Scipione Ammirato

storico e letterato italiano

Scipione Ammirato (Lecce, 7 ottobre 1531Firenze, 31 gennaio 1601) è stato uno storico, genealogista e letterato italiano, tra i massimi teorizzatori della ragion di Stato del suo tempo, esponente del tacitismo (fu commentatore degli scritti di Publio Cornelio Tacito), da lui interpretato in chiave antimachiavellica.[1]

Ritratto di Scipione Ammirato tratto dal secondo volume della sua opera Delle famiglie nobili napoletane (1651)

I suoi Discorsi sopra Cornelio Tacito ebbero vasta risonanza europea e furono ripubblicati più volte in Italia, Francia e Germania e tradotti in francese e latino.[2][3][4][5] Nelle successive versioni di Jean Baudouin (1618) e Laurent Melliet (1619), i Discorsi contribuirono non poco all'innesto del tacitismo all'interno della cultura francese.[6]

L'Ammirato è giudicato storico «esatto, oculato, scrupoloso nel ricercare ed interpretare vecchie cronache e documenti d'archivio» che «nella Storia fiorentina (1600), negli Opuscoli e nelle genealogie d'illustri famiglie, prelude all'odierno metodo d'usar le fonti storiche: i voluti errori, le ingegnose iperboli del Machiavelli, che aveva narrato in parte gli stessi fatti, lo scandalizzavano. Perciò egli s'innalza su tutti gli storiografi di quest'età che scrissero in volgare».[7]

Biografia

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Frontespizio del primo volume dell'opera Delle famiglie nobili napoletane di Scipione Ammirato (1580)

Nato a Lecce da una famiglia nobile di origine toscana, venne avviato dal padre agli studi di diritto a Napoli, ma ne fu distratto dai suoi interessi umanistici. Frequentò i circoli letterari partenopei e divenne intimo amico di Berardino Rota[8], Angelo di Costanzo e Bartolomeo Maranta, scelto dall'Ammirato come personaggio del dialogo Il Rota, overo delle imprese (e il Maranta sceglierà Scipione quale interlocutore del suo Lucullianorum quaestionum nel 1564).[9][10] Intrapresa la carriera ecclesiastica, per alcuni anni risiedette a Venezia, dove divenne segretario del patrizio veneto Alessandro Contarini. A Venezia approfondì i suoi interessi letterari, frequentò le dotte riunioni in casa del letterato Domenico Venier e strinse amicizia con Pietro Aretino, Sperone Speroni e Vittoria Colonna.[11][12] Collaborò alla stampa, curata da Girolamo Ruscelli, dell'Orlando furioso, cui egli prepose gli Argomenti in rima.[2][13] Costretto ad abbandonare il servizio di Contarini a causa di uno scandalo, l'Ammirato si recò in un primo tempo a Roma, dove entrò al servizio di Papa Pio IV. Nel 1558 tornò a Lecce, dove fondò, insieme a Pompeo Paladini, l'Accademia dei Trasformati, di cui fu «principe» col nome di «Proteo».[9][14]

Datosi allo studio assiduo delle opere di Platone, verso il 1560 compose, per consiglio del vescovo Braccio Martelli e di Girolamo Seripando, il dialogo Il dedalione o ver del poeta (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. VII 12)[15], dedicato a Seripando e presentato manoscritto dieci anni più tardi nell'Accademia degli Alterati a Firenze.[16][17][18]

Nel Dedalione l'Ammirato affronta la domanda comune a tutti i teorici letterari italiani del Cinquecento: in quale campo della filosofia si debba classificare la poesia. L'Ammirato la assegna al campo della filosofia civile. Operando una distinzione fra filosofia contemplativa e filosofia attiva, l'Ammirato stabilisce nella seconda tre categorie, di cui una è la filosofia civile o politica; in tale categoria il poeta ha come compito particolare, insieme al legislatore e all'oratore, di curare l'animo umano attraverso lezioni di moralità e di virtù, presentate in modo piacevole.[19]

