Moti di Milano

proteste popolari del 1898 con intervento del Regio Esercito
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I moti di Milano furono una rivolta di una parte della popolazione di Milano contro il governo del Regno d'Italia, che si svolse tra il 6 e il 9 maggio del 1898. Gli scontri avvennero a seguito di manifestazioni da parte di lavoratori che scesero in strada contro la polizia e i militari per protestare contro le condizioni di lavoro e l'aumento del prezzo del pane dei mesi precedenti, come avvenne anche in altre città italiane nello stesso periodo.

Moti di Milano
parte dei moti popolari del 1898
Artiglieria in Piazza del Duomo
Data6 - 9 maggio 1898
LuogoMilano
EsitoRepressione dei moti di protesta
Schieramenti
Regio EsercitoPopolazione civile
Comandanti
Perdite
2 morti, 52 feriti81 morti, 450 feriti
Voci di rivolte presenti su Wikipedia

Le notizie da Milano portarono il governo a dichiarare lo stato d'assedio con il passaggio di poteri al generale Fiorenzo Bava Beccaris. Egli agì duramente fin dall'inizio per soffocare ogni possibile forma di protesta; l'utilizzo indiscriminato delle armi da fuoco e, in particolare, di cannoni all'interno della città portarono il risultato desiderato, ma anche numerose vittime, spesso semplici astanti. I «cannoni di Bava Beccaris» passarono alla storia come simbolo di un'insensata e sanguinosa repressione.

Gli avvenimenti furono considerati parte della reazione conservatrice alla svolta politica in atto all'epoca in Italia, «un colpo di coda, l'ultimo sussulto degli ambienti retrivi di Corte, della destra liberale incline al "principato costituzionale" alla prussiana, dei fautori della interpretazione restrittiva dello Statuto albertino».[1]

Due anni dopo i fatti, il 29 luglio 1900, il militante anarchico Gaetano Bresci - all'epoca dell'eccidio emigrato negli Stati Uniti - intese vendicare i morti di Milano uccidendo re Umberto I.

Contesto storico

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La politica nazionale

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Antonio Starabba di Rudinì, presidente del Consiglio dei ministri

All'inizio del 1898 era Presidente del Consiglio dei ministri Antonio Starabba, marchese di Rudinì, ma nel decennio precedente la politica era stata caratterizzata principalmente dai quattro governi presieduti da Francesco Crispi tra il 1887 e il 1891 e tra il 1893 e il 1896.

La politica estera crispina portò a ostilità con la Francia (considerata un possibile aggressore e un rivale nell'espansione coloniale) e a un forte legame con la Germania con la sottoscrizione nel 1891 di un terzo trattato della Triplice alleanza. La guerra doganale con la Francia portò però a una crisi delle attività agricole dell'Italia meridionale, mentre la crescita industriale nel nord Italia venne favorita da investimenti tedeschi e austriaci attraverso banche come la Banca Commerciale Italiana fondata nel 1894. Ne seguì un movimento migratorio diretto all'estero e verso le industrie settentrionali, con un rapido inurbamento che provocò forti tensioni sociali.[2]

Di fronte alla nuova realtà sociale, la vecchia classe politica reagì alle proteste con violente repressioni, mentre l'estrema sinistra storica, composta da radicali, da socialisti (separatisi dal 1892) e da repubblicani (dal 1895), si fece portavoce dei problemi della popolazione. Ciò portò a una crescita di consensi dell'opposizione, grazie anche alla legge elettorale del 1881 che aveva ampliato notevolmente il numero di elettori; in vista delle elezioni politiche del 1895 il quarto governo Crispi operò una revisione delle liste, ufficialmente per evitare le irregolarità riscontrate nelle precedenti elezioni, in realtà per colpire i sostenitori dei partiti di opposizione.[3] I risultati delle elezioni politiche del 1897 furono molto positivi per i partiti "estremi". Radicali e repubblicani ottennero in totale circa 120 000 voti; i socialisti con 135 000 voti ebbero 15 deputati concentrati nei collegi settentrionali, in particolare in Emilia Romagna (6 deputati) e in Lombardia (4 deputati).[4]

I cattolici non erano presenti in parlamento ed erano divisi tra "possibilisti", vicini alle posizioni moderate, e "intransigenti", attivi in campo sociale e in opposizione all'avanzata socialista.[5]

Seggi alla Camera dei deputati dopo le elezioni del 1897[6]

  Socialisti 15
  Repubblicani 25
  Radicali 42
  Indipendenti 12
  Opposizione costituzionale 87
  Ministeriali 327

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Percentuale degli elettori rispetto ai residenti (1880-1900)

La situazione a Milano e il prezzo del pane

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Giuseppe Vigoni, sindaco di Milano

La questione del pane era molto sentita a Milano; il pane era l'elemento principale di nutrimento per le fasce più basse della popolazione. Nel 1886 quando agli ispettori daziari si richiese di far rispettare il regolamento del 1870 che implicava il pagamento del dazio a chi portava in città più di mezzo chilo di pane, si verificarono diversi tumulti a Porta Tenaglia da parte degli operai che «solevano al mattino portare seco loro un chilogrammo di pane e uno di riso di cui si servivano poi per il loro sostentamento durante la giornata»;[7] il 1º aprile ci fu anche una manifestazione in piazza del Duomo con diversi arrestati.[8] Il 3 aprile il Consiglio comunale ripristinò la "tolleranza" per chi introduceva il pane in città;[9] era la prima volta che il Consiglio cedeva alle proteste di piazza e ci furono critiche da parte dei conservatori.[10]

Nella seconda metà del 1897 la scarsità del raccolto dei cereali provocò un aumento del costo del pane. Il governo non prese provvedimenti, nonostante le richieste di abolizione del dazio sull'importazione del grano, che avrebbe permesso di abbassare i prezzi.[11] Nel gennaio 1898 ci furono i primi moti di protesta in altre zone d'Italia; a Milano si intensificarono i ritrovi dei partiti di opposizione che denunciavano l'inazione governativa, ma invitavano a non trascendere con azioni violente; nonostante queste rassicurazioni il prefetto Antonio Winspeare si mostrava preoccupato che «perdurando l'attuale stato di cose ed avvenendo nuovi aumenti del prezzo del pane, la cosa potrà divenire seria» e proibì le riunioni pubbliche.[12] Il governo stabilì una diminuzione provvisoria del dazio sul grano dal 25 gennaio al 30 aprile,[13] però si ebbero solo minimi effetti sul prezzo del pane.[14]

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Prezzo del pane di frumento e di mistura a Milano (1891-1898)[15]
Nella parte interna della città era presente un dazio

 
Funerali di Felice Cavallotti

A marzo ci furono vari segnali preoccupanti per l'amministrazione comunale. Il 4, in occasione del 50º anniversario dello Statuto Albertino, all'Arena Civica si riunirono 12 000 persone per ascoltare i comizi socialisti; in piazza del Duomo la Marcia reale venne sonoramente fischiata.[16] Il 6 il radicale Felice Cavallotti fu ucciso in duello da Ferruccio Macola a Roma; i funerali si svolsero a Milano il 9 marzo.

