Età giolittiana: differenze tra le versioni

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== La premessa: Giolitti I (maggio [[1892]] - dicembre [[1893]]) ==
{{vedi anche|Governo Giolitti I}}
L'inizio del primo ministero di Giovanni Giolitti coincise sostanzialmente con la prima vera disfatta del governo di [[Francesco Crispi|Crispi]], messo in minoranza nel febbraio del [[1891]] su una [[proposta di legge]] di inasprimento [[fisco|fiscale]]. Dopo Crispi, e dopo una breve parentesi (6 febbraio [[1891]] - 15 maggio [[1892]]) durante la quale il paese fu affidato al governo liberal-conservatore del [[Antonio Starrabba|marchese Di Rudinì]], il 15 maggio [[1892]] fu nominato Primo Ministro Giovanni Giolitti, allora ancora facente parte del gruppo crispino.
 
Il suo rifiuto di reprimere con la forza le proteste che, nel frattempo, attraversavano estesamente il paese e che, il più delle volte, si riversavano nelle piazze (vedi il paragrafo [[Giovanni Giolitti#L.27ideologia politica|L'ideologia politica]]) a causa di una generale crisi [[economia|economica]] che faceva salire, fra l'altro, il costo dei beni di prima necessità; le voci che lo indicavano come propositore di una [[tassa]] progressiva sul [[reddito]] (motivi, entrambi, che gli alienarono il consenso dei [[Classe (sociale)|ceti]] [[dirigente|dirigenti]] [[borghesia|borghese]]-[[imprenditore|imprenditoriale]] e dei proprietari terrieri, che vedevano in lui una minaccia ai propri [[interesse|interessi]] economici) e, infine, lo [[scandalo della Banca Romana]] che gli valse accuse di aver "coperto" irregolarità fiscali (prima con il suo dicastero delle finanze e poi con una costante riluttanza all'apertura di [[inchiesta|inchieste]] parlamentari) lo travolsero in pieno facendogli crollare la base del consenso su cui poggiava la sua ancora giovane [[politica]] e lo costrinsero a dimettersi poco più di un anno e mezzo dalla nomina, il 15 dicembre [[1893]].
 
== Tra il Giolitti I ed il Giolitti II: la crisi di fine secolo ==
{{vedi anche|Governo Zanardelli}}
Di fronte alle debolezze mostrate da Giolitti, appena dimessosi, gli elettori (ancora relativamente pochi, a causa del suffragio ristretto) vollero di nuovo affidarsi al governo repressivo di Crispi, per tentare di porre fine ai continui disordini causati dai lavoratori.
La politica estera di Crispi, aggressiva e [[colonialismo|colonialista]], lo portò in [[Eritrea]], ma una serie di sconfitte culminate con quella di [[Battaglia di Adua|Adua]] (1º marzo [[1896]]) ne causarono le dimissioni. Il periodo che va da questo momento sino al [[1903]], quando Giolitti ritornò Primo Ministro, è comunemente indicato come la "crisi di fine secolo": un periodo di [[recessione]] economica contribuì infatti all'aumento della tensione sociale e politica, che si tradusse nella successione di 11 governi (tra cui quelli autoritari di [[Luigi Pelloux]]) in appena 10 anni.
 
Il 4 febbraio [[1901]] il pronunciamento di Giolitti alla [[Camera dei Deputati|Camera]], emblematico della sua [[ideologia]], contribuì alla caduta del governo allora in carica, il [[Governo Saracco]], responsabile di aver ordinato lo scioglimento della Camera del Lavoro di [[Genova]].
 
Già a partire dal [[governo Zanardelli]] (15 febbraio [[1901]] - 3 novembre [[1903]]), Giolitti ebbe una notevole influenza che andava oltre quella propria della sua carica di ministro degli Interni, anche a causa dell'avanzata età del presidente del Consiglio.
 
