La creazzione der monno

«Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca

La creazzione der monno è un sonetto composto da Giuseppe Gioachino Belli in Terni il 4 ottobre 1831.

Giuseppe Gioachino Belli

Testo con traduzione a fronte modifica

(it(ROM))

«La creazzione der monno

L'anno che Gesucristo impastò er monno,
Ché pe impastallo già c'era la pasta,
Verde lo vorze fà, grosso e ritonno,
All'uso d'un cocommero de tasta.

Fece un zole, una luna e un mappamonno,
Ma de le stelle poi dì una catasta:
Su ucelli, bestie immezzo, e pesci in fonno:
Piantò le piante, e doppo disse: "Abbasta".

Me scordavo de dì che creò l'omo,
E coll'omo la donna, Adamo e Eva;
E je proibbì de nun toccaje un pomo.

Ma appena che a maggnà l'ebbe viduti,
Strillò per dio con quanta voce aveva:
"Ommini da vienì, sete futtuti"»

(IT)

«La creazione del mondo

L'anno che Gesù Cristo impastò il mondo,
Poiché per impastarlo già c'era a disposizione la pasta,
Lo volle fare di colore verde, grosso e rotondo,
Come se fosse un cocomero con il tassello.[1]

Fece un sole, una luna e un globo terracqueo,
Di stelle puoi dire pure che ne fece un mucchio:
In cielo mise gli uccelli, gli animali in mezzo e i pesci in fondo:
Piantò le piante e poi disse: "Adesso basta".

Mi scordavo di dire che creò l'uomo,
E insieme all'uomo la donna, Adamo e Eva;
E proibì loro di toccare un suo frutto.

Ma non appena li vide che lo stavano mangiando,
Strillò, per Dio, con tutta la voce che aveva:
"Uomini che dovete ancora nascere, siete fregati"»

Commento modifica

Delle diverse valenze letterarie e stilistiche nella interpretazione di questo sonetto la prima più evidente ed immediata è l'aspetto comico paradossale di un Dio che, fortemente irritato si lascia andare a gridare con il suo vocione - egli infatti deve essere sentito in tutto l'universo e poi un personaggio così rilevante non può avere una voce qualunque - una tipica parolaccia romanesca.

La seconda considerazione riguarda gli errori teologici popolari dei primi due versi: non Dio ma Gesù è l'autore dell'universo che non viene creato dal nulla ma "impastato" da una materia informe, che già era pronta (già c'era la pasta), non creata dunque. Un Dio-Gesù non creatore ma fattore, una sorta di artigiano-fornaio che fa il pane dall'ammasso caotico della pasta lievitata. Si direbbe questa una tipica concezione illuminista di un Dio architetto di un universo preesistente a lui.

Sembrerebbe questa una tesi troppo originale da concepire per un uomo del popolo ma in realtà sarebbe stato ancora più difficile per questi pensare a una creazione dal nulla ed è proprio questo che Belli vuole evidenziare piuttosto che attribuire a un popolano teorie anticreazioniste.[2]

Dopo un Dio fornaio ecco apparire un Dio cocomeraro, che vende cocomeri col tassello. La Terra infatti è stata fatta come un cocomero verde e molto grande. Poi sono state fatte tutte le altre creature e infine, seguendo alla lettera il racconto biblico, Dio si è riposato dalla lunga fatica.