«A dare un'idea della straordinaria imponenza del corteo bastano le seguenti cifre: le bandiere erano 177; le corone portate a mano 14; i carri Gondrand carichi di corone 5; le carrozze piene di corone 14. È impossibile il calcolare il numero degli intervenuti al corteo. La folla era veramente straordinaria — Erano stati chiusi gli stabilimenti, molti uffici, molti negozi, e molti si riversavano perciò per le vie, o per prendere parte al corteo o per assistere al suo passaggio[17]»

Il 20 marzo le celebrazioni del 50º anniversario delle Cinque giornate videro la contrapposizione di due distinti cortei, al mattino quello delle associazioni liberali e al pomeriggio la commemorazione «radico-repubblicana-socialista-anarchica»;[18] il secondo era «più numeroso e importante del primo».[19] Nello stesso periodo si segnalarono diversi articoli de L'Osservatore Cattolico, diretto dall'intransigente don Davide Albertario, a difesa dell'associazionismo cattolico contro i moderati.[20]

Di fronte a queste manifestazioni pubbliche i conservatori lamentavano la debolezza del governo.

Ad aprile lo scoppio della guerra ispano-americana bloccò la possibilità di importazione di cereali dagli Stati Uniti. A Milano cresceva la preoccupazione per le manifestazioni del 1º maggio, che però trascorse senza incidenti.[21] A turbare i precari equilibri, il 4 maggio giunse il decreto di richiamo alle armi della classe 1873.[22]

«I richiami di classi avvennero già al tempo de' disordini di Sicilia, poi della guerra d'Africa, e sempre suscitarono fermento e qualche volta disordini abbastanza gravi, perché la legge è veramente barbara, e prova l'indifferenza crudele della classe borghese circa i bisogni del popolo. Da un giorno all'altro, senza preavviso, si porta via dalla famiglia il suo capo, l'uomo che le dà da mangiare e la si lascia nella miseria spesso assoluta.»

Le truppe presenti

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Consistenza della guarnigione di Milano (1895-1898)
Presenze nell'ultimo giorno di ogni mese[15]

  Lo stesso argomento in dettaglio: Truppe presenti durante i moti di Milano.

Dal 2 maggio venne data facoltà ai prefetti di affidare, in caso di estesi tumulti, la gestione della pubblica sicurezza all'autorità militare.

«Quando per gravi persistenti disordini che si estendano ad una intera città o a più luoghi stessa provincia siensi verificate colluttazioni con forza pubblica e intervento truppa non sia riuscito a ristabilire immediatamente ordine autorità politica potrà per maggiore prontezza ed unità di azione affidarne il ristabilimento all'Autorità Militare annunziando il provvedimento con pubblico manifesto. Questo provvedimento che i Signori Prefetti possono prendere sotto loro responsabilità non deve alterare o modificare loro poteri e loro doveri, mentre compito Autorità militare deve rimanere circoscritto agli atti necessari per l'impiego della forza pubblica.»

A Milano aveva sede il III corpo d'armata, comandato fin dal 1887 dal tenente generale Fiorenzo Bava Beccaris; il tenente generale Luchino Del Mayno era a capo della divisione Milano dal 1895.[25]

Secondo le relazioni ufficiali, all'inizio di maggio del 1898 le forze totali disponibili per il presidio di Milano ammontavano a circa 2 000 uomini di fanteria, 600 di cavalleria e 300 di artiglieria a cavallo.[26] Altri furono chiamati di rinforzo dopo l'inizio dello stato d'assedio.

I fatti

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«Non me ne parlate. Non mi ci fate pensare! Sono cose atroci, terribili, provocate da retori che rovinano un'idea... Quante vittime inconsce hanno condotte davanti ai fucili! Perché far ammazzare così gli innocenti?... Perché farsi ammazzare?... Sono le cinque giornate a rovescio queste!... Non me ne parlate, perché tutto ciò mi guasta il sangue!... Non mi fate arrabbiare!»

La ricostruzione dei fatti in studi storici è basata principalmente sull'esame della documentazione ufficiale.[28] Il socialista Paolo Valera pubblicò varie testimonianze già a partire dal 1899; sull'argomento realizzò numerosi articoli nel periodico La folla da lui fondato nel 1901. Queste pubblicazioni, tese a screditare le relazioni ufficiali e in modo particolare Bava Beccaris, presentano però «diverse forzature».[29]

È considerata di particolare interesse una lettera inviata da Eugenio Torelli Viollier a Pasquale Villari il 3 giugno 1898; dimessosi due giorni prima dalla direzione del Corriere della Sera, egli intendeva sfogarsi riportando un resoconto degli avvenimenti di Milano che non aveva potuto pubblicare.[30]

«Siamo, a parer mio, in giorni d'incomparabile bruttezza e nulla ricordo d'analogo dacché ho l'età della ragione. Vedo cose che mi ricordano i Borboni

Sono meno dettagliati i ricordi pubblicati decenni dopo, come quelli di Avancinio Avancini nel 1923[32] e di Regina Terruzzi nel 1939.[33]

Venerdì 6 maggio

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Uscita di operai dallo stabilimento Pirelli nel 1905

Alla sera del 5 maggio il prefetto venne informato di probabili manifestazioni nella mattinata successiva, all'ingresso degli operai negli stabilimenti Pirelli, Grondona e Elvetica, concentrati in un'unica zona.[34] Si temevano anche reazioni per la morte di Muzio Mussi, figlio del deputato radicale Giuseppe Mussi, durante gli scontri del giorno precedente a Pavia. La mattinata di venerdì trascorse però senza incidenti.[35]

Attorno a mezzogiorno, all'uscita degli operai per il pranzo dallo stabilimento Pirelli, vennero distribuite copie di un volantino dei socialisti milanesi[36] per cui era già stato disposto il sequestro dalla Procura. Alcuni agenti in borghese fermarono chi li distribuiva; ne seguirono alcuni disordini con gli operai e l'arresto di un operaio accusato di aver lanciato sassi contro gli agenti.[35] Il distributore dei volantini fu multato e rilasciato, mentre l'operaio fu trattenuto.[37] Si ebbero nuovi disordini presso lo stabilimento Pirelli, dove una sassaiola distrusse varie finestre; il proprietario Giovanni Battista Pirelli cercò inutilmente di ottenere il rilascio dell'operaio per calmare la situazione, visto che alle proteste si erano aggiunti operai delle fabbriche vicine Stigler e Elvetica; il tumulto fu interrotto solo all'arrivo di 152 soldati insieme a carabinieri e guardie di sicurezza. Intervenne anche Filippo Turati chiedendo di evitare gesti violenti.[38]

Attorno alle 18:45, dopo l'uscita serale dagli stabilimenti, un migliaio di persone prese d'assalto la caserma di Via Napo Torriani, dove era trattenuto l'operaio arrestato. I soldati fecero fuoco: morirono una guardia di sicurezza e due dimostranti, altri tre furono feriti. Altre truppe giunsero sul posto e dispersero la folla, grazie anche a un violento temporale che si abbatté su Milano. In serata ci fu una breve dimostrazione in piazza del Duomo che fu dispersa senza altri incidenti.[39][40]

Sabato 7 maggio

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Sigaraie lasciano il lavoro il 7 maggio

La mattina di sabato le strade si riempirono di operai e operaie. Secondo Torelli Viollier non si trattò di uno sciopero, ma vari proprietari, temendo azioni violente, decisero di pagare la settimana ai dipendenti e di chiudere gli stabilimenti.[41] Cortei si formarono lungo le vie della città e alcuni dimostranti si portarono alla stazione per bloccare la partenza di treni che pensavano trasportassero i richiamati del 1873.[42]

Uno dei primi scontri, probabilmente il più grave dell'intera rivolta,[43] si ebbe in Corso Venezia all'incrocio con Via Palestro: per bloccare il passaggio della cavalleria fu creata una barricata con le carrozze di due tram e con mobili sottratti dalla portineria di Palazzo Saporiti.[44] Dai tetti vennero lanciate tegole contro i soldati. Negli scontri ci furono diversi morti e feriti tra i manifestanti.[43]

 
Bersaglieri occupano una barricata in Via Moscova

Per facilitare lo spostamento delle truppe fu bloccato il passaggio dei tram. Attorno a mezzogiorno il prefetto affidò al generale Bava Beccaris la gestione dell'ordine pubblico.[44]

Altre barricate furono costruite a Porta Venezia, Porta Vittoria, Porta Romana, Porta Ticinese e Porta Garibaldi.