Ormai famoso in tutta Italia, non riuscì tuttavia a ottenere la carica di storiografo regio a Napoli, proposta per lui da Angelo Di Costanzo, e indignato se ne andò a Firenze (1569), non accettando più alcun incarico nel Regno di Napoli, nonostante le sollecitazioni del viceré. Dal granduca Cosimo I de' Medici, che lo ospitò presso Villa La Topaia, ottenne l'incarico di scrivere le Istorie fiorentine, per la cui stesura poté servirsi del materiale conservato presso l'Archivio Pubblico istituito nel 1570. Obiettivo polemico delle Istorie dell'Ammirato sono le Istorie fiorentine del Machiavelli, di cui contestò sia l'impostazione dispersiva sia le numerose inesattezze (1º vol., pp. 1–2, e 3º vol., pp. 96–97).[1] Assiduo frequentatore dell'Accademia degli Alterati di Giovan Battista Strozzi, l'Ammirato divenne un protagonista del panorama culturale cittadino.[11] Giovan Battista Attendolo lo proclamò "principe degli storici del suo secolo", e l'Accademia fiorentina "nuovo Livio"; Orlando Pescetti lo pose per la lingua allo stesso livello di Pietro Bembo, Monsignor della Casa, Lionardo Salviati, Benedetto Varchi e Annibale Caro; il suo lavoro sulle Famiglie napoletane ebbe un grande successo nelle corti di tutta Italia e suscitò le calorose lodi di Traiano Boccalini ed Annibale Caro. «In un'epoca in cui largamente si diffondeva un'araldica dominata dalla fantasia e trovavano credito le astruse ricostruzioni genealogiche di spregiudicati falsari, le documentate ed erudite ricerche di Scipione Ammirato sulle famiglie napoletane e fiorentine fecero testo per «compor le genealogie e fabbricar gli alberi delle case più illustri» (Traiano Boccalini, Ragguagli di Parnaso, Cent. I, L).»[20] Indice della fama dell'Ammirato genealogista erano le richieste di pareri su tale materia che gli venivano avanzate non solo da famiglie regnanti italiane, ma anche dal re di Francia o dal decano capitolare di Colonia.[21] I re Enrico II di Francia e Filippo II di Spagna, i papi Clemente VIII e Sisto V e i Medici gli spedivano lettere assai lusinghiere, promettendogli immense ricchezze.[22] Nel 1595 divenne canonico della cattedrale di Firenze. Dopo aver fatto testamento (11 gennaio 1601) morì il 31 gennaio 1601 e lo stesso giorno fu sepolto in Santa Maria del Fiore a Firenze.

Teoria della ragion di stato

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Occhiello del primo volume delle Historiae di Cornelio Tacito nell'edizione seicentesca curata da Johannes Theodor Ryck (Leida, 1687)

Nei Discorsi sopra Cornelio Tacito l'Ammirato s'accinse alla non facile impresa di una nuova confutazione della dottrina machiavellica, considerata empia ai tempi della Controriforma (l'Ammirato evita perfino di nominare il Machiavelli, chiamandolo sempre «l'autor dei Discorsi»). Nuova era l'idea di confutarla fondandosi sull'opera del Tacito; tanto più dopo che Giovanni Botero aveva messo sullo stesso piano Tacito e Machiavelli. «Viaggiando nelle corti – dice Botero – mi ha recato somma meraviglia il sentir tutto dì mentovare ragione di Stato, ed in cotal materia citare ora il Machiavelli, ora Cornelio Tacito, quello perché dà precetti appartenenti al governo, questo perché esprime vivamente l'arti usate da Tiberio Cesare e per conseguire e per conservarsi l'imperio di Roma».[23] Botero si meravigliava che un autore così malvagio e il governo di un tiranno fossero tenuti in tale considerazione da farne il modello di condotta dei governanti.[24]

