Ricompense militari romane
Nell'antica Roma, i dona militaria erano le ricompense militari assegnate ai soldati o a ufficiali valorosi. Tali ricompense si distinguevano in due classi, quella dei dona maiora, premi riservati a particolari atti di eroismo, e quella dei dona minora, premi di minore importanza, destinati a ricompensare l'impegno ed il valore dei soldati.
Polibio racconta che i Romani avevano un efficace sistema per incitare i giovani ad affrontare il pericolo. Dopo alcune operazioni militari nelle quali alcuni di essi si erano distinti per atti di valore, il console radunava le truppe (adlocutio) e, dopo aver presentato quelli che erano stati protagonisti di una qualche eccezionale impresa di valore, faceva di questi un pubblico elogio, esaltandone il comportamento eroico e gli altri eventuali atti coraggiosi avuti nella precedente vita militare, degni di essere menzionati.[1]
Attraverso una serie di doni, oltre alla gloria, i Romani riuscivano a stimolare nei soldati una forma di emulazione nelle battaglie, sia nei presenti, ma anche in quelli che restavano in patria. Una volta rientrati in patria partecipavano alle pubbliche processioni da privilegiati, poiché solo quelli che avevano ricevuto dai consoli un riconoscimento per il loro valore, potevano indossare delle decorazioni. Appendono le spoglie nemiche nei posti più in vista nelle proprie case, a testimoniare il loro valore.[2] Polibio conclude dicendo:
«Considerando questo scrupoloso impegno dei Romani nel premiare e nel punire i soldati, è normale che le loro imprese militari si concludano con successo e ci siano tali atti di valore.»
Dona maiora
modificaNella scala delle ricompense militari romane, le corone rappresentavano i dona maiora ("doni maggiori"), superiori ai dona minora. Le corone potevano essere concesse dai generali ai soldati o, viceversa, tributate dalla truppa stessa al proprio comandante. La forma o il materiale con cui esse erano realizzate richiamavano il particolare merito che si intendeva onorare. La corona dava diritto anche all'accesso ad un premio in denaro e a particolari posizioni d'onore in seno all'organizzazione militare e alla società civile.
Questa la descrizione che ne fa Giuseppe Flavio al termine del lungo assedio di Gerusalemme:
«Tito diede ordine a chi era preposto a farlo, di leggere i nomi di tutti quelli che avevano compiuto particolari gesti di valore durante la guerra. E quando questi si facevano avanti, egli, chiamandoli per nome, li elogiava, si congratulava con loro delle imprese compiute quasi fossero le proprie, li incoronava con corone d'oro, distribuiva poi collane d'oro e piccole lance d'oro e vessilli d'argento. A ciascuno poi concesse di essere promosso al grado superiore. Distribuì anche dal bottino una grande quantità di argento, oro, vesti e altri oggetti. Quando tutti furono ricompensati [...] Tito scese tra grandi acclamazioni e si recò a compiere i classici e rituali sacrifici per la vittoria. Presso gli altari vi era un gran numero di buoi ed egli, dopo averli sacrificati, li distribuì all'esercito affinché banchettasse. Passò poi con i suoi generali a festeggiare per tre giorni.»
Tipi di corone
modificaLa corona triumphalis era assegnata al generale vittorioso acclamato imperator. Fatta d'alloro intrecciato, nel corso della cerimonia trionfale era rappresentata da una corona d'oro fatta in forma di foglie d'alloro sorretta sul capo del generale trionfante da uno schiavo. Per la sua caratteristica di corona propria del generale imperator, la corona d'alloro era anche in epoca imperiale attributo proprio dell'Imperatore.
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Esempio di corona triumphalis da Meyers
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Solido dell'imperatore romano Costantino II: la moneta reca nel recto l'effigie dell'imperatore con la corona d'alloro, mentre nel verso vi è una Vittoria nell'atto di reggere il medesimo serto d'alloro
La corona obsidionalis era assegnata all'uomo che, con il proprio intervento, avesse salvato un intero esercito dalla distruzione. Era fatta d'erba intrecciata, per questo era detta anche corona graminea, cioè "corona d'erba". Era considerata il massimo simbolo del valore militare.