«Tutte però barricate rettoriche, reminiscenze della commemorazione delle Cinque Giornate fatta nel marzo. Si cominciava a fare la barricata, ma all'apparire della truppa la si abbandonava. La truppa la squarciava ed appena s'era allontanata la si rifaceva, ed il gioco ricominciava. A che potevano servire le barricate, giacché non c'erano armi da fuoco per difenderle? [...] Intanto, per le strade, moltissimi curiosi. La rivoluzione era considerata come uno spettacolo divertente. Perciò laddove si fece fuoco caddero parecchi innocenti. I curiosi discorrevano co' rivoltosi; discorrevano co' soldati, davano consigli, motteggiavano, chiedevano schiarimenti a' costruttori delle barricate. La grande maggioranza dei rivoltosi, donne e ragazzi.»

Le comunicazioni ufficiali riportarono gli avvenimenti in modo molto accentuato, presentandoli come opera di «un movimento rivoluzionario».[45] Il governo con telegramma delle 16:30 comunicò il decreto che dichiarava la provincia di Milano in stato d'assedio e nominava il generale Bava Beccaris «Commissario straordinario con pieni poteri».[46]

La piazza del Duomo venne occupata militarmente e il generale Bava Beccaris stabilì un piano per il progressivo controllo della città fino ai sobborghi entro 3 giorni con riapertura degli stabilimenti dal 10 maggio.[26] Su indicazione del governo fu subito colpita la stampa «sobillatrice» con la soppressione di periodici di opposizione e arresti di giornalisti e di politici.[47]

Domenica 8 maggio

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Cannoni all'arco di Porta Ticinese
 
Colpo a mitraglia della seconda metà dell'Ottocento

In mattinata vennero smantellate le barricate rimaste; le porte della città erano occupate dall'artiglieria.

Si ebbero scontri con dimostranti principalmente a Porta Ticinese e a Porta Genova, con sassaiole; venne assaltata un'oreficeria perché il proprietario era accusato di aver sparato e ucciso dimostranti il giorno precedente. Si diffusero anche voci infondate di studenti armati giunti da Pavia in tram.[48] Per disperdere la folla attorno alle 11.30 venne sparato un colpo di cannone a salve, seguito dopo circa dieci minuti da una cannonata a mitraglia che provocò morti e feriti.[48]

«Lo si fece più che altro per incutere un salutare timore; tant'è vero che, in seguito all'unico colpo a mitraglia, sparato appositamente alto, si ebbero a deplorare solo tre morti, riuscendo per contrario a sciogliere completamente i rivoltosi, che con estrema noncuranza della vita continuavano a rimanere esposti al fuoco della fucileria.»

Nel pomeriggio ci furono altre manifestazioni e vennero sparate altre quattro cannonate a mitraglia con numerose scariche di fucileria.[48]

«A Porta Ticinese ed a Porta Garibaldi riuscite inefficaci le cariche a fondo della cavalleria e l'azione a fuoco della fanteria, fu necessario ricorrere al cannone, solo mezzo per avere ragione di una folla che l'esaltazione e il desiderio di rivincita rendeva audace, aggressiva e sprezzante d'ogni pericolo.»

Il generale Bava Beccaris alle 17.40 telegrafò a Roma che l'ordine pubblico era ristabilito.[50] In serata stabilì la riapertura degli stabilimenti per la mattina successiva, ma durante la notte cambiò idea rinviando la ripresa delle attività; non sono note le motivazioni di questo cambiamento.[51] Durante la notte si registrarono altri incidenti, dovuti a falsi allarmi.

«Alla Maddalena c'era stato un falso allarme ed erano state tirate fucilate in gran numero nella notte; al corso Garibaldi era corsa voce (falsa) che un capitano fosse stato ucciso da una fucilata sparata da una casa. I soldati v'accorsero e crivellarono la casa di proiettili, ammazzando due donne ch'erano a letto.»

Lunedì 9 maggio

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Curiosi presso la breccia del convento

«Sabato fu la rivoluzione del popolo, oggi è la rivoluzione della truppa»

Al mattino gli stabilimenti rimasero chiusi. Si registrarono alcuni scontri quando fu bloccato l'ingresso in città a coloro che intendevano recarsi al lavoro.[54]

Ogni giorno nel convento di padri cappuccini posto in prossimità di Piazza Monforte (oggi in Viale Piave 2) a mezzogiorno era distribuito un pasto a decine di poveri e di mendicanti. Il viavai di gente e la voce (poi rivelatasi infondata) di spari provenienti dall'edificio, portarono a un grottesco «assalto al convento».[55] Con quattro cannonate venne aperta una breccia nel muro di recinzione, ma le truppe all'interno non trovarono né armi né rivoltosi. Rimasero uccisi tre mendicanti e uno dei frati fu ferito; tutti i presenti furono arrestati.

«Pare che più frequenti partissero i colpi dal convento di frati all'angolo del Viale Monforte e Corso Concordia, e non essendo possibile penetrarvi per l'altezza del muro di cinta, il Colonnello Volpazi vi fece aprire una breccia mediante pochi colpi sparati da una sezione del 6° Artiglieria, per la quale la truppa poté penetrare ed eseguire l'arresto di una sessantina di persone parte frati, parte borghesi appartenenti alle più basse classi sociali.»

«I reporters che erano sul luogo tornarono e riferirono che il convento era stato occupato dopo le cannonate, che lì si erano trovati 28 frati ed una quarantina di mendicanti, che legati traversarono la città, fortemente scortati dai soldati, e che lo spettacolo era miserevole, giacché c'erano vecchi cadenti che si trascinavano a stento, e una decina di ragazzi piccoli.»

Diversi eminenti cittadini si mossero per ottenere la liberazione dei frati, ritenendo assurdo un loro coinvolgimento nei tumulti; furono rilasciati il giorno seguente e vennero ospitati nel convento dei Barnabiti. Uno dei cappuccini in seguito scrisse un libro per smentire la ricostruzione fornita dalle autorità militari.[56]

Sgombrato il convento, per mantenere il controllo della zona vennero poste truppe (principalmente coscritti) sui bastioni attorno a piazza Monforte fino ai giardini pubblici con l'ordine di sparare. Sull'asse principale di Via Monforte e Via Concordia e in vie laterali (Via Nino Bixio, Via Felice Bellotti e Via Pasquale Sottocorno) si contarono diversi morti, colpiti per essersi affacciati alla finestra o per essersi trovati in strada;[57] altri furono colpiti mentre rincasavano attraversando i giardini pubblici, ignari della presenza dei militari.[53][58]

Nella giornata si ebbero 20 morti secondo Valera,[59] una quarantina secondo Torelli Viollier.[53]

Martedì 10 maggio

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L'arcivescovo Ferrari

Il 10 maggio si ebbe la riapertura di quasi tutti gli stabilimenti e della maggior parte delle attività. Non si registrarono altri incidenti degni di nota a Milano.[60]