== Giolitti II (novembre [[1903]] - marzo [[1905]]) ==
{{vedi anche|Governo Giolitti II}}
[[File:Giolitti2.jpg|thumb|Giovanni Giolitti]]
Il 3 novembre [[1903]] Giolitti ritornò al governo, ma questa volta si risolse per una svolta radicale: si oppose, come prima, alla ventata reazionaria di fine secolo, ma lo fece dalle file della [[Sinistra (politica)|Sinistra]] e non più del gruppo crispino come fino ad allora aveva fatto.
 
Questo cambiamento gli consentì di seguire un po' più agevolmente quella politica che si era proposta già all'epoca del suo primo mandato: conciliare gli interessi della borghesia con quelli dell'emergente [[proletariato]] (sia [[agricoltura|agricolo]] che [[industria]]le); a questo proposito è notevole come Giolitti fu il primo a proporre l'entrata nel suo governo come ministro al socialista [[Filippo Turati]], che rifiutò, convinto che la base socialista non avrebbe capito una sua partecipazione diretta ad un governo liberale borghese. Tuttavia, nonostante l'opposizione della corrente [[massimalismo (politica)|massimalista]], in quel periodo minoritaria, Turati appoggiò dall'esterno il governo Giolitti che in questo contesto poté varare norme a tutela del lavoro (in particolare infantile e femminile), sulla vecchiaia, sull'invalidità e sugli infortuni; i [[prefetto|prefetti]] furono invitati ad usare maggiore tolleranza nei confronti degli [[sciopero|scioperi]] a condizione che non turbassero l'ordine pubblico; nelle gare d'[[appalto]] furono ammesse le [[cooperativa|cooperative]] cattoliche e socialiste.
 
L'apertura nei confronti dei socialisti fu di fatto una costante di questa fase di governo: Giolitti programmava, infatti, di estendere il consenso nei riguardi del governo presso queste aree popolari, e in particolare presso quelle [[aristocrazia|aristocrazie]] operaie che, grazie ad una migliore [[retribuzione]] [[salario|salariale]] e, quindi, a un migliore [[tenore]] di [[vita]], raggiungevano il reddito minimo che consentiva il [[diritto di voto]]. Giolitti era infatti convinto che non fosse utile a nessuno tenere bassi i salari perché da un lato non avrebbe consentito ai lavoratori di condurre una vita dignitosa, dall'altro avrebbe strozzato il mercato provocando una sovrapproduzione.
 
Per la riuscita di questo suo progetto occorrevano due condizioni: la prima che i socialisti rinunziassero alle loro proclamate volontà rivoluzionarie, che del resto non avevano mai neppure accennato a tradurre in atto anche nelle più favorevoli occasioni insurrezionali come quelle da poco presentatesi con la rivolta dei [[Fasci siciliani]],<ref>Di questa rivolta popolare siciliana, si era occupato negli anni [[1892]]-[[1893]] Giolitti alla sua prima presidenza del consiglio, non intervenendo direttamente a reprimerla, ma lasciando che si esaurisse da sola. La ribellione che pure era caratterizzata da una vasta partecipazione di tutte le classi, continuò e si estese a tutta l'isola ma alla fine fallì per la repressione operata da Crispi, al suo secondo governo, con l'invio di 50000 uomini dell'esercito, ma soprattutto perché non ebbe una guida politica organizzata come quella del partito socialista che vedeva sconfessate le sue teorie operaiste secondo le quali avrebbero dovuto essere gli operai del Nord a mettere in atto la rivoluzione proletaria. I socialisti, comunque accusati da Crispi di aver fomentato la rivolta e messi al bando, rigettarono le accuse di ogni loro coinvolgimento pur assumendosene la "responsabilità morale".</ref> la seconda che la [[borghesia]] italiana fosse disponibile a rinunciare, almeno in piccola parte, ai suoi privilegi di classe per una politica di moderate [[riformismo|riforme]].