L'Ammirato aveva sicuramente letto Tacito già da studente, come dimostrano i riferimenti a Tiberio e Caligola che si incontrano nei suoi dialoghi giovanili. Probabilmente era a conoscenza dell'edizione delle opere di Tacito curata dal più grande critico testuale del XVI secolo, lo studioso fiammingo Giusto Lipsio, e incontrò alcuni dei più importanti tacitisti italiani – Paolo Manuzio, Latino Latini, Francesco Benci – che avevano accolto Lipsio a Roma proprio mentre l'Ammirato stava passando dalla città diretto a Firenze, nel 1569. In questa occasione l'Ammirato può aver consultato anche i volumi fittamente annotati dell'amico di Lipsio Marc-Antoine Muret, che insegnava a Roma fin dal 1560. È infine possibile che l'Ammirato abbia consultato anche i lavori preparatori dell'edizione di Tacito dello studioso fiorentino Curzio Picchena, basati sui codici Mediceus prior e Mediceus alter, i più antichi testimoni delle opere di Tacito, conservati nella Biblioteca Laurenziana, a Firenze. Ma fu il contatto con l'Accademia degli Alterati a spingere l'Ammirato a dedicare a Tacito uno studio serio. Nel luglio del 1583 Bernardo Davanzati aveva presentato all'Accademia il primo libro della sua traduzione degli Annali; da quel momento in poi gli accademici, incluso l'Ammirato, discussero regolarmente ogni libro successivo, fino all'edizione finale dell'Opera omnia, dedicata agli accademici e pubblicata nel 1599.[25]

Sin dal 1591 l'Ammirato cominciò la composizione dei Discorsi. «Quando io posi mano a questa impresa – scrive a monsignor Ferrante Taverna – non mi feci da capo, ma secondo mi abbatteva a cosa che mi piacesse o che mi paresse opportuna ad insegnare a chi sapea meno di me n'andai facendo tanti (discorsi), che parendomi che fossero un giusto libro, li vo ora rimettendo nel lor libro secondo l'ordine dei libri del medesimo autore; il che quando sarà finito, sarà facil cosa ch'io lo dia fuora, se così ne sarò da' severi giudici confortato».[26]

È lo stesso Ammirato a spiegare per quale ragione abbia scelto Tacito come maestro del futuro principe, perché è il pittore più ampio ed accurato del principato romano e perché la sua opera è tra le mani di tutti. «L'autor nostro – egli scrive – ci dimostra qual sono le vere arti del dominare, utilissime non meno a' signoreggianti, che a' signoreggiati et di tanta sicurezza, che niuna altra cosa può esser maggiore, come confesserà ciascuno che punto vi applica l'animo».[27] Oltre a Tacito l'Ammirato fece ampio ricorso alle opere di Livio, Cesare, Cassio Dione, Plutarco, Cicerone, Platone e Senofonte.[28]

Nei Discorsi l'Ammirato sostiene che la ragione di stato «altro non essere che contraventione di ragione ordinaria per rispetto di publico beneficio, overo per rispetto di maggiore e più universal ragione».[29] Egli riteneva che il monarca o il reggitore delle sorti dello stato fosse provvisto di una plenitudo potestatis, sebbene dovesse essere saggio ed esemplare, consapevole dei suoi doveri.[2] L'Ammirato in ultima istanza riteneva che la ragion di Stato fosse solo una deroga agli ordinamenti vigenti, in casi particolari in cui fosse a repentaglio l'esistenza stessa dello Stato, ma non una deroga alle leggi naturali o divine. In altri termini, esiste a suo giudizio una ragione di stato non arbitraria (dominationis flagitia), ma rispettosa del bene generale, tesa a limitare i privilegi e gli eccessi, a condizione che venga esercitata dal principe, solo e legittimo rappresentante dello stato, nel rispetto delle leggi di Dio e della natura.[30]

L'esposizione chiara e, per quanto lo permetteva la materia, di non difficile lettura, nella quale l'erudizione non soffoca il ragionamento, assegna al libro dell'Ammirato il primo posto tra quanti trattarono di politica sulla fine del secolo XVI, di gran lunga al di sopra della gran massa degli altri che, eccettuato il Botero, non fanno che affastellare citazioni antiche e moderne e generare confusione e fastidio in chi si accinge a leggerli.[31]