Nello stesso giorno l'arcivescovo Andrea Carlo Ferrari, partito da Milano il giorno 7 per una visita pastorale ad Asso, inviò una lettera al generale Bava Beccaris dicendo di aderire agli «alti sentimenti di ordine e di giustizia ai quali s'inspira nel compiere il gravissimo suo officio» e aggiunse una preghiera per la liberazione dei padri cappuccini; la lettera venne resa pubblica insieme alla risposta del generale che sottolineò la «male augurata combinazione» che aveva impedito la presenza dell'arcivescovo in città.[61] Poiché l'arcivescovo era inviso ai moderati milanesi per le sue posizioni vicine a quelle dei cattolici "intransigenti", vari periodici ne sottolinearono negativamente l'assenza e il silenzio durante i giorni dei moti.[62]

A Monza furono repressi alcuni tumulti, per i quali già da domenica 8 erano state inviate truppe.[26] A Luino ci furono proteste presso una caserma per ottenere la liberazione di un operaio che era stato arrestato giorni prima; guardie e carabinieri spararono sulla folla, provocando 4 morti e 10 feriti; da Milano e da Varese vennero inviate truppe di rinforzo.[26][63]

Sempre il giorno 10 iniziarono a giungere dalla Svizzera notizie dell'organizzazione di un gruppo di operai italiani diretti in Italia per sostenere i tumulti.[64] Mercoledì 11 lo stato d'assedio venne esteso alla provincia di Como e vi vennero inviate truppe, temendo un'aggressione armata al confine svizzero;[26] venne richiesto un intervento al consiglio federale svizzero per fermare la possibile invasione.[65] Il 15 maggio il treno che trasportava un gruppo di circa 200 operai, unici ad aver completato il viaggio attraverso i cantoni, fu scortato alla frontiera e consegnato alle forze dell'ordine italiane.[66]

Le vittime

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Morto in Corso Porta Ticinese, in prossimità dei caselli daziari

«Vi furono parecchie vittime innocenti, specialmente nei giorni 7 e 8, e ciò si deve attribuire in particolar modo al fatto che la popolazione, per malsana curiosità, assisteva dalle finestre, al combattimento che aveva luogo nelle vie.»

Durante i moti la truppa sparò 11 164 pallottole e nove colpi di cannone.[67]

I dati ufficiali indicarono in totale 83 morti, cioè 81 civili, un agente di pubblica sicurezza e un soldato.[68]

La guardia di sicurezza era Domenico Violi (37 anni), originario di Bova, morto il 6 maggio per ferita d'arma da fuoco durante i primi scontri; secondo Valera fu ucciso da colpi esplosi da un suo collega o dall'esercito.[69] Violi nei primi mesi del 1898 aveva ricevuto tre gratifiche «per arresto autori di furto»[70] ed era «odiato nel quartiere pel suo carattere ardito e provocante».[71]

Il soldato morto era Graziantonio Tomasetti (21 anni), appartenente al 92º fanteria, ucciso l'8 maggio da un comignolo caduto o lanciato da un tetto durante gli scontri. Valera riportò la voce secondo cui era stato fucilato per disubbidienza,[72] mentre il repubblicano Napoleone Colajanni indicò tale voce come «non accreditata».[73]

A partire dal mese di maggio nel Bollettino statistico mensile comunale nel prospetto dei «Decessi avvenuti in Milano» venne aggiunta la riga 169bis per indicare le morti per ferite da arma da fuoco (81 a maggio e uno a giugno); nelle notizie riassuntive per l'intero anno era specificato che 14 tra essi erano di altri comuni.[74] Tra questi non era incluso il soldato Tomasetti.

Età (anni) M F Totale
da a meno di
0 1 - - -
1 5 1 - 1
5 10 - 2 2
10 15 7 1 8
15 20 10 1 11
20 40 38 4 42
40 60 8 3 11
60 80 4 1 5
80 - - - -
Età ignota 2 0 2
Totale 70 12 82

Valera pubblicò un elenco di 118 nominativi di morti a causa della repressione dei moti (includendo anche Violi e Tomasetti), più la descrizione di altri 9 non identificati;[75] riteneva che tale discordanza fosse dovuta al fatto che per alcuni non era stata indicata la reale causa della morte.[76]

I feriti e i raggi X

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Radiografia del 1898 (non legata ai fatti di Milano) di un proiettile conficcato nel braccio destro di un adulto

I dati ufficiali indicarono 450 feriti tra i civili,[68] numero inferiore a quello reale secondo le testimonianze dell'epoca.[77]

«Un giorno scoprimmo un fatto che turbò la nostra coscienza civile. Un giovane ferito a una gamba, che non era andato all'ospedale per tema dell'arresto, ed era curato nascostamente dai familiari, aveva febbre alta e delirio. Qual'era il nostro dovere? Interessarci del ferito? Denunciarlo? No di certo: noi non eravamo spie, né agenti dell'ordine. [...] Ci venne in soccorso la Provvidenza nella persona del dottor Tessi, mio medico curante da anni e quindi anche amico, venuto ad accompagnare a scuola una sua cara figliola. Lo pregai di visitare l'infermo, ed egli acconsentì a prestare la sua opera chirurgica, evitando appena in tempo la cancrena.»

Il medico Carlo Luraschi, impegnato nello studio dei raggi X[79] scoperti meno di tre anni prima da Wilhelm Conrad Röntgen, utilizzò le proprie attrezzature per individuare i proiettili nel corpo dei feriti. Già l'anno precedente aveva partecipato all'individuazione di un proiettile nel cranio di una giovane e all'operazione per la sua estrazione.[80] La sezione «elettrojatrica con compiti di radiografia» fu attiva presso l'Ospedale Maggiore solo dal 1903.[81]

«Nel maggio 1898 avvennero come ognuno ricorda nella nostra città gli inenarrabili fatti fratricidi: ciò che diede motivo al Luraschi per compiere delle esperienze di trasportare il suo grosso rocchetto di Ruhmkorff ed il suo tubo di Crookes nelle sale dell'Ospedale Maggiore e di radiografarvi i numerosi colpiti dalla mitraglia. [...] E ricordo altresì le molteplici di lui radiografie, in cui vi si osservano benissimo i numerosi piccoli proiettili, sparsi nei tessuti dei diversi colpiti[82]»

I feriti tra i soldati furono 52, però «comprendendo anche quelli feritisi accidentalmente per caduta da cavallo».[68] Secondo Valera i feriti più gravi avrebbero avuto ferite lacero-contuse al capo (probabilmente per le sassaiole e i lanci di tegole dai tetti), altri invece ferite superficiali o distorsioni; infine l'unico ferito d'arma da fuoco sarebbe stato un caporale in seguito all'esplosione accidentale di un colpo dal proprio revolver «mentre si trovava seduto sui gradini della cattedrale in piazza del Duomo».[83]

Lo stato d'assedio

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Bersaglieri e cannoni all'Arco della Pace

Lo stato d'assedio venne proclamato per la provincia di Milano il 7 maggio[46] sulla base delle notizie allarmanti trasmesse da Bava Beccaris, dal questore Minozzi e dal sindaco Vigoni.

«Situazione gravissima sono in pericolo le proprietà e la vita dei cittadini invoco solleciti efficaci provvedimenti. Vigoni sindaco[84]»

È possibile che la decisione di Starabba di Rudinì fosse stata influenzata dal ricordo della rivolta di Palermo del 1866 avvenuta quando era sindaco della città.[85]

Il 5 settembre 1898 venne pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto che faceva cessare l'incarico attribuito al generale Bava Beccaris.[86] Già dal 1º agosto lo stato d'assedio era stato tolto per la provincia di Como[87] e dalla stessa data il generale Bava Beccaris cessò dall'incarico della direzione generale della Polizia per le province di Bergamo, Brescia, Como e Sondrio.[88] Lo stato d'assedio fu prolungato per Milano e per Firenze in attesa di un pronunciamento della Cassazione su alcuni ricorsi;[89] ci fu però anche una richiesta esplicita di Umberto I il 31 luglio.

