Mohammad Najibullah

politico afghano

Mohammad Najibullah Ahmadzai (in pashtu: نجيب الله; Gardez, 6 agosto 1947[1]Kabul, 27 settembre 1996) è stato un politico e militare afghano, il quarto e ultimo Presidente della Repubblica Democratica dell'Afghanistan.

Mohammad Najibullah Ahmadzai
نجيب الله
Mohammad Najibullah (a sinistra) nel 1986

Segretario generale del Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan
Durata mandato4 maggio 1986 –
16 aprile 1992
PredecessoreBabrak Karmal
Successorepartito sciolto

Presidente dell'Afghanistan
Durata mandato30 novembre 1987 –
16 aprile 1992
Vice presidenteAbdul Rahim Hatif
Mohammed Rafie
Abdul Hamid Mohtat
Abdul Wahed Sarābi
Sultan Ali Keshtmand
Mohammed Eshaq Tokh
Capo del governoSultan Ali Keshtmand
Mohammad Hasan Sharq
Fazal Haq Khaliqyar
PredecessoreSe stesso
(come Presidente del Presidium del Consiglio rivoluzionario della Repubblica Democratica dell'Afghanistan)
SuccessoreBurhanuddin Rabbani
(come Presidente dello Stato islamico dell'Afghanistan)

Presidente del Presidium del Consiglio rivoluzionario della Repubblica Democratica dell'Afghanistan
Durata mandato30 settembre 1987 –
30 novembre 1987
PredecessoreHaji Mohammad Chamkani
SuccessoreSe stesso
(come Presidente)

Direttore dell'Agenzia di intelligence statale
Durata mandato11 gennaio 1980 –
21 novembre 1985
PredecessoreAssadullah Sarwari
SuccessoreGhulam Faruq Yaqubi

Dati generali
Partito politicoPartito Democratico Popolare dell'Afghanistan
fazione "Parcham"
Partito della Patria dell'Afghanistan
Mohammad Najibullah
NascitaGardez, 6 agosto 1947
MorteKabul, 27 settembre 1996
Cause della morteesecuzione
Dati militari
Paese servito Regno dell'Afghanistan
Repubblica dell'Afghanistan
Repubblica Democratica dell'Afghanistan
Repubblica dell'Afghanistan
Forza armata Esercito nazionale dell'Afghanistan
Anni di servizio1965-1992
GradoGenerale
GuerreGuerra sovietico-afghana
Guerra civile in Afghanistan (1989-1992)
Comandante diAgenzia di Intelligence statale
(direttore 1980-1985)
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Biografia modifica

Primi anni modifica

Nato in una tribù Ahmadzai appartenente all'etnia Pashtun, nel 1965 entrò nel Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan (PDPA, comunista) e aderì alla corrente Parcham, favorevole a un avvicinamento graduale dell'Afghanistan al marxismo. Nel 1975 si laureò in medicina, ma non esercitò mai la professione medica, preferendo la carriera politica.

Nel 1977 entrò nel comitato centrale del PDPA e l'anno seguente, quando il partito prese il potere a seguito della rivoluzione di Saur, diventò membro del Consiglio Rivoluzionario. Tuttavia la vittoria della corrente Khalq, meno incline a realizzare il socialismo tramite tappe intermedie, lo costrinse ad abbandonare il Paese: dapprima nominato ambasciatore in Iran, fu poi costretto all'esilio che trascorse tra Francia e URSS.

Tornato a Kabul poco prima dell'invasione sovietica, si schierò con l'Armata Rossa e nel dicembre 1980 divenne capo del KHAD, la polizia segreta afghana. Nel 1981 divenne membro del Politburo del PDPA. Il 4 maggio 1986, avendo perso la fiducia dei sovietici, Babrak Karmal si dimise da segretario nazionale del PDPA e fu sostituito da Najibullah (che lasciò il suo ruolo di capo del KHAD e che venne affidato a Ghulam Faruq Yakubi): Karmal rimase Presidente della Repubblica, ma ormai era Najibullah ad esercitare il vero potere.

Presidente della Repubblica modifica

Il 30 settembre 1987 Najibullah fu eletto Presidente della Repubblica: emanò una nuova Costituzione che prevedeva il multipartitismo, la libertà d'espressione e un sistema giudiziario indipendente. Tuttavia il PDPA, che dal 1988 cambiò nome in Hizb-i Watan, rimase il dominatore dello scenario economico-sociale afghano.

Due mesi prima dell'elezione, il 20 luglio 1987, fu reso pubblico in via ufficiale l'inizio delle operazioni di ritiro delle truppe sovietiche dal Paese: tuttavia, il suo regime sopravvisse per qualche tempo all'evento, grazie anche a una campagna militare da lui personalmente guidata che in settembre portò all'arresto di circa 40.000 ribelli.

