Inferno - Canto quattordicesimo
Il canto quattordicesimo del Inferno di Dante Alighieri si svolge nel terzo girone del settimo cerchio, ove sono puniti i violenti contro Dio, natura e arte; siamo all'alba del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.
Incipit
modifica«Canto XIV, ove tratta de la qualità del terzo girone, contento nel settimo circulo; e quivi si puniscono coloro che fanno forza ne la deitade, negando e bestemmiando quella; e nomina qui spezialmente il re Capaneo scelleratissimo in questo preditto peccato.»
Analisi del canto
modificaLa distesa infuocata - versi 1-42
modificaIl canto inizia ricollegandosi alla fine del XIII: Dante, impietosito dalle parole del concittadino anonimo suicida trasformato in arbusto e straziato dalla lotta tra uno scialacquatore e i cani infernali avvenuta tra i suoi rami, poiché "carità del loco natio mi strinse", raduna i rami spezzati, come richiesto nel canto precedente, e li mette alla base della pianta "fioca" cioè muta, oppure esausta.
Dante e Virgilio arrivano al confine tra i due cerchi dove vedono la tremenda mano della giustizia che punisce senza deroga i nuovi dannati. Qui c'è una landa senza vegetazione, alla quale la selva dei suicidi fa da "ghirlanda", come ad essa lo fa il fosso del Flegetonte (Dante vuole forse ricordare il fiume di sangue bollente passato due gironi fa, perché presto ne dovrà riparlare). Qui i poeti si fermano sull'orlo della spiaggia, simile a quella che calpestò Catone Uticense (vicenda narrata da Lucano nella Pharsalia), e, dopo un'invocazione a Dio, il poeta passa a descrivere le anime punite: esse sono nude (tutti i dannati sono nudi, ma a volte Dante lo ricorda solo per sottolineare la loro miseria) e molto numerose; tutte piangono ma non tutte seguono una stessa legge. Alcune infatti giacciono supine, le più tormentate, altre son sedute, altre ancora, più numerose, corrono senza sosta. Il tutto è coronato da una continua pioggia di fuoco, fitta come la neve che cade sulle Alpi quando non c'è vento, un'immagine ripresa dalla Bibbia (Genesi XIX 24 e Libro di Ezechiele XXXVIII 22). Non esiste un contrappasso preciso: si può solo dire che come la pioggia infuocata distrusse Sodoma, così tormenta i dannati. Inoltre un fatto così innaturale come il piovere fuoco invece che acqua è consono a coloro che andarono contro le leggi naturali. Potrebbe infine essere un riferimento ai versetti del salmo 10 "Farà piovere sugli empi/brace, fuoco e zolfo,/vento bruciante toccherà loro in sorte".
Dante non spiega chi siano questi dannati, ma lo farà gradualmente nei prossimi tre canti: gli sdraiati sono i violenti contro Dio (bestemmiatori), quelli che corrono i violenti contro natura (sodomiti) e quelli seduti sono i violenti contro natura ed arte (gli usurai). Una volta tanto nella presentazione dei dannati nei canti successivi Dante non seguirà l'ordine di peccato dal meno al più grave, ma inizierà dai bestemmiatori per finire con gli usurai.
Tornando alla pioggia infuocata Dante fa una similitudine colta, mutuata da una lettera di Alessandro Magno ad Aristotele: Dante paragona la pioggia continua a quella che Alessandro vide in India, dopo la quale ordinò ai suoi soldati di calpestare il suolo per estinguere le fiamme, così che il fuoco si estinguesse meglio quando è piccolo e isolato. Nella lettera in questione i fatti sono un po' diversi e si parla di due precipitazioni impressionanti: prima una grande nevicata, che rese necessario che i soldati scalpicciassero il terreno, seguita da una portentosa pioggia di faville infuocate, che essi dovettero soffocare con le vesti. Dante fa un po' confusione e mescola le immagini, probabilmente perché non aveva letto la lettera direttamente, ma l'aveva trovata menzionata nelle Meteore di Alberto Magno, dove si trova lo stesso schema della Commedia.
Nell'Inferno inoltre la sabbia prende fuoco facilmente, come l'esca sotto l'acciarino ("focile", nell'antico significato), e raddoppia la pena del dannati, bruciati dall'alto e dal basso. Infine Dante è colpito dal movimento senza sosta delle mani dei dannati, che si sventolano per scansare l'"arsura fresca", un ossimoro per indicare le nuove fiammelle.
Capaneo - vv. 43-72
modificaDante si rivolge quindi a Virgilio e non è ben chiaro perché senta il bisogno di ricordargli che lui riesce sempre in tutto tranne che contro i diavoli davanti alla porta del basso Inferno. L'episodio del Canto VIII viene forse ripreso per il suo significato allegorico, come la ragione (simboleggiata dal poeta latino) non possa comunque vincere i peccati di malizia senza l'aiuto divino (infatti nel canto appare il messo celeste). L'Alighieri gli chiede chi sia quella grande figura (grande nel fisico o grande di animo?) che pare non si curi dell'incendio e sta sdraiata sprezzante e torvo come se la pioggia non lo martirizzasse. L'uso di diversi "pare" ha fatto pensare ad alcuni commentatori che l'atteggiamento di Capaneo fosse una sorta di messinscena, anche se forse Dante ha solo voluto manifestare la sua sorpresa di fronte a questa "grande" persona.