«Faccio spedire decreti cessazione stato d'assedio ed a questo proposito le partecipo che giorno sette sarò Monza ove mi tratterrò stazionario poco tempo ma desidero che sia a Milano che a Monza non sia tolto lo stato d'assedio prima della mia partenza da ultima città, non volendo si accrediti la voce sparsa che il Re d'Italia non può trovarsi in una città posta sotto il regime dello stato d'assedio. Affettuosi saluti. Umberto[90]»

La repressione

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Trasferimento degli arrestati in carcere
 
Divieto di circolazione con biciclette, tricicli e tandem

Con lo stato d'assedio vennero immediatamente imposte norme per ristabilire l'ordine:

  • obbligo di consegna delle armi da fuoco;
  • divieto di assembramento;
  • divieto di circolazione per le strade dopo le ore 23;
  • chiusura dei pubblici esercizi entro le ore 21;
  • obbligo di chiudere le persiane in caso di conflitti nelle vie vicine;
  • censura sui telegrammi.

In seguito il coprifuoco fu progressivamente ridotto. Poiché si pensava che i rivoltosi potessero comunicare rapidamente spostandosi in bicicletta, dal 10 maggio fu proibito l'uso di «biciclette, tricicli e tandems»; tra i primi fermati era segnalato il ciclista Luigi Masetti.[91]

Vari interventi erano invece tesi a colpire l'opposizione politica. Furono soppressi quattordici periodici; furono arrestati diversi giornalisti e anche deputati.

«Oltre al Secolo, all'Italia del Popolo ed all'Osservatore Cattolico che erano quotidiani, con decreto del regio commissario generale Bava Beccaris, vennero soppressi anche altri 11 giornali. Eccone i titoli : Il Muratore, L'operaio metallurgico, La rivista popolare del Socialismo, Il Lavoratore del Libro, La Lega dei ferrovieri italiani, La Brianza Lavoratrice, La Lotta di classe, Critica Sociale, Il Popolo Sovrano, L'Uomo di Pietra e La Commedia Umana.[92]»

Vennero perquisite la Camera del Lavoro e le sedi dei repubblicani Circolo Operaio e Fascio Carlo Cattaneo, sequestrando numerosi documenti.[93] Dal 10 maggio si ebbero anche decreti contro i cattolici intransigenti e fu chiuso L'Osservatore Cattolico; seguì lo scioglimento del comitato diocesano e dei comitati parrocchiali. Il 24 maggio don Albertario fu arrestato a Finalborgo.

«Ah! canaglie, voi date piombo ai miseri che avete affamati, e poi vi lanciate contro i clericali!»

Venne sciolta la Camera del Lavoro con le 109 società collegate.[95] In totale vennero soppresse 429 associazioni.[90]

«A Milano furono sciolte le seguenti società: Camera del Lavoro e Società aderenti — Circolo G. Garibaldi — Circolo Adriatico Orientale — Circolo repubblicano intransigente di Porta Venezia — Circolo elettorale socialista degli otto mandamenti con i tre riparti dell'ottavo, uno in via Vercelli, l'altro in via Vigevano, ultimo in via Ripamonti — Circolo di studi sociali di via Speronari — Circolo operaio milanese via Terraggio — Circolo Giuseppe Mazzini — Circolo Arte moderna in via Campo Lodigiano — Commissione esecutiva e Federazione socialista del partito socialista italiano, via Unione 10 — Comitato repubblicano di Milano — Direzione centrale del partito repubblicano — Federazione repubblicana Lombarda con i dipendenti circoli elettorali mandamentali milanesi — Fanfare : Avanti, La Marina, Carlo Marx, M. Quadrio, Stella d'Italia — Lega per la tutela degli interessi femminili — Lega ferrovieri italiani e circoli dipendenti — Fascio studenti repubblicani Carlo Cattaneo — Cooperativa Ferrovieri, nonché la Michelangelo Buonarroti di Corso Venezia.[96]»

Emblematico il caso della Società Umanitaria: il consiglio direttivo fu sciolto con decreto del 14 maggio perché «nelle ultimi elezioni è venuta, per l'amministrazione, nelle mani di persone notoriamente affigliate ai partiti estremi con serio pericolo che ne volgano i mezzi a fine settario per la propaganda di idee sovversive e per la preparazione della rivolta contro gli ordini costituiti»; ne venne modificato lo Statuto limitandone le funzioni e snaturandone le finalità.[97][98]

Insegnanti comunali aderenti a «partiti sovversivi» furono licenziati.[99] Ettore Ciccotti, docente di storia antica dell'Università di Pavia, fu accusato di propaganda sovversiva e si rifugiò in Svizzera; fu condannato in contumacia e venne destituito dalla cattedra.[100]

Il tribunale di guerra

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Ingresso del Castello Sforzesco durante i processi

In tutti i territori sottoposti al generale Bava Beccaris furono arrestate in totale circa 2000 persone e ci furono circa 1140 deferiti al tribunale di guerra.[68]

Si svolsero 129 processi con 828 imputati, dei quali 224 erano minorenni e 36 erano donne; nel complesso ci furono 688 condanne e 140 assoluzioni.[101] Circa 300 condanne furono con pene inferiori a 6 mesi e 85 con pene tra 5 e 16 anni di reclusione.[68] La condanna a 16 anni fu per il socialista Dino Rondani, nel frattempo fuggito in Svizzera.

Le udienze si svolsero in una sala a pianterreno dell'ala sinistra del Castello Sforzesco, all'epoca oggetto di restauro da parte di Luca Beltrami e sede del Museo del Risorgimento e di altre istituzioni.

«Si applica, nelle pene, il codice penale civile, ma la procedura e quella dei tribunali di guerra. Il numero dei testimoni però è limitato: spesso è uno solo: una guardia di pubblica sicurezza, un carabiniere, un delegato di Questura. Nessuna arringa. Interrogazioni brevi, assai succinte proposte dall'accusa: assai succinte difese: talvolta quest'ultime si limitano alla frase sommessa «Mi rimetto alla clemenza della Corte». I testimonii giurano, ben inteso, davanti al presidente di dire la verità. Gli aridi resoconti giudiziari dei giornali quotidiani non possono essere pubblicati senza il visto d'un impiegato di pubblica sicurezza. Lo spazio riservato al pubblico è uguale a quello dei tribunali civili ordinarii; riempito da carabinieri, ufficiali e borghesi, fra' quali alcune signore. I soliti sfaccendati non sono ammessi. La luce della sala è abbondante; il silenzio è sempre rigoroso senza bisogno di richiami del presidente. Le sedute cominciano alle otto della mattina.[102]»

Torelli Viollier riportò un esempio della censura applicata alla trascrizione delle udienze.

«Lo stesso avvocato fiscale additava al Tribunale come un indizio grave a carico di un imputato essere egli ascritto alla Camera del Lavoro: l'operaio rispose: «È vero, ma la Camera del Lavoro era il nostro ufficio di collocamento. Senza ricorrere a lei non potevo trovar lavoro: ho cinque figli.» Per ordine dell'Ispettore di Pubblica Sicurezza incaricato della censura preventiva dei rendiconti, questa risposta fu fatta cancellare da tutti i rendiconti.[103]»

L'attenzione generale si concentrò in particolare su due processi, quello «dei giornalisti» e quello «dei politici».

