Crimine di guerra: differenze tra le versioni

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=== Giappone ===
{{Vedi anche|Crimini di guerra giapponesi}}
{{...}}I crimini di guerra giapponesi (descritti come olocausto asiatico[2] o atrocità di guerra giapponesi)[3][4] avvennero in molti paesi dell'Asia e del Pacifico durante il periodo dell'espansionismo giapponese, soprattutto durante la seconda guerra sino-giapponese e la seconda guerra mondiale. Alcuni crimini di guerra vennero commessi dal personale militare dell'Impero giapponese nel tardo XIX secolo, anche se la maggior parte avvennero durante la prima parte del periodo Shōwa, il nome dato al regno dell'imperatore Hirohito, fino alla sconfitta militare dell'Impero giapponese nel 1945.
{{...}}
 
Gli storici e i governi di alcuni paesi ritengono le forze militari giapponesi, vale a dire l'Esercito Imperiale Giapponese, la Marina imperiale giapponese e la Famiglia imperiale del Giappone, soprattutto l'Imperatore Hirohito, responsabili degli omicidi e degli altri crimini commessi contro milioni di civili e prigionieri di guerra. Alcuni soldati giapponesi ammisero di aver commesso tali crimini. Gli avieri del Dai-Nippon Teikoku Rikugun Kōkū Hombu e del Dai-Nippon Teikoku Kaigun Kōkū Hombu non erano inclusi come criminali di guerra in quanto non c'era un diritto positivo o una specifica consuetudine del diritto internazionale umanitario che proibiva le condotte illecite di guerra aerea moderna prima e durante la Seconda guerra mondiale. Il servizio aeronautico dell'esercito imperiale giapponese prese parte nella conduzione di attacchi biologici e chimici sui cittadini nemici sia durante la Seconda guerra sino-giapponese sia durante la Seconda guerra mondiale e l'uso di tali armi nella guerra era generalmente vietato dagli accordi internazionali sottoscritti dal Giappone, comprese le Conferenze internazionali per la pace dell'Aia (1899 e 1907), che vietavano "l'uso di veleni o armi avvelenate" in guerra.
=== Italia ===
{{Vedi anche|Crimini di guerra italiani}}
{{...}}Periodo del colonialismo
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Colonialismo italiano.
Nel Regno d'Italia, il diritto bellico verrà essenzialmente disciplinato dalla legge di guerra e di neutralità, emanata con regio decreto n. 1415 dell'8 luglio 1938, dal codice penale militare di guerra e dal codice penale militare di pace, approvati con il regio decreto n. 303 del 20 febbraio 1941.
 
Dal 1950 in poi, gli alti funzionari governativi giapponesi espressero numerose scuse per i crimini di guerra del paese. Il Ministero degli affari esteri del Giappone afferma che il paese riconosce il suo ruolo nell'aver causato "danni enormi e sofferenze" durante la Seconda guerra mondiale, soprattutto per quanto riguarda l'ingresso a Nanchino, durante il quale i soldati giapponesi uccisero un gran numero di non combattenti e si impegnarono in saccheggi e stupri. Alcuni membri del Partito Liberal Democratico del governo giapponese, come l'ex primo ministro Jun'ichirō Koizumi e l'attuale primo ministro Shinzō Abe, pregarono al Santuario Yasukuni, il cui Libro delle Anime comprende come vittime onorevoli di guerra anche criminali di guerra di classe A condannati. Alcuni libri di testo giapponesi descrissero solo brevi riferimenti ai vari crimini di guerra, e membri del Partito Liberal Democratico come Shinzo Abe negarono alcune delle atrocità, ad esempio il coinvolgimento del governo nel rapire donne da impiegare alla stregua di Comfort women (schiave del sesso).
Guerra di Libia
Guerra Italo-turca e sue conseguenze
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra italo-turca.
 