A questo punto c'è la deviazione del Belli, filosofo plebeo, dalla ortodossia nel delineare una divinità terribile e implacabile che addossa a un'innocente umanità, figlia, che neppure ancora esiste, di Adamo ed Eva, la colpa del delitto, ridicolo nella sua entità, di aver mangiato "un pomo". Un Dio tra l'altro, che il plebeo raccontando bestemmia (Strillò per dio) e che cerca di rendere vicino alla sua mentalità facendogli volgarmente pronunciare una condanna incomprensibile e ingiusta.[3]

Nella Bibbia belliana Dio è infatti un tiranno, talora capriccioso, che esprime il suo potere con divieti incomprensibili («Pe una meluccia, ch'averà costato/Mezzo baiocco, stamo tutti a fonno.»)[4] e punizioni eterne: «stese un braccio | longo tremila mijja [...]| e sserrò er paradiso a ccatenaccio»[5]. Un Dio potente che sta sempre dalla parte dei potenti [6] e che riserva ai poveri una vita da inferno che proseguirà con lo stesso Inferno dell'al di là.[7]

Il pessimismo modifica

È stato spesso accostato il pessimismo del Belli a quello di un altro suddito del Papa Re: Giacomo Leopardi, angosciato dall'arretratezza degli uomini del suo tempo e per nulla speranzoso nelle "magnifiche sorti e progressive" che offriva come riscatto la storia intesa romanticamente.

Non è questa la storia del popolo romano del Belli che vive nell'immobilità del tempo presente non dissimile da quello passato.

Si può ridere del sovrano e insultarlo, bestemmiarlo ma questo, come Dio, non risponde se non come fanno i potenti, senza dare nessuna spiegazione, se non richiamando il suo potere,[8], e angariando i comuni mortali condannandoli all'immutabilità di una condizione umana che non cambierà neppure dopo la morte.

Non c'è nessuna speranza di redenzione perché chi dovrebbe operarla è un popolo che non teme insultando di dire la verità ma inetto e spregevole tanto quanto chi lo comanda. Si è quindi parlato di un nihilismo radicale in Belli che lo porterà su posizioni reazionarie mentre Leopardi, con la sua "morale della compassione"[9] continuerà a sperare nella solidarietà umana che nasce dal comune dolore dell'esistenza.[10]

Note modifica

  1. ^ A Roma, è, o meglio era, usanza vendere a prezzi differenti i cocomeri: i più cari erano quelli dove il "cocomeraro" praticava un tassello che mostrasse al cliente che il cocomero era ben maturo e quindi sicuramente migliore degli altri non verificati.
  2. ^ Giuseppe Gioachino Belli, La Bibbia del Belli, a cura di P. Gibellini, Adelphi Editore
  3. ^ Giuseppe Samonà, G. G. Belli la commedia romana e la commedia celeste., Firenze, 1969, La Nuova Italia Ed. Coll. Biblioteca di Cultura
  4. ^ Er peccato d'Adamo
  5. ^ L'angeli ribbelli
  6. ^ Giuseppe Gioacchino Belli, sonetto n. 1170, Li du' ggener'umani, datato 7 aprile 1834
  7. ^ La vita dell'Omo
  8. ^ «"Io sò io, e voi nun zete un cazzo, | sori vassalli buggiaroni, e zitto.» (Li soprani der monno vecchio, 21 gennaio 1832)
  9. ^ Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione
  10. ^ Edoardo Ripari, op. cit.

Bibliografia modifica

  • Edoardo Ripari, Giuseppe Gioachino Belli. Un ritratto, Liguori, Napoli 2008
  • Piero Gibellini, «Giuseppe Gioachino Belli», in Storia Generale della Letteratura Italiana, Vol. VIII, Federico Motta Editore, Milano 2004
  • Marcello Teodonio, Vita di Belli, Laterza (Collana: Storia e società), Roma-Bari 1993
  • Giuseppe Gioachino Belli, Sonetti, a cura di Giorgio Vigolo, Mondadori (Collana: Meridiani, Serie: Letteratura italiana dell'Ottocento), 1978
  • Giuseppe Samonà, G. G. Belli, la commedia romana e la commedia celeste, La Nuova Italia Ed. (Collana: Biblioteca di Cultura), Firenze 1969,
  • Giorgio Vigolo, Il genio del Belli, 2 voll. Il Saggiatore, Milano 1963

Voci correlate modifica

Collegamenti esterni modifica