Il processo dei giornalisti

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Don Davide Albertario e Carlo Romussi in tribunale

Il processo detto «dei giornalisti» vide 24 imputati; solo alcuni erano effettivamente giornalisti. Vennero accusati principalmente in quanto appartenenti a gruppi anarchici, socialisti o repubblicani. Caso particolare fu quello di don Albertario perché i suoi articoli «gareggiavano cogli altri di violenza così da attaccare con sottile ironia la Monarchia e le istituzioni, seminando l'odio di classe fra contadini e padroni e fra le altre classi sociali e distogliendo buona parte del clero da quell'opera di pacificazione che per la sua missione sarebbe destinato a compiere, costituendo in tal modo un fomite alla rivolta anche con articoli violenti, quando questa era già scoppiata».[104]

Il 23 giugno furono pronunciate le seguenti condanne:[105]

  • Sante Callegari, in seguito scultore,[106] un anno e sei mesi di detenzione da scontarsi in una casa di correzione in quanto minorenne
  • Umberto Castelnuovo, due anni e un mese di reclusione
  • Alessandro Cerchiai, tre anni di reclusione e tre di sorveglianza
  • Alfredo Gabrielli, dieci mesi di reclusione
  • Francesco Gruppiola, un anno di reclusione e tre di sorveglianza
  • Domenico Baldini, tre anni di reclusione
  • Giuseppe Fraschini, un anno di reclusione e tre di sorveglianza
  • Gustavo Chiesi, direttore de L'Italia del Popolo, sei anni di reclusione e uno di sorveglianza
  • Bortolo Federici, un anno di detenzione e lire 1000 di multa
  • Carlo Romussi, direttore de Il Secolo, quattro anni, due mesi di reclusione e un anno di sorveglianza
  • Stefano Lallici, 45 giorni di detenzione e lire 50 di multa
  • Angelo Oppizio, due anni di reclusione e due anni di sorveglianza
  • Costantino Lazzari, un anno di detenzione e lire 300 di multa
  • Oreste Gatti, due mesi di detenzione e lire 50 di multa
  • Achille Ghiglione, un anno di detenzione e lire 300 di multa
  • Paolo Valera, un anno e sei mesi di detenzione e lire 500 di multa
  • Antonio Valsecchi, un mese di detenzione e lire 50 di multa
  • Anna Kuliscioff, due anni di detenzione e lire 1000 di multa
  • Don Davide Albertario, direttore de L'Osservatore Cattolico, tre anni di detenzione e lire 1000 di multa.

Nel processo furono assolti Ulisse Cermenati, Enrico Del Vecchio, Pietro Invernizzi, Arnaldo Seneci e Pietro Zavattari.

Il processo dei politici

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Turati, Morgari e De Andreis in tribunale

Il processo detto «dei politici» iniziò il 27 luglio e ebbe come imputati i deputati Luigi De Andreis (repubblicano), Filippo Turati e Oddino Morgari (socialisti). Nonostante l'immunità parlamentare, i tre erano stati arrestati durante lo stato d'assedio: De Andreis a Milano durante una perquisizione al giornale Il Secolo; Turati in questura a Milano dove si era presentato per avere informazioni sull'arresto di Anna Kuliscioff; Morgari era stato fermato a Roma. La Camera dei deputati aveva concesso l'autorizzazione a procedere contro di loro nella seduta del 9 luglio con 207 voti a favore, 57 contrari e 16 astenuti.[107] Vennero accusati «perché, col mezzo di opuscoli, discorsi e conferenze, col mezzo dell'istituzione di circoli, comitati, riunioni e leghe di resistenza, e allo scopo, concertato e stabilito fra essi e altri capi ora latitanti di partiti sovversivi, di mutare violentemente la costituzione dello Stato e la forma di governo, riuscirono a suscitare la guerra civile e a portare la devastazione e il saccheggio nella città di Milano nei giorni 6, 7, 8 e 9 maggio ora decorso, cooperando anche immediatamente e direttamente all'azione, e procurando di recarvi assistenza e aiuto».[108]

La sentenza del 1º agosto 1898 condannò De Andreis e Turati a 12 anni, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, all'interdizione legale durante l'espiazione della pena e al pagamento delle spese processuali. Morgari fu assolto.[109]

Amnistia e conseguenze politiche

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Cartolina de L'Asino
 
Testata della rivista Pro Amnistia

Furono presentati ricorsi alla Cassazione per l'annullamento delle condanne del tribunale di guerra,[110] ma il 22 agosto furono tutti respinti.[111][112]

Con la fine dello stato d'assedio e il ritorno di varie pubblicazioni soppresse, iniziò una serie di appelli per l'amnistia nei confronti dei condannati.

Il 29 dicembre 1898 fu concessa un'amnistia per alcune pene stabilite dai tribunali militari di Milano, Firenze e Napoli: furono condonate le condanne fino a due anni di reclusione e le altre condanne vennero ridotte di due anni; per i minorenni e per le donne l'amnistia fu estesa per condanne fino a tre anni di reclusione; furono condonate le pene pecuniarie.[113] In questa amnistia rientrò, ad esempio, la condanna di Anna Kuliscioff; don Albertario si vide la condanna ridotta a un anno.

Nel gennaio 1899 iniziarono le pubblicazioni della rivista Pro Amnistia[114] che raccoglieva numerosi appelli; il primo numero conteneva scritti di Ernesto Teodoro Moneta, Filippo Meda, Claudio Treves, Edoardo Porro, Augusto Murri, Paolo Valera, Olindo Guerrini, Max Nordau e Adolfo Zerboglio.[115]

Il 3 febbraio 1899 la Camera dei deputati dichiarò decaduti Turati e De Andreis in seguito alla loro condanna; furono dichiarati vacanti i collegi elettorali di Milano V e di Ravenna I.[116] Turati, ancora in carcere, fu ricandidato da socialisti, radicali e repubblicani nel collegio di Milano V e la sua elezione fu data per scontata, tanto che non si presentarono altri candidati;[117] il 2 giugno la Camera annullò l'elezione.[118]

Con decreto del 4 giugno 1899 Umberto I concesse una nuova amnistia senza limitazioni.[119] Turati fu nuovamente candidato alle elezioni suppletive per il collegio Milano V che si tennero il 13 agosto; fu rieletto sconfiggendo nettamente il candidato moderato.[120]

«Dissimulare sarebbe inutile: i moderati a Milano come tali sono finiti; senza il maggio 1898 essi avrebbero potuto ancora efficacemente lottare sul terreno amministrativo, né sarebbe mancata loro l'adesione di cittadini dissenzienti politicamente, ma desiderosi di un regime onesto, oculato, progressivo; dopo il maggio 1898 si è chiusa per sempre l'era della loro egemonia.»

Il 10 dicembre 1899 si tenne l'elezione del nuovo Consiglio comunale con la netta vittoria della lista popolare; il nuovo sindaco fu Giuseppe Mussi, deputato radicale e padre di Muzio Mussi, ucciso il 5 maggio 1898 negli scontri a Pavia.

Onorificenze e carriere

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Militari

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Truppe presenti durante i moti di Milano § Onorificenze.
 
Fiorenzo Bava Beccaris

«Certo è che soldati e capi mancarono affatto di sangue freddo.»

Il generale Bava Beccaris ricevette numerosi attestati di ringraziamento e congratulazioni.[123]

Con regio decreto del 5 giugno 1898 furono attribuite ufficialmente «ricompense a coloro che maggiormente si distinsero in occasione dei disordini avvenuti in aprile e maggio 1898», con numerose onorificenze per i militari coinvolti nei fatti di Milano.[124][125] Il generale Bava Beccaris fu nominato grand'ufficiale dell'Ordine militare di Savoia «per gli importanti servizi resi allo Stato».