Penitenziario delle isole Tremiti, distribuzione del pane
Il 23 ottobre 1911, nel corso della battaglia di Sciara Sciatt per la conquista di Tripoli, due compagnie di bersaglieri italiani, composte da circa 290 uomini, furono accerchiate e, dopo la resa, annientate nei pressi del cimitero di Rebab dai militari ottomani e irregolari libici. Quando i bersaglieri italiani riconquistarono l'area del cimitero scoprirono che quasi tutti i prigionieri erano stati trucidati. Secondo la relazione ufficiale italiana "molti erano stati accecati, decapitati, crocifissi, sviscerati, bruciati vivi o tagliati a pezzi"[1]. Analogo resoconto fu fatto dal giornalista italo-argentino Enzo D'Armesano che era inviato sul posto per il quotidiano argentino La Prensa[2]. Nella repressione che seguì, furono uccisi almeno un migliaio di libici e si dispose la deportazione in Italia dei “rivoltosi” arrestati. L'operazione riguardò circa quattromila libici, che furono trasferiti nelle colonie penitenziarie delle Isole Tremiti, di Ustica, Gaeta, Ponza, Caserta e Favignana. Gli scarsi dati rimasti rilevano che, per le pessime condizioni igieniche e lo scarso cibo, alla data del 10 giugno 1912, alle Tremiti, erano già deceduti 437 reclusi, cioè il 31% del totale. A Ustica, nel solo 1911, ne morirono 69; a Gaeta e Ponza, nei primi sette mesi del 1912, altri 75. Nel corso del 1912, furono rimpatriati 917 libici, ma le deportazioni continuarono, con punte notevoli intorno al 1915.[3]
 
Indice
Il 18 ottobre 1912, con la stipulazione del Trattato di Losanna, l'Impero Ottomano cedeva all'Italia (a titolo di "protettorato") la Tripolitania e la Cirenaica, mantenendo una sovranità religiosa sulle popolazioni musulmane dei luoghi. Alla fine del conflitto nel 1912, alcune stime indicarono un totale di 10.000 vittime tra turchi e libici a causa di esecuzioni e rappresaglie italiane, dovute alla resistenza turco-libica che sarebbe durata almeno fino al 1932.[4]
1 Definizione
1.1 Diritto internazionale e giapponese
1.2 Estensione geografica e storica
2 Retroscena
2.1 Cultura militare giapponese e Imperialismo
2.2 Eventi del 1930-1940
3 Crimini
3.1 Attacchi a Pearl Harbor, Malesia, Singapore e Hong Kong
3.2 Uccisioni di massa
3.3 Sperimentazione umana e guerra biologica
3.4 Uso di armi chimiche
3.5 Tortura dei prigionieri di guerra
3.6 Esecuzione e uccisione di aviatori alleati catturati
3.7 Cannibalismo
3.8 Lavoro forzato
3.9 Comfort women
3.10 Saccheggi
4 Note
5 Ulteriori informazioni
5.1 Libri
5.2 Audio/visual media
6 Voci correlate
Definizione
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Definizione dei crimini di guerra giapponesi.
 
Xuzhou, Cina, 1938. Un fosso pieno dei corpi dei civili cinesi uccisi dai soldati giapponesi.
Il 18 dicembre 1913, il deputato socialista Filippo Turati, denunciava l'uso della forca e della condanna a morte contro la popolazione libica, in esecuzione della legge e delle usanze locali.[5]
I crimini di guerra vennero definiti dalla Carta di Tokyo come "violazioni delle leggi o consuetudini di guerra", che comprendevano crimini contro nemici combattenti e nemici non combattenti. I crimini di guerra includevano anche attacchi deliberati sui cittadini e le proprietà degli stati neutrali in quanto rientravano nella categoria dei non combattenti come l'Attacco di Pearl Harbor. Il personale militare dell'Impero giapponese venne accusato o condannato per molti di questi atti durante il periodo dell'Imperialismo giapponese dalla fine del XIX secolo alla metà del XX secolo. Molti di essi vennero accusati di aver condotto una serie di violazioni dei diritti umani contro i civili e i prigionieri di guerra di tutta l'Asia orientale e della regione del Pacifico. Questi eventi raggiunsero il loro massimo durante la Seconda guerra sino-giapponese del 1937-1945 e la Guerra del Pacifico (1941-1945). Oltre al personale civile e militare giapponese, si scoprì che anche i coreani e i taiwanesi costretti a servire nelle forze armate dell'impero del Giappone avevano commesso crimini di guerra in quanto parte dell'Esercito imperiale giapponese.
 