E quest'uomo sdraiato, accortosi che si parlava di lui, grida: (parafrasi) "Come io fui da vivo (un bestemmiatore), tale sono da morto. Anche se Giove stancasse il suo fabbro dal quale, arrabbiato, prese l'acuta folgore con cui io fui colpito l'ultimo giorno della mia vita; anche se stancasse gli altri Ciclopi continuamente nella fucina nera dell'Etna (qui è usato il nome antico, "Mongibello"), chiamando «Buon Vulcano, aiuto, aiuto!», così come fece nella battaglia di Flegra (contro i giganti), e mi fulminasse con tutta la sua forza: non potrebbe avere una vendetta gioiosa" (vv. 51-61).
Questo anatema gridato senza fiato è colmo di ira contro la divinità, peccato per il quale viene punito Capaneo (il suo nome ci verrà rivelato nel verso successivo), uno dei sette re che assediarono Tebe e che, come racconta Stazio nella Tebaide, dopo la vittoria si innalzò sulle mura della città sconfitta urlando bestemmie contro Dio finché Zeus non lo fulminò con una saetta. Nel suo grido di vendetta contro Dio egli stimola Giove a lanciargli ora quanti fulmini voglia, ma niente potrà piegare il suo spirito ribelle.
È da notare come il dio pagano qui sia usato come schermo del vero Dio, per cui le imprecazioni lanciate contro di esso sono punite al pari di quelle verso il Dio cristiano.
Virgilio, dopo aver sentito l'imprecazione, si rivolge allora furente contro il dannato: (parafrasi) "O Capaneo, nel fatto che non si spegne la tua superbia, tu sei più punito; nessun tormento, quanto la tua rabbia, sarebbe pena adeguata alla tua empietà" (vv. 63-66). Intende cioè che Dio non si vuole vendicare obbligandolo a sottomettersi, né procurandogli pene fisiche, ma la sua tortura sta proprio nella sua superbia eterna e nella sua rabbia impotente, dovuta alla ripetizione continua del suo peccato. Virgilio ribadisce questo anche con Dante, al quale si rivolge con fare più sereno ("con miglior labbia") e gli spiega la storia dei sette re di Tebe e di come il disprezzo di Capaneo sia un degno ornamento del suo cuore (malvagio).
La bestemmia per Dante quindi, esemplificata magistralmente dall'episodio, non consiste nell'accidentale imprecazione, ma in un disprezzo intimo della divinità e nel misconoscimento della sua superiorità. Non ha niente a che fare quindi con l'ateismo, perché chi lancia un'ingiuria ammette implicitamente l'esistenza dell'ingiuriato (e poi gli atei o epicurei sono trattati nel Canto X).
Il ruscello di sangue - vv. 73-93
modificaVirgilio allora intima a Dante di seguirlo, facendo ben attenzione a non toccare la sabbia con i piedi, ma a rimanere sul ciglio del bosco. Arrivano quindi dove sgorga ("spiccia fuor de la selva") un "picciol fiumicello" rosso di sangue, che raccapriccia Dante al ricordo dei dannati nel Flegetonte di due cerchi fa. Si tratta infatti dello stesso fiume, come spiegherà Virgilio tra poco. Intanto Dante lo paragona al Bulicame, una sorgente calda nei pressi di Viterbo, le cui acque vengono divise in canaletti nelle abitazioni di donne del luogo. Esistono due lezioni su queste figure: la più diffusa è quella di "peccatrici" cioè meretrici, ma alcuni sostengono anche "pectatrici" cioè le lavoranti addette alla pettinatura della lana. Alcuni versi prima la parola bulicame era stata usata anche come sostantivo generico, intendendo il fiume bollente.
Analogamente al fiumicello incanalato quindi Dante nota la presenza di argini in pietra (verranno descritti con due similitudini nel prossimo canto), e Virgilio gli fa notare come sia cosa mirabile che le fiamme si spengano a contatto con i vapori del fiume. Dante però sembra non capire (non capisce che si tratta dell'emissione del Flegetonte o non capisce cosa ci sia di così stupefacente da meritare il richiamo di Virgilio?). Il "duca" allora inizia una lunga spiegazione allegorica sul cosiddetto "Veglio di Creta".
Il Veglio di Creta - vv. 94-120
modificaL'allegoria del cosiddetto "Veglio di Creta" è tra le più complesse del poema. La sua collocazione nel canto è quella di spiegare l'origine dei fiumi infernali.