«Ho preso in esame la proposta delle ricompense presentatemi dal Ministro della Guerra a favore delle truppe da lei dipendenti e col darvi la mia approvazione fui lieto e orgoglioso di onorare la virtù di disciplina, abnegazione e valore di cui esse offersero mirabile esempio. A Lei poi personalmente volli conferire di motu proprio la croce di Grand'Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia, per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della Patria. Umberto[126]»

«Nel compimento di un penoso dovere la parola augusta del nostro amato sovrano giunge gradita ai nostri cuori e rafforza in noi l'affetto alle patrie istituzioni e la fede nell'avvenire»

Il generale Luchino Del Mayno fu nominato commendatore dell'Ordine militare di Savoia «per l'alta intelligenza e l'energia con cui impiego sempre le truppe ai suoi ordini allo scopo di far fronte alla rivolta ottenendo risultati pronti ed efficaci». Furono assegnate nove medaglie d'argento al valor militare (una al soldato Tomasetti, morto durante gli scontri), 36 medaglie di bronzo al valor militare e 31 encomi solenni. Ci furono 10 nomine nell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e altre 15 nomine nell'Ordine della Corona d'Italia.

Il generale Bava Beccaris fu anche nominato senatore del Regno con decreto del 16 giugno 1898.[128]

Amministrazione e pubblica sicurezza

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Ettore Prina

Giuseppe Vigoni, ex sindaco di Milano, il 14 giugno 1900 fu nominato senatore del Regno da Umberto I.[129]

Su indicazione del generale Bava Beccaris,[130] con decreto del 13 maggio il prefetto Antonio Winspeare fu sollevato dall'incarico e collocato a disposizione;[131] venne assegnato alla prefettura di Venezia dal 1º settembre.[132] Passò poi a Firenze nel 1900[133] e fu collocato a riposo per anzianità di servizio nel 1904.[134]

Il generale Bava Beccaris propose il questore Vincenzo Minozzi (n. 1848),[135] presente a Milano da novembre 1897,[136] per una ricompensa, ma il prefetto Winspeare inviò una protesta scaricando sui funzionari di pubblica sicurezza la responsabilità per i fatti del 7 maggio.[137] Minozzi rimase a Milano per poco e fu trasferito a Genova nel gennaio 1900; nello stesso anno, su sua richiesta, passò all'Amministrazione provinciale come consigliere delegato e fu trasferito ad Ascoli Piceno.[138] Nel 1906 fu prima collocato a disposizione e poi fu trasferito a Girgenti;[139] passò poi a Vicenza nel 1910[140] e a Cagliari nel 1911 e nello stesso anno fu collocato a riposo su sua richiesta.[141]

L'unica medaglia d'argento al valor militare fu per Domenico Violi, morto il 6 maggio; furono assegnate anche tre medaglie di bronzo.[142] Ci fu anche qualche encomio e qualche gratifica dal ministero[143] e tre nomine a cavaliere della Corona d'Italia, compreso il viceispettore Ettore Prina.[144] Prina fu descritto da Turati come «l'anima dannata non solo del nostro processo, ma di tutte le persecuzioni da anni in qua in Milano»;[145] Valera lo indicava come «la jena del '98» o «il boia del '98».[146] Nel 1903 Prina fu al centro di uno scandalo perché risultò aver pagato a Londra come informatore Gennaro Rubino che poi nel 1902 attentò alla vita di Leopoldo II del Belgio.[147]

Popolazione

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Riconoscimenti vennero offerti dall'Unione Popolare Milanese ad alcuni abitanti che si erano impegnati per l'assistenza alle truppe.

«Tanto patii della follia politica di quei giorni che quando ci fu portata la medaglia e la pergamena dell'Unione Popolare Milanese per l'assistenza all'esercito e alle vittime innocenti io dissi ai messaggeri che non si doveva ricordare niente di quel brutto maggio, ma cercare di lenire con opere di pace e di concordia le conseguenze tristi da esso lasciate, e mancò poco rifiutassi i segni onorifici offerti. Forse li avrebbero ripresi essi medesimi se avessero saputo quanto avevo fatto anche per le famiglie dei sovversivi. Anni dopo Filippo Turati ebbe a chiamarmi la medagliata del novantotto.[148] Eppure io non mi pentii mai d'avere mitigato sofferenze ai miei simili dell'uno e dell'altro campo.»

La documentazione fotografica

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Luca Comerio

Luca Comerio, fotografo professionista, realizzò numerose fotografie degli avvenimenti, riportate nelle principali riviste illustrate dell'epoca, come L'Illustrazione Italiana, L'Illustrazione popolare e La Tribuna illustrata. L'Illustrazione Italiana pubblicò ben 20 sue immagini, anche se alcune appaiono evidentemente ridisegnate. In seguito Comerio dichiarò che parecchie foto gli furono sequestrate e che furono anche utilizzate dalle forze dell'ordine per identificare i partecipanti ai moti. Ottenne però anche un lasciapassare dal generale Bava Beccaris.[150]

«Che fotografi di questa città hanno riprodotto episodi recenti tumulti. Prego disporre vigilanza per impedire che tali fotografie, non siano esposte al pubblico, invitando all'occorrenza a ritirarle subito.»

Nonostante la disponibilità di fotografie, le copertine delle riviste continuarono ad essere opera di illustratori. Achille Beltrame, all'epoca autore delle copertine dell'Illustrazione Italiana, si ispirò a una delle foto di Comerio per realizzare un quadro a olio.

Nel 1898 Comerio divenne socio del Circolo Fotografico Lombardo, che ne diede la notizia nel Bollettino dell'associazione citando l'importanza storica delle sue fotografie.

«Di quest'ultimo, cioè del signor Luca Comerio, abbiamo ammirato in questi giorni una importantissima serie di istantanee 12 × 16 rappresentanti alcune fra le principali scene dei recenti disordini di Milano. Sono fotografie che costituiscono un vero e proprio documento storico, e che, mentre attestano la non comune abilità dell'autore, sono altresì prova eccellente del suo coraggio civile.[152]»

Comerio non fu però solo e vari fotografi ripresero gli avvenimenti, come ad esempio Giuseppe Maria Serralunga Langhi (1858-1933), autore di numerose foto utilizzate per il volumetto Milano durante i tumulti 6-10 maggio 1898, supplemento illustrato del quotidiano Lega Lombarda.[153][154]

Citazioni e riferimenti

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Il quarto stato

«Fu composto per i tristi fatti del maggio del 1898. Il consiglio di perdono e d'oblio non fu ascoltato.»

«Oltre vendicare gli altri, volevo vendicare anche me, costretto, dopo una vita miserrima, ad emigrare. I fatti di Milano, in cui si adoperò il cannone, mi fecero piangere di rabbia e pensai alla vendetta. Pensai al Re, perché costui, oltre a firmare i decreti, premiava gli scellerati che avevano compiuto le stragi.[159]»

  • Nel 1938 nel convento dei cappuccini fu posta una lapide di ringraziamento per quanti aiutarono i frati durante i fatti.