Diritto internazionale e giapponese
La repressione italiana della resistenza turco-libica in Tripolitania ed in Cirenaica avvenne tramite i tribunali militari speciali, per cui i processi avvenivano spesso all'aperto ed in pubblico, attraverso cui se ritenuti colpevoli, gli imputati venivano il più delle volte condannati a morte e le sentenze immediatamente eseguite. Le accuse più diffuse erano quelle relative alla collaborazione offerta ai ribelli.[6]
Il Giappone non firmò la Convenzione di Ginevra del 1929 sui prigionieri di guerra (ad eccezione della convenzione di Ginevra del 1929 sui malati e feriti), anche se nel 1942 promise di rispettare i suoi termini. I crimini commessi cadono anche sotto altri aspetti del diritto internazionale e giapponese. Per esempio, molti dei crimini commessi dal personale giapponese durante la Seconda guerra mondiale ruppero il Diritto militare giapponese e finirono davanti alla Corte marziale, come previsto dalla legge stessa. L'impero violò anche gli accordi internazionali sottoscritti dal Giappone, comprese le disposizione dell'Aia (1899 e 1907) come la protezione dei Prigionieri di guerra e il divieto dell'utilizzo di Armi chimiche, la Convenzione del lavoro del 1930 che vietava il Lavoro forzato, la convenzione internazionale del 1921 sul traffico di donne e bambini che proibiva il Traffico di esseri umani e di altri accordi. Il governo giapponese firmò anche il Patto Briand-Kellogg (1929), rendendo così le sue azioni del 1937-1945 suscettibili dalle accuse di Crimini contro la pace, un'accusa che indusse il Processo di Tokyo a perseguire i criminali di guerra di "classe A". I criminali di guerra di "classe B" erano colpevoli di crimini di guerra in sé, e i criminali di guerra di "classe C" erano colpevoli di Crimini contro l'umanità. Il governo giapponese inoltre accettò le condizioni fissate dalla Dichiarazione di Potsdam (1945) dopo la fine della guerra, compreso l'articolo 10 che confermava la pena per "tutti i criminali di guerra, compresi quelli che hanno commesso crudeltà sui nostri prigionieri".
 
Il 24 maggio 1915, in base a un rapporto dell'8 ottobre successivo, indirizzato dal consigliere politico di Misurata Alessandro Pavoni al direttore per gli affari politici del Ministero delle colonie Giacomo Agnesa, riferisce di un barbaro massacro ordinato da un ufficiale dei carabinieri. Da quanto viene riferito a Pavoni, i militari italiani riferirono di alcuni spari partiti dall'edificio, forse per mano di ribelli, mentre un testimone, che all'epoca aveva nove anni, riferirà anni dopo che a sparare erano stati gli italiani dopo essere stati derisi per una recente sconfitta per mano dei senussi. Pavoni scrive che sei soldati italiani scalarono l'edificio fin sul tetto da cui spararono alcuni colpi di fucile nel cortile sopprimendo la ribellione. Poco dopo, il capitano dei carabinieri ordinò che l'edificio, un albergo, venisse incendiato, operazione che fu eseguita dopo la devastazione e la rapina di tutto ciò che potesse essere utile, da parte sia dei militari che dei civili, oltre al proprietario stesso dell'albergo. Il giorno seguente, furono trovate con certezza trentadue cadaveri, quasi tutte bruciate, di cui solo otto uomini adulti. L'inchiesta ministeriale si concluse con il proscioglimento degli accusati.[7] L'evento è ricordato da un piccolo monumento eretto alle spalle del municipio.
 
Pratica giapponese della Baionetta con cinesi morti vicino a Tianjin.
Un altro rapporto parla dell'esecuzione di settantacinque libici nei pressi di Suani Ben Aden, a una quarantina di chilometri a sud-est di Tripoli, il 7 luglio 1915 dopo che gli italiani avevano rinvenuto alcuni barilotti ed altri oggetti militari italiani nel dorso di alcuni cammelli appartenenti ai libici stessi. Anche in questo caso l'inchiesta ebbe il medesimo risultato.[8]
La legge giapponese non definisce i condannati del 1945 come criminali, nonostante il fatto che i governi del Giappone accettarono i giudizi espressi nelle prove e nel Trattato di San Francisco (1952). Questo perché il trattato non menzionava la validità giuridica del tribunale. Il Giappone aveva certificato la validità giuridica dei tribunali dei crimini di guerra nel trattato di San Francisco, i crimini di guerra sarebbero diventati oggetto di ricorso e ribaltamento nei tribunali giapponesi. Questo sarebbe stato inaccettabile per i diplomatici internazionali. L'attuale primo ministro Shinzo Abe ha sostenuto la posizione che il Giappone ha accettato il tribunale di Tokyo e le sue sentenze come condizione per porre fine alla guerra, ma che i suoi verdetti non hanno alcuna relazione con il diritto interno. Secondo questo punto di vista, i condannati per crimini di guerra non sono criminali per il diritto giapponese.
 