Innanzitutto Virgilio comincia a descrivere l'Isola di Creta:
«In mezzo mar siede un paese guasto», |
«In mezzo al mare si trova una terra desolata», |
Creta era il luogo della mitica nascita di Zeus, come Virgilio ricorda nella terzina successiva: Rhea o Cibele la scelse come culla affidabile per il figlio e per nasconderlo meglio da Crono, il padre che per via di una profezia su un figlio che l'avrebbe spodestato mangiava tutta la prole, ella chiese ai Coribanti, suoi devoti, di coprire i vagiti del bambino con le loro grida.
Dentro questo monte quindi, prosegue il poeta latino, sta in piedi un "veglio", una statua colossale di vecchio, che dà le spalle a Damietta (all'Egitto), e guarda verso Roma specchiandosi.
Da questi primi elementi apprendiamo il perché della scelta di Creta come luogo simbolico: essa veniva considerata patria della civiltà e luogo di origine del divino; era a metà strada tra Oriente, sede dei primordi della civilizzazione, e Roma, centro del mondo latino attuale, secondo Dante.
Segue una descrizione del veglio, ripresa abbastanza fedelmente dal passo biblico del sogno di Nabucodonosor, contenuto in Daniele II 31-33. Questo essere ha la testa di oro fino, le braccia e il petto d'argento e il busto fino all'inguine (la "forcata" intesa come biforcatura delle gambe) di rame. Le gambe sono di ferro, compreso il piede sinistro, mentre quello destro è di terracotta e proprio su questo piede più fragile esso si appoggia di più.
Da ogni parte, tranne che da quella d'oro, si aprono fessure che gocciolano lacrime, che raccolgono poi e escono dalla grotta sotto forma di fiume. Questo fiume poi scende roccia per roccia e forma l'Acheronte, lo Stige e il Flegetonte; poi scendono ancora e confluiscono nel Cocito, dove più non si può scendere (Dante immagina lì il centro della terra). Virgilio conclude dicendo che più avanti vedrà quello stagno, ma non ne vuole parlare ora. Rispetto a Daniele i piedi sono differenziati, mentre nella bibbia sono un amalgama di pietra e ferro, che colpiti da una pietra staccatasi da sé, si rompono e fanno franare tutta la statua. Non c'è traccia delle crepe che sgrondano il pianto ininterrotto.
La spiegazione di questo complesso sistema di simboli è quella derivata dalla tradizione biblica: le varie sezioni del Veglio rappresenterebbero le epoche della civilizzazione. Da un'epoca aurea, da dove non sgorgano lacrime, cioè priva del peccato (cioè di peccatori che piangano), si passa a regni via via meno virtuosi e più fragili, fino ai due piedi che rappresenterebbero l'epoca contemporanea. La loro divisione sarebbe quella tipica del mondo dantesco tra potere papale e imperiale: L'Impero sarebbe il piede di ferro, ancora forte ma poco presente, perché ormai ci si appoggiava più all'altro piede, quello del papato, più debole perché d'argilla, ma più potente. Il vecchio, corrotto da innumerevoli fratture si specchierebbe in Roma, anch'essa dominata dalla corruzione.
Secondo un'altra interpretazione più "filosofica", legata all'Etica di Aristotele, il Veglio rappresenterebbe la decadenza dell'anima di ogni essere umano, con la testa d'oro simboleggiante il libero arbitrio e con le altre sezioni più o meno deteriorate dal peccato che sarebbero le varie facoltà psichiche. Le lacrime avrebbero anche una funzione iniziatica perché con la loro evaporazione spegnerebbero le fiamme del girone permettendo il passaggio del pellegrino Dante. In definitiva quindi il pianto del veglio sarebbe come un'allegoria del peccato, che nasce dagli uomini e punisce gli uomini stessi attraverso i fiumi infernali.
I fiumi infernali - vv. 121-142
modificaDante ha bisogno di qualche altra spiegazione e chiede a Virgilio perché se questo fiume giunge dal mondo dei vivi lo incontrano solo ora, e il poeta latino risponde che fino ad allora essi sono scesi sempre verso sinistra, ma ancora non hanno fatto un giro completo. Poi Dante chiede dove siano il Flegetonte e il Lete, non citati prima, e il maestro risponde che il bollore dell'acqua del fiume rosso avrebbe già dovuto essere di risposta alla sua domanda; mentre per quanto riguarda il Lete Dante lo vedrà sì, ma fuori dalla fossa infernale perché è il luogo dove "l'anime vanno a lavarsi / quando la colpa pentuta è rimossa" cioè in Purgatorio (cfr. PG XXVIII).
Poi Virgilio taglia corto e incita Dante ad allontanarsi dal bosco affinché lo segua sui margini, che fanno la "via", e dove il fuoco non attacca perché sopra di essi le fiamme (vapor) si spengono.
Bibliografia
modifica- Vittorio Sermonti, Inferno, Rizzoli 2001.
- Umberto Bosco e Giovanni Reggio, La Divina Commedia - Inferno, Le Monnier 1988.
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