I Discorsi dell'Ammirato ebbero grande successo. La granduchessa gli scriveva che sperava «di cavarne utilità di virtuosi e giusti avvertimenti et compiacimento» e li chiamava un «libro salutifero». Il granduca sperava anch'egli di trarre «da essi con dilettazione frutto et aiuto» per il suo governo, «tenendo per certo che con Cristiana pietà siano prudentemente indirizzati a un giusto reggimento e ad una accorta conservazione de' popoli e delli Stati con publico benefizio».[32] Simile accoglienza ebbero nel mondo letterario: furono lodati da Antonio Possevino[33], tradotti nel 1609 in latino e nel 1619 in francese e apprezzati da René Rapin, che pure riteneva lo studio della politica di Tacito le plus vaine de touts.[34] Più recentemente Amelot de la Houssaye nella sua nota versione di Tacito così si esprimeva a proposito dei Discorsi dell'Ammirato: «Je n'ai pas laissé de trouver beaucoup de bon sens dans ses raisonnemens et même beaucoup de droiture dans ses maximes». Notata poi l'opposizione al Machiavelli ed una certa oscurità derivante, secondo lui, dall'aver voluto imitare soverchiamente lo stile di Tacito, continua: «Il entre-mêle assez souvent les exemples modernes avec les anciens afin, dit-il dans un de ses discours, que chacun voye que la vérité des choses n'est pas alterée par la diversité des temps. En un mot, son Commentaire est assurement un des milleurs que nous ayons sur Tacite.»

 
Albero genealogico della famiglia Cancellieri tratto dall'Historia della famiglia Cancelliera di Pistoia di Scipione Ammirato (1622)