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Riproduzione da Meyers di una corona obsidionalis
La corona civica era assegnata all'uomo che, con il proprio intervento, avesse salvato la vita di uno o più cittadini romani (ob cives servatos, "per i cittadini salvati") o di un alleato. Il console come riconoscimento di questo gesto coraggioso, offriva dei doni, mentre coloro che erano stati salvati, offrivano solitamente e spontaneamente una corona d'alloro al loro salvatore. Nel caso non fosse stata riconosciuta alcuna ricompensa, i tribuni decidevano e costringevano la persona salvata a farlo.[3] In teoria, chi era stato salvato, avrebbe dovuto onorare per tutta la vita il proprio salvatore come un padre, avendo l'obbligo di trattarlo come un genitore.[4] La corona civica era realizzata in forma di serto di quercia, per questo era detta anche corona querquensis, cioè "corona di quercia". Creava un particolare legame parentale tra il salvatore e il cittadino salvato. A differenza delle altre corone, la corona civica poteva essere attribuita anche al di fuori del contesto militare.
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Esempio di corona civica da Meyers
La corona muralis era assegnata al primo uomo che avesse scavalcato le mura di una città nemica. In oro, aveva forma di cinta muraria merlata e turrita ed è per questo detta anche corona turrita.[5] Tito Livio racconta a tal proposito un episodio curioso avvenuto subito dopo la presa di Nova Carthago (nel 209 a.C.). Publio Cornelio Scipione, dopo aver ordinato a Gaio Lelio di mantenere sotto sorveglianza la città appena conquistata con i marinai alleati, condusse nell'accampamento le legioni. Il giorno seguente adunò l'intero esercito composto da legionari e marinai. Il comandante romano elogiò il comportamento dei suoi soldati in battaglia e ringraziò gli dei immortali, che avevano concesso loro di prendere in un sol giorno la città più ricca della Spagna, nella quale erano concentrate una grande quantità di ricchezze, in modo da lasciare poco o nulla al nemico.[6]
«Sebbene per tutto ciò, [Scipione] dovesse riconoscenza a tutto [l'esercito], l'onore della corona murale spettava solo a chi aveva per primo scalato le mura. Il soldato che si riteneva degno di quel dono, doveva dichiararlo pubblicamente. Due si fecero avanti: il centurione della quarta legione, Q. Tiberilio, e il marinaio, Sesto Digizio.»
Tito Livio racconta che, non era tanto aspra la disputa fra i due candidati a ricevere il premio dal loro comandante in capo, quanto fosse appassionata la competizione tra i due corpi dell'esercito, vale a dire forze di terra (legioni) e di mare (flotta). Ovviamente il comandante della flotta, Gaio Lelio, favoriva Digizio, mentre Marco Sempronio Tuditano favoriva il centurione Tiberilio. Per evitare che la contesa si trasformasse in una lotta tra le due fazioni e potesse degenerare in sommossa, Scipione inizialmente scelse tre arbitri per giudicare quale dei due avesse scalato per primo le mura della città. Oltre a Gaio Lelio e M.Sempronio, venne aggregato un terzo elemento, neutrale, Publio Cornelio Caudino. Poiché la disputa cominciava a farsi sempre più accesa, considerando che sia gli uni, sia gli altri erano pronti a spergiurare su tutti gli dei, pur di far prevalere la propria fazione, prima che i legionari e i marinai venissero alle mani, Scipione adunò le truppe e dichiarò:[7]
«[...] di aver accertato che Q.Tiberilio e Sesto Digizio avevano scalato contemporaneamente le mura e che egli, grazie al loro valore, li giudicava entrambi degni dell'onore della corona murale.»
Fu così che Scipione risolse la contesa, distribuendo poi a tutti gli altri soldati donativi, a seconda del merito e del valore di ciascuno. In particolare, a Gaio Lelio, lo equiparò a sé stesso e gli fece dono di una corona d'oro e di trenta buoi.[8]
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Esempio di corona muralis
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Esempio di corona muralis da Meyers
La corona castrensis o vallaris era assegnata al primo uomo che avesse scavalcato il vallum di un accampamento nemico. In oro, aveva forma di palizzata, con punte acuminate.