Col passare dei mesi, le forze a lui ostili, dei Mujaheddin, fondamentalisti islamici, si fecero sempre più aggressive: essi riuscirono a conquistare zone intorno a Herat e Kandahar. Najibullah fece delle mosse per cercare di venire a patti con i ribelli: promosse una nuova costituzione nel novembre del 1987, offrì seggi e ministri ai partiti d'opposizione e cambiò il nome dello Stato, che divenne semplicemente Repubblica dell'Afghanistan.

Tuttavia, i Mujaheddin non scesero a compromessi e a nulla valse la nomina dell'apartitico Mir Hussein Sharq come Primo Ministro: la lotta continuò e Najibullah espresse le sue preoccupazioni riguardo alla guerra civile proprio all'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 7 giugno 1988.

Ultimi anni modifica

Le truppe sovietiche lasciarono completamente l'Afghanistan nel 1989, ma una vittoria militare ottenuta a Jalalabad permise a Najibullah di rimanere in sella, con ritrovato slancio e vigore. In realtà il Presidente afghano controllava solo Kabul e poco altro[2]. Nel marzo 1990 fu sventato un tentativo di colpo di Stato orchestrato dal Ministro della Difesa Shahnawaz Tanai e propugnato dal mujaheddin Gulbuddin Hekmatyar[3].

Nel 1991, sotto l'egida dell'ONU, si accordò con Aḥmad Shāh Masʿūd: quest'ultimo imponeva il disarmo alle sue truppe, in cambio Najibullah prometteva di dimettersi entro la fine del 1992 per dar vita a un Governo di transizione che portasse il Paese a libere elezioni. I mujahedin tuttavia non accettarono questo piano e proseguirono gli scontri militari.

Questo portò Najibullah a prendere in considerazione l'idea di dimettersi[4] e, tra il 16 e il 17 aprile 1992, fu infine costretto ad abbandonare il potere, in seguito, soprattutto, alla decisione della Russia di El'cin di tagliare i fondi al Governo di Kabul, che si trovò quindi in estrema difficoltà sul piano militare. In seguito a Najibullah fu consentito di rifugiarsi presso gli uffici dell'ONU: da qui mandò un grido d'aiuto ai governi di tutto il mondo, che però non venne accolto.

Alla guida del Paese salì Burhanuddin Rabbani, ma non si arrivò a una pacificazione a causa delle molte lotte interne innescatesi fra le varie fazioni dei mujaheddin.

L'uccisione modifica

Nel settembre 1996 i Talebani presero Kabul. Il presidente Rabbani, con altre cariche politiche e militari, riuscì a fuggire nelle province settentrionali, mentre Najibullah non fece in tempo, sicuro tuttavia che i talebani non avrebbero osato entrare nel palazzo dell'ONU per prelevarlo e lo avrebbero lasciato lì in pace, mentre invece, come auspicato dal mullā Mohammed Omar (leader dei Talebani), venne subito condannato a morte.

L'esecuzione di Najibullah fu il primo atto simbolico dei talebani a Kabul. Fu un omicidio premeditato: i talebani arrivarono all'alloggio di Najibullah intorno all'una di notte, tramortirono lui e il fratello, li caricarono su una camionetta portandoli nel palazzo presidenziale oscurato. Qui evirarono Najibullah e gli misero i genitali in bocca, lo legarono dietro una jeep trascinandolo per varie volte intorno al palazzo, poi lo finirono con una pallottola. Suo fratello venne torturato allo stesso modo e poi strangolato. I due cadaveri vennero appesi a una garitta di cemento davanti al palazzo a pochi isolati dal complesso dell'ONU[5].

Il mullah Omar, nuovo capo della shura di Kabul, dichiarò che Najibullah era un comunista e un assassino e che era stato condannato a morte dai talebani. Il suo corpo venne trasportato nelle province di Gardez e Paktia per poi essere seppellito accanto agli altri membri della sua tribù.

Note modifica

  1. ^ https://www.britannica.com/biography/Mohammad-Najibullah Enciclopedia Britannica
  2. ^ Massimo Fini, Il Mullah Omar, Venezia, Marsilio, 2011.
  3. ^ Vladimiro Odinzov, Kabul, tra guerra e potere resiste il potere di Najibullah, in la Repubblica, 18 marzo 1990. URL consultato il 17 dicembre 2009.
  4. ^ L'afghano Najibullah si dimette a fine mese, in Corriere della Sera, 10 aprile 1992. URL consultato il 17 dicembre 2009 (archiviato dall'url originale il 10 dicembre 2014).
  5. ^ "Ora a Kabul comanda solo il Corano", in Corriere della Sera, 28 settembre 1996. URL consultato il 17 dicembre 2009 (archiviato dall'url originale il 13 settembre 2010).

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Collegamenti esterni modifica

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