Traduzioni francesi

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Traduzioni latine

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  1. ^ a b Francesco Vitali (2014).
  2. ^ a b c Rodolfo De Mattei, AMMIRATO, Scipione, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 3, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961.  
  3. ^ Richard Tuck, Philosophy and Government 1572-1651, Roma, Cambridge University Press, 1993, p. 68. URL consultato il 2 giugno 2019.
  4. ^ Les traductions de l'italien en français au XVIIe siècle, Parigi, Presses Paris Sorbonne, 2001, pp. 163-164.
  5. ^ Rodolfo De Mattei, Il pensiero politico di Scipione Ammirato: con discorsi inediti, Giuffrè Editore, 1963, p. 222.
    «In Germania, i Discorsi sopra C. Tacito dell'Ammirato apparvero, tradotti in latino, nel 1609 (Helenopoli) e nel 1618 (Francoforte); e l'Ammirato viene qualificato nel frontespizio come celeberrimo «inter neotericos scriptores».»
  6. ^ Vito Carofiglio, Alberto Castoldi, Maria Teresa Giaveri, Giovanni Saverio Santangelo, Gabriella Violato (a cura di), Interpretare e tradurre: scritti in onore di Luigi de Nardis, Napoli, Bibliopolis, 2000, p. 18.
  7. ^ Francesco Flamini, Il Cinquecento, Milano, Vallardi, p. 465.
  8. ^ A questa amicizia sincera dobbiamo le edizioni delle Rime del Rota fatte dall'Ammirato nel 1560: Berardino Rota, Sonetti del signor Berardino Rota in morte della signore Portia Capece sua moglie, Napoli, 1560.; Berardino Rota, Sonetti et canzoni; con l'egloghe pescatorie, Napoli, 1560.; cfr. anche Luca Milite, Berardino Rota, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 3, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961. URL consultato il 2 giugno 2019..
  9. ^ a b Maiko Favaro, Sulla concezione dell'impresa in Scipione Ammirato, in Italianistica: Rivista di letteratura italiana, vol. 38, n. 2, maggio-agosto 2009, pp. 285-298, JSTOR 23938118.
  10. ^ I trasformati, p. 21.
  11. ^ a b Peter Bondanella, Julia Conway Bondanella, Jody Robin Shiffman (a cura di), Cassell Dictionary Italian Literature, A. & C. Black, 2001, p. 11. URL consultato il 2 giugno 2019.
  12. ^ Congedo, pp. 25-28.
  13. ^ «L'amicizia contratta col Ruscelli in casa del Venier fece sì che l'Ammirato componesse in questo tempo gli argomenti all'Orlando furioso, il poema da lui prediletto. «Giovane di belle lettere, di felicissima vena e di forti studi» scrive il Ruscelli dell'Ammirato, che certo nelle adunanze geniali dei letterati veneziani avea colto il destro di farsi conoscere autore di versi e critico di poesia non spregevole», in Congedo, p. 29.
  14. ^ «Poco l'Ammirato parla della sua accademia: ci dice solo che vi si lessero per intero i dialoghi di Platone, ragionando dei quali l'accademico Marsia, Pier Antonio Tafuri, e Efone, Niccolò Guidano, spiegarono i miti di Medea e di Marsia «nel primo o secondo ascenso nel dì del convivio». Così l'Ammirato, traendo occasione dal giudizio di Platone intorno ad Aristofane, commentò il sonetto del Petrarca: Qui dove mezzo son, Sennuccio mio; Marino Cosentino «buono e valoroso» lesse le sue interpretazioni dei simboli tratti dai versi di Orazio e di Virgilio e dall'antica mitologia.», in Congedo, p. 45.
  15. ^ Edito in Bernard Weinberg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, collana Scrittori d'Italia Laterza, vol. 2, Bari, Casa editrice Giuseppe Laterza & figli, 1970, pp. 477-512.
  16. ^ Enrico Malato, Storia della letteratura italiana: La critica letteraria dal due al novecento, Salerno editrice, 2003, p. 376.
  17. ^ Giulio Ferroni e Amedeo Quondam, La "Locuzione Artificiosa": Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell'età del manierismo, Bulzoni Editore, 1973, p. 75.
    «In Firenze, nell'Accademia degli Alterati, l'Ammirato presentò nel 1571 il manoscritto del dialogo Il Dedalione o ver del poeta, composto però in Napoli intorno al 1560 e dedicato a Girolamo Seripando, arcivescovo di Salerno ed esponente di rilievo della riforma cattolica»
  18. ^ Monsignor Seripando con lettera del 21 dicembre 1560 ringraziava l'autore esprimendo anche il proprio giudizio sull'opera: «vi dico in parola di verità che io non ho letto tra i latini dialogo pur uno più simile ai platonici di questo, dico quanto al filosofo et al modo di procedere. Perché i dialoghi di ms. Tullio (voglio scoprirvi cosa, mai più da me né scritta né detta ad altri, ancorché io gli abbia sempre letti con grande mio piacere et soddisfattone) nondimeno mi è paruto sempre, che rappresentassero più presto persone congregate ad ascoltar uno, che a ragionar fra loro [...] Piacemi ancora che a guisa di Platone tratta cose appartenenti a varie scentie et arti, il che fa la copia del dire, e serva quel che si fa ne i cotidiani ragionamenti et dispute: ove con la varietà si fa una certa ostentatione alla quale sono gli uomini comunemente inchinati. Quanto alla materia non voglio distendermi, essendo tutta utile e trattata tanto dotta e facilmente con risolutione di tutti i dubbi, che possono occorrere al lettore, che più non può desiderarsi.»