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Riproduzione di una corona castrensis da Meyers
La corona navalis era assegnata al primo uomo che avesse arrembato una nave nemica e all'ammiraglio che avesse distrutto una flotta nemica. Si trattava dunque di due premi distinti, ma è incerta l'esistenza di un'unica corona oppure di due corone distinte, nel qual caso una sarebbe stata chiamata semplicemente navalis, mentre l'altra, simbolicamente decorata con dei rostri richiamanti quelli delle navi nemiche, sarebbe stata per questo detta corona rostrata. Entrambe le corone o la corona unica erano comunque realizzate in oro.
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Esempio di corona navalis da Meyers
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Esempio di corona navale
La corona ovalis era assegnata al comandante cui fosse stata tributata un'ovazione, ma non il trionfo, avendo combattuto contro un nemico ritenuto inferiore. Era fatta di mirto intrecciato.
Usi delle corone romane in araldica
modificaLe corone romane hanno avuto largo uso nel campo dell'araldica e in particolare nell'araldica civica italiana. In particolare le corone d'alloro e quercia sono state utilizzate nella composizione degli stemmi delle province e nello stesso emblema della Repubblica Italiana. Le corone murarie compaiono invece negli stemmi dei comuni e delle città e in quelli dell'Esercito Italiano e dell'Aeronautica Militare, mentre la corona navale è utilizzata nello stemma della Marina Militare Italiana.
Dona minora
modificaInferiori alle corone, nella scala delle ricompense militari, erano i dona minora ("premi minori"). Queste decorazioni erano assegnate come ricompensa ai soldati distintisi per prove di coraggio e abilità. La consegna avveniva nel corso di pubbliche cerimonie al termine delle campagne o delle battaglie e spesso all'assegnazione del premio si accompagnavano ricompense in denaro o in bottino. L'assegnazione del donum minor comportava, per il portatore, una condizione di prestigio all'interno del proprio reparto e della comunità militare.
L'uso di questi premi ci viene tramandato ad esempio da Svetonio e Tacito, quest'ultimo riferendosi all'incontro del germano Armino con il fratello, alleato dei Romani:
«ut liceret cum fratre conloqui oravit. Erat is in exercitu cognomento Flavus, insignis fide et amisso per vulnus oculo paucis ante annis duce Tiberio. Tum permissu (...) unde ea deformitas oris interrogat fratrem. Illo locum et proelium referente, quodnam praemium recepisset exquirit. Flavus aucta stipendia, torquem et coronam aliaque militaria dona memorat.»
«Chiese di poter parlare con il fratello, il quale militava nell'esercito romano con il nome di Flavo, soldato di straordinaria fedeltà e privo di un occhio, perduto, in seguito ad una ferita pochi anni prima, sotto il comando di Tiberio. Concessagli l'autorizzazione al colloquio, (...) chiese al fratello l'origine di quello sfregio sul volto. Quest'ultimo gli riferì il luogo e la battaglia. Arminio chiese ancora quale compenso avesse ricevuto. Flavo rammentò lo stipendio accresciuto, il collare, la corona e le altre ricompense militari.»
«Dona militaria, aliquanto facilius phaleras et torques, quicquid auro argentoque constaret, quam vallares ac murales coronas, quae honore praecellerent, dabat; has quam parcissime et sine ambitione ac saepe etiam caligatis tribuit. M. Agrippam in Sicilia post navalem victoriam caeruleo vexillo donavit.»
«Distribuiva dona militaria preferibilmente le falere (medaglia) e le torques (collana) che fossero d'oro o d'argento, piuttosto delle corone obsidionali e murali, che erano superiori in onore. Distribuì queste in modo estremamente moderato, senza ambizione e spesso anche a "semplici soldati". Donò a Marco Vipsanio Agrippa di un vessillo azzurro dopo la sua vittoria navale in Sicilia.»
Tipi di ricompense
modificaLe ricompense di gaesum, patera e phalera erano donate dal console, non tanto a quei soldati che hanno ferito o ucciso dei nemici in una battaglia regolare o durante l'assalto ad una città, ma a quelli che si sono distinti in combattimenti individuali, nel corso di azioni speciali, ed hanno affrontato volontariamente il pericolo.[9]
A chi ha ferito un nemico, il console regalava in premio un gaesum.[10] Sempre Polibio racconta che nei tempi antichi (prima delle guerre puniche) anche a chi avesse ucciso un nemico, era fatto omaggio di un gaesumm e non una patera o una phalera (vedi sotto).[10]
E sempre il console, dopo pubblico elogio, regalava una patera a chi aveva ucciso un nemico in combattimento, se era un fante.[10]
Il console, dopo pubblico elogio, regalava una phalera a chi aveva ucciso un nemico in combattimento, se era un cavaliere.[10] La falera (da phalera, cioè "orpello") era una vera e propria medaglia in forma di borchia metallica cesellata o sbalzata, apposta quale decorazione sulle armature. Derivava dai tipici medaglioni ornamentali utilizzati quali elementi decorativi nell'abbigliamento femminile o nella bardatura dei cavalli.
