Finzi, a Roma. Di lì ammonirono il Partito a riconciliarsi con l'Italia di Mussolini: già Gobetti aveva individuato in Massimo Rocca la longa manus di Finzi, e si era domandato "chi sono i disinteressati?". I revisionisti fascisti o i "selvaggi" delle Province? E Baroncini, ergendosi a campione della moralità fascista, si rese inviso alla "banda del Viminale". Da Finzi a Grandi, dal Sottosegretario di Stato Ottavio Corgini al ras di Pavia Cesare Forni, dal boss di Molinella Augusto Regazzi allo stesso Leandro Arpinati, devotissimo alla Confederazione dell'Agricoltura, i nemici del Federale bolognese si coalizzarono per rovesciarlo.

Il 2 dicembre 1923 il Congresso provinciale dei Fasci di Combattimento rielesse Segretario Baroncini per acclamazione. Tra le ovazioni dei suoi fedelissimi, il Federale bolognese minacciò la chiusura delle iscrizioni al PNF e l'espulsione della "zavorra" (gli arrivisti) dalla "barca del Fascismo". Interpellato da Aurelio Manaresi se "coll'epiteto di Giuda avesse voluto alludere all'on. Grandi", egli disse di non avere "alcuna stima e amicizia" per l'avvocato imolese. I due contendenti si appellarono al "duce", che intervenne commissariando l'indisciplinata Federazione petroniana: era la fine politica di Baroncini.

Vistosi perduto, un annichilito Baroncini si ritirò a vita privata. Il 12 agosto 1924 l'ex ras di Bologna scrisse una lettera a Il Resto del Carlino:

«Da un po' di tempo non mi occupo che della mia famiglia e della mia professione. Del resto anche in tempi non lontani avevo cominciato a mettere il dito su certe piaghe pericolose e sarei certamente andato più a fondo se non mi si fosse obbligato a tacere per disciplina di Partito. Per ora non mi resta che assicurare gli intransigenti e i superfascisti che quando il Paese avrà ancora bisogno di persone che lo servano umilmente ed onestamente io sarò senza dubbio al mio posto»

L'11 marzo 1924 Mussolini volle Leandro Arpinati alla Segreteria dell'epurata Federazione fascista di Bologna. Negli anni Trenta Baroncini si trasferì a Milano. Nel 1937 Edgardo Morpurgo gli offrì la Direzione delle Assicurazioni Generali. Nel 1938 il Presidente della Compagnia, Giuseppe Volpi di Misurata, lo nominò suo Amministratore delegato. Vicepresidente nel 1956, nel 1960 Baroncini succedette a Camillo Giussani alla Presidenza della Compagnia triestina. "Ho amato molto la Compagnia", scrisse nel 1968, "che è stata per me ragione di vita".

Gino Baroncini morì a Bologna il 31 ottobre 1970.

Note modifica

  1. ^ a b c d Bologna - Fascismo, su originifascismoer.it.
  2. ^ a b Alberto Mazzuca, Luciano Foglietta, op. cit., p. 240.

Bibliografia modifica

  • Cardoza, Anthony L., Agrarian fascism. The Province of Bologna, 1901-1926, Princeton University Press, Princeton 1982.
  • Cordova Ferdinando, Le origini dei sindacati fascisti, 1918-1926, Laterza, Bari 1974
  • Lyttelton Adrian, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Roma 1974.
  • Marani Angela, Gino Baroncini: un capitano d'industria, Associazione Giuseppe Scarabelli, Imola 2000
  • Mazzuca Alberto, Foglietta Luciano, Mussolini e Nenni amici nemici, Argelato, Minerva Edizioni, 2015 ISBN 978-88-7381-589-1
  • Nello Paolo, Dino Grandi. La formazione di un leader fascista, Il Mulino, Bologna 1987.
  • Simili Filippo, Gino Baroncini e il sindacalismo fascista bolognese, tesi di laurea in Storia contemporanea c/o Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, Anno accademico 2005-2005.