  19. ^ Bernard Weinberg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, collana Scrittori d'Italia Laterza, vol. 2, Bari, Casa editrice Giuseppe Laterza & figli, 1970, p. 683.
  20. ^ Claudio Donati, L'idea di nobiltà in Italia, Editori Laterza, 1988, p. 220, ISBN 9788842030485.
  21. ^ Si veda Umberto Congedo, La vita e le opere di Scipione Ammirato, in Rassegna pugliese di scienze lettere e arti, vol. 20, 1903, pp. 13-15.
  22. ^ Scarabelli, pp. 13-15.
  23. ^ Giovanni Botero nella dedica introduttiva dell'opera a Wolf Dietrich von Raitenau, principe vescovo di Salisburgo dal 1587 al 1612.
  24. ^ «che un autore così empio e le maniere così malvagie d'un tiranno [il Tiberio descritto da Tacito, preso a modello dai teorici della monarchia assoluta] fossero stimate tanto, che si tenessero quasi per norma e per idea di quel che si deve fare nell'amministrazione e nel governo degli Stati.»
  25. ^ Eric Cochrane, Florence in the Forgotten Centuries, 1527-1800: A History of Florence and the Florentines in the Age of the Grand Dukes, University of Chicago Press, 2001, pp. 118-119, ISBN 9780226115955. URL consultato il 25 agosto 2019.
    «Ammirato had read enough of Tacitus as a student to be able to decorate his earliest dialogues with the usual tales about Tiberius and Caligula. He was probably aware of the critical editions just then in the process of emendation and correction by the greatest of all the sixteenth-century textual critics, the Belgian scholar Justus Lipsius. He may even have run across some of the able Italian Tacitists – Paolo Manuzio, Latino Latini, Francesco Benci – who had welcomed Lipsius to Rome, just as Ammirato was passing through on his way to Florence, in 1569. He may have seen the heavily annotated volumes of Lipsius's friend and critic Marc-Antoine Muret, who had been teaching in Rome since 1560. He may have seen some of the preparatory work by the Florentine scholar Curzio Pichena, based on the most ancient of all the manuscript sources, the Mediceus I and II, which were kept just three blocks away in the Laurenziana Library. But it was the Alterati who first had drawn Ammirato's attention to Tacitus as a subject for serious study. In July 1583, Bernardo Davanzati had submitted to the academy the first book of his translation of the Annals; and from then on the academicians, Ammirato included, regularly discussed each succeeding book as it came out, right down through three complete drafts to the final version of the entire Works, dedicated to them in 1599.»
  26. ^ Cfr. Opvscoli dell'Ammirato, vol. 2, p. 495.
    La lettera al Taverna non ha data, ma dev'essere stata scritta verso il 1591: l'Ammirato gli manda il discorso su quel luogo del IV libro di Tacito: «Destrui fortunam suam Caesar
  27. ^ Discorso XX, 9.
  28. ^ Rodolfo De Mattei, Il pensiero politico di Scipione Ammirato: con discorsi inediti, Giuffrè Editore, 1963, pp. 10-11.
    «Non vi è storico che non riscuota rispetto, credito e onor di citazione da parte dell'Ammirato. Gli son familiari i testi di Tucidide, di Senofonte, di Polibio, di Plutarco, di Sallustio, di Cesare, di Svetonio, di Appiano, di Dione, di Erodiano, nonché dei Villani, senz'accennare al citatissimo e ammiratissimo Guicciardini, e allo stesso Machiavelli. Ma, come si è detto, il testo storico di cui farà tesoro ai fini del suo commento è Tacito.»
  29. ^ Scipione Ammirato, su filosofia.unina.it. URL consultato il 1º giugno 2019 (archiviato dall'url originale il 29 marzo 2019)., p. 179.
  30. ^ Maurizio Viroli, Dalla politica alla ragion di stato: la scienza del governo tra XIII e XVII secolo, Roma, Donzelli Editore, 1994, p. 179. URL consultato il 4 gennaio 2012.
  31. ^ Congedo, p. 369.
  32. ^ Cfr. Lettere, in Opvscoli, vol. 2, pp. 433-434.
  33. ^ Antonio Possevino, Bibliotheca selecta, vol. 2, p. 382.
  34. ^ Cfr. le Reflexions sur l'eloquence, la poetique, l'histoire et la philosophie de M. Rapin, Amsterdam, Abraham Wofgang, 1686, p. 304.

Bibliografia

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  • Cesare Vasoli, Unità e disunione dell'Italia? Uno storiografo della Controriforma. Scipione Ammirato e la sua replica al Machiavelli, in Alain Tallon (a cura di), Le sentiment national dans l'Europe méridionale aux XVIe et XVIIe siècles, Madrid, 2007, pp. 189-203, ISBN 978-8495555939.
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  • Ronald Mellor (a cura di), Tacitus: the classical heritage, New York-London, Garland Publishing, 1995.
  • Scipione Ammirato, I trasformati, a cura di Paola Andrioli Nemola, Galatina, Mario Congedo Editore, 2004, ISBN 978-8880865285.
  • Tommaso Fornari, Delle teorie economiche nelle provincie napoletane dal sec. XIII al 1734, Milano, Hoepli, 1882, pp. 139-158.
  • Tommaso Persico, Gli scrittori politici napoletani dal '400 al '700, Napoli, Hoepli, 1912, pp. 190-224.
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  • Virgilio Titone, La politica dell'età barocca, 2ª ed., Caltanissetta, 1950, pp. 203 e seg.
  • Vittorio Di Tocco, Ideali d'indipendenza in Italia durante la preponderanza spagnola, Messina, Principato Editore, 1926, pp. 28-31.

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