«Pax et bonum / Nel 40º anno della breccia / aperta in questo convento / i cappuccini di Monforte / a ricordo / del nobile gesto di carità / compiuto / da cospicue personalità / del laicato cattolico, del clero milanese milanese / ispiratore duce / Achille Ratti / prefetto dell'«Ambrosiana» / oggi Pontefice Sommo / a consacrazione / di un dovere di gratitudine / a compimento / di una promessa / umiliata ai piedi del S. Padre / questa lapide / posero. / 9. V. 1898 - 9. V. 1938[160]»

  • Nel 1975 Lucio Dalla e Roberto Roversi scrissero la canzone Parole incrociate (album Anidride solforosa) contenente riferimenti ai moti di Milano del 1898.
  • Nel 1976 un antimonumento a Bava Beccaris venne posizionato di fronte alla Palazzina Liberty, all'epoca sede del collettivo teatrale di Dario Fo. Opera di Ugo Guarino, era formato con vari rottami e completato dalla scritta provocatoria «Il popolo milanese al grande fondatore della democrazia giustamente premiato dal re buono per aver eliminato i facinorosi, i cittadini benemeriti posero». Venne distrutto nel 1985 dal Comune di Milano.[161][162]
  • Nel 1978 esce "L'albero degli zoccoli" che nella parte finale è ambientato nella Milano del 1898: si vede un tram che blocca la strada e carabinieri schierati in massa.[163]

Commemorazioni

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  • Il 10 maggio 1908, per il decimo anniversario, venne posta una lapide commemorativa presso la Camera del lavoro di Milano e si svolse un corteo fino al cimitero di Musocco.[164]
  • Nel 1998, in occasione del centesimo anniversario, la Società Umanitaria ospitò dal 1º maggio al 16 giugno la mostra documentaria Il '98 a Milano organizzata dalla Provincia di Milano e dalla Fondazione Anna Kuliscioff.[165]
  1. ^ G. Spadolini, L'Italia della ragione. Lotta politica e cultura nel Novecento, Firenze, 1978, p. 6.
  2. ^ Isastia, pp. 52-53.
  3. ^ Ballini, pp. 122-125.
  4. ^ Ballini, pp. 128-129.
  5. ^ Isastia, p. 55.
  6. ^ Ballini, p. 128.
  7. ^ Questione di dazio, in Corriere della Sera, 1º aprile 1886, p. 3.
  8. ^ Il dazio-consumo ed i tumulti di jeri, in Corriere della Sera, 2 aprile 1886, p. 3.
  9. ^ La deliberazione del Consiglio comunale, in Corriere della Sera, 4 aprile 1886, p. 3.
  10. ^ Hunecke, pp. 80-82.
  11. ^ Canavero, pp. 150-151.
  12. ^ Hunecke, p. 84.
  13. ^ Regio decreto n. 11, 23 gennaio 1898, in Gazzetta Ufficiale, 24 gennaio 1898, p. 278. URL consultato il 16 giugno 2018 (archiviato il 2 gennaio 2021).
  14. ^ Canavero, p. 154.
  15. ^ a b Bollettino statistico mensile. Città di Milano, su Emeroteca Digitale. Biblioteca Nazionale Braidense. URL consultato il 16 giugno 2018 (archiviato il 2 gennaio 2021).
  16. ^ Canavero, p. 155.
  17. ^ I funerali di Felice Cavallotti, in Corriere della Sera, 10 marzo 1898, p. 3.
  18. ^ Il cinquantesimo anniversario delle Cinque Giornate del 1848, in Corriere della Sera, 21 marzo 1898, p. 3.
  19. ^ Cose Italiane, in La Civiltà Cattolica, vol. 2, 1898, p. 230.
  20. ^ Canavero, pp. 157-159.
  21. ^ Cavavero, pp. 161-162.
  22. ^ Regio decreto n. 139, 30 aprile 1898, in Gazzetta Ufficiale, 4 maggio 1898, p. 1655. URL consultato il 16 giugno 2018 (archiviato il 2 gennaio 2021).
  23. ^ Villari, p. 541.
  24. ^ M. Sagrestani, Italia di fine secolo : la lotta politico-parlamentare dal 1892 al 1900, Bologna, 1976, p. 382.
  25. ^ Annuario militare, pp. 3-4.
  26. ^ a b c d e f g Bava Beccaris.
  27. ^ Le cinque giornate alla rovescia, in Corriere della Sera, 15-16 maggio 1898, p. 3.
  28. ^ Canavero, pp. 161-186.
  29. ^ Canavero, p. 170.
  30. ^ Villari. Parti rese anonime furono pubblicate in P. Villari, Nuovi problemi, in Nuova Antologia, 16 dicembre 1899, pp. 753-757..
  31. ^ Villari, p. 549.
  32. ^ A. Avancini, Venticinque anni dopo. Ricordi del 1898, in La cultura moderna, maggio 1923, pp. 275-280. URL consultato il 16 giugno 2018 (archiviato il 2 gennaio 2021).
  33. ^ Terruzzi.
  34. ^ Winspeare, p. 4.
  35. ^ a b Winspeare, p. 5.
  36. ^ Cfr. Volantino dei socialisti milanesi, maggio 1898.
  37. ^ Canavero, p. 166.
  38. ^ Canavero, p. 167.
  39. ^ Winspeare, p. 6.
  40. ^ Canavero, pp. 168-169.
  41. ^ Villari, p. 542.
  42. ^ Canavero, p. 171.
  43. ^ a b c Villari, p. 543.
  44. ^ a b Canavero, p. 172.
  45. ^ Canavero, p. 173.
  46. ^ a b Regio decreto n. 147, 7 maggio 1898, in Gazzetta Ufficiale, 9 maggio 1898, pp. 1713-1714. URL consultato il 16 giugno 2018 (archiviato il 2 gennaio 2021).
  47. ^ Canavero, p. 178.
  48. ^ a b c Continuano i disordini a Milano, in Corriere della Sera, 10-11 maggio 1898, p. 1.
  49. ^ a b Del Mayno.
  50. ^ Canavero, pp. 181-182.
  51. ^ Canavero, pp. 182-183.
  52. ^ a b Villari, p. 545.
  53. ^ a b c Villari, p. 546.
  54. ^ Ginex e Cerchioli, p. 25.
  55. ^ Cfr. articoli di P. Valera in L'Avanti del 1899 (5 febbraio Archiviato il 16 giugno 2018 in Internet Archive., 20 febbraio Archiviato il 16 giugno 2018 in Internet Archive., 24 febbraio Archiviato il 16 giugno 2018 in Internet Archive. e 6 marzo Archiviato il 16 giugno 2018 in Internet Archive.)
  56. ^ T. De Carpi (padre Felice da Porretta), La breccia del convento di Milano nel 1898, Firenze, 1910.
  57. ^ La giornata di ieri, in Corriere della Sera, 10-11 maggio 1898, p. 1.
  58. ^ Valera 1973, p. 304.
  59. ^ Valera 1973, p. 290.
  60. ^ Le confortanti notizie di oggi, in Corriere della Sera, 10-11 maggio 1898, p. 1.
  61. ^ Cose Italiane, in La Civiltà Cattolica, vol. 2, 1898, p. 615.
  62. ^ Canavero, pp. 188-189.
  63. ^ A Luino (Como). Dimostrazioni per il pane. Un gravissimo conflitto, in Corriere della Sera, 11 maggio 1898, p. 3.
  64. ^ Documenti diplomatici, pp. 321-322.
  65. ^ Documenti diplomatici, pp. 322-323.
  66. ^ Le vicende del gruppo sono ricostruite in Maffei.
  67. ^ Canavero e Ginex, p. 21.
  68. ^ a b c d e La cessazione dello stato d'assedio, in Corriere della Sera, 6-7 settembre 1898, p. 3.
  69. ^ Valera 1973, pp. 47-48 e 385-386.
  70. ^ Bollettino ufficiale del Ministero dell'Interno, vol. 1, 1898, pp. 200, 230 e 373.
  71. ^ Valera 1973, p. 46.
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