L'armilla (da armus, cioè "braccio") era un bracciale di metallo utilizzato anche quale protezione nelle armature, tipico della cultura greco-romana.
Il torque (da torquere, cioè "torcere") era un tipo di collare ritorto di metallici tipico della cultura gallo-celtica.
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Esempio di patera
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Phalerae romane applicate attraverso un pettorale al linothorax di un centurione
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Ricostruzione di un centurione romano del II secolo della legio XXI Rapax; si notano le tipiche phalerae, assieme ad altre tipologie di dona, appese alla lorica tramite fettucce e fibbie che servivano a unire e agganciare le cinghie di supporto delle decorazioni.
Ricompense imperiali
modificaAltri particolari tipi di ricompense erano quelli concessi in età imperiale direttamente ed esclusivamente dall'Imperatore a ufficiali o soldati che si fossero particolarmente distinti nel corso delle campagne militari e del cui uso testimonia ad esempio la seguente iscrizione:
«Marco Vettio Cai filio Quirina Latroni, flamini divi Augusti, sacerdoti Cererum, anni CXXXVII, equo publico et in quinque decurias adlecto, praefecto cohortis I Alpinorum equitatae, donis donato ab Imperatore Caesare Nerva Traiano Augusto Germanico Dacico bello Dacico hasta pura, corona murali, vexillo argenteo, tribuno militum legionis II Adiutricis Piae Fidelis, praefecto alae Silianae civium Romanorum, torquatae, armillatae, procuratori annonae Ostiae et in Portu, procuratori provinciae Siciliae, procuratori Alpium Cottiarum, procuratori Mauretaniae Caesariensis, Marcus Vettius Euthychides libertus patrono optimo decreto decurionum.»
«A Marco Vettio Quirino Latrone, figlio di Caio, flamine del Divo Augusto, sacerdote di Cerere, nell'anno centotrentasettesimo, cavaliere pubblico e scelto in cinque decurie, prefetto della cavalleria della I coorte degli Alpini, che ha ricevuto in dono dall'Imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto Germanico Dacico in occasione della guerra dacica l'asta pura, la corona muraria e il vessillo argenteo, tribuno militare della Legione II Soccorritrice Pia Fidele, prefetto dell'Ala di cittadini romani della Siliana, decorato con collari e bracciali, procuratore dell'Annona di Ostia e a Porto, procuratore della provincia di Sicilia, procuratore delle Alpi Cozie, procuratore della Mauretania Cesarense, il liberto Marco Vettio Eutichide al proprio ottimo patrono per decreto dei decurioni.»
Tipi di ricompense imperiali
modificaL'asta pura era una particolare lancia (hasta) d'oro (pura, "[d'oro] puro").
Il vessillo argenteo era una speciale rappresentazione in argento di un vessillo, cioè di un'insegna legionaria. L'argento era un materiale pregiato dal particolare valore simbolico, in quanto con esso erano realizzate le aquile sacre portate in battaglia dalle legioni.
Note
modificaBibliografia
modifica- Fonti antiche
- Aulo Gellio, Noctes atticae
- Cesare, Commentarii de bello Gallico. (testo latino ).
- Cesare, Commentarii de bello civili. (testo latino ).
- Cicerone, Pro Cn. Plancio
- Plinio il Vecchio, Naturalis historia
- Polibio, Storie (Ἰστορίαι), III-XV. (versione in inglese qui e qui).
- Tacito, Annales. (testo latino e versione inglese).
- Seneca, De clementia
- Fonti secondarie
- Erik Abranson e Jean-Paul Colbus, La vita dei legionari ai tempi della guerra di Gallia, Milano, 1979.
- (EN) Peter Connolly, Greece and Rome at War, Londra, Greenhill books, 1998, ISBN 1-85367-303-X.
- Smith, William, Dictionary of Greek and Roman Antiquities, London, 1872.