Estensione geografica e storica
Operazioni militari per la «riconquista» (1923-32)
Al di fuori del Giappone, diverse società utilizzano ampiamente i diversi orizzonti temporali nella definizione dei crimini di guerra giapponesi. Ad esempio, il Trattato di annessione nippo-coreano nel 1910 venne imposto dai militari giapponesi, e il regno Joseon passò al sistema politico del impero giapponese. Così la Corea del Nord e la Corea del Sud si riferiscono ai "crimini di guerra giapponesi" per riferirsi agli eventi che si verificarono durante il periodo della Corea sotto il dominio giapponese.
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Riconquista della Libia.
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La neutralità di questa voce o sezione sull'argomento storia è stata messa in dubbio.
Motivo: ingiusto rilievo a fonti che non trovano alcun riscontro nella storia accreditata delle truppe regolari italiane o degli ascari al servizio dell'Italia. Le atrocità attribuite agli italiani non vengono nemmeno referenziate come affermazioni di un autore ma date per vere e acclarate. Non si dà alcuna informazione in merito al fatto che negli anni in oggetto attività simili furono compiute negli stessi anni da tutte le potenze coloniali (spagnoli nel Riff, inglesi in Afganistan, giapponesi in Cina etc.)
Per contribuire, correggi i toni enfatici o di parte e partecipa alla discussione. Non rimuovere questo avviso finché la disputa non è risolta. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento.
 
In confronto, gli Alleati non vennero in conflitto militare con il Giappone fino al 1941, e i nordamericani, gli australiani, gli asiatici del Sud-est asiatico e gli europei possono considerare i "crimini di guerra giapponesi" avvenuti nel 1941-1945. I crimini di guerra giapponesi non sempre vennero effettuati dal personali giapponese. Una piccola minoranza di persone in tutti i paesi dell'Asia e del Pacifico invasi occupati dal Giappone collaborarono, o addirittura servirono in esso, per una grande varietà di motivi, come le difficoltà economiche, la coercizione o l'antipatia per gli altri poteri imperialisti.
Impiccagione del capo della resistenza libica Omar Shegewi nel 1928
Con la fine della prima guerra mondiale, tutti i patti con i senussi furono denunciati; al rifiuto del parlamento locale di rispettare i precedenti accordi firmati il 1921,[non chiaro] il 6 marzo 1923, il governatore della Cirenaica, Luigi Bongiovanni proclamò lo Stato d'assedio, iniziando poi le operazioni per la «riconquista» della Libia.[9]
 
La Sovranità del Giappone sulla Corea e su Formosa (Taiwan), nella prima metà del XX secolo, venne riconosciuto dagli accordi internazionali, il Trattato di Shimonoseki (1895) e il Trattato di annessione nippo-coreano (1910), ed erano considerati al momento per essere parte integrante dell'impero giapponese. Secondo la legge internazionale di oggi, vi è la possibilità che il Trattato di annessione nippo-coreano fosse illegale, in quanto le popolazioni indigene non erano state consultate, ci fu una resistenza armata contro le annessioni del Giappone, e crimini di guerra possono anche essere stati commessi durante la Guerra civile.
Cufra, considerata da Graziani "centro di raccolta di tutto il fuoriuscitismo libico", fu bombardata il 26 agosto e i ribelli inseguiti verso il confine con l'Egitto. Lo stesso Graziani parla di 100 ribelli uccisi, 14 ribelli passati per le armi e 250 fermati tra cui donne e bambini. Dopo una nuova insurrezione, il 20 gennaio 1931 la città è rioccupata dagli italiani; ne seguirono tre giorni di violenze ed atrocità impressionanti che provocarono la morte di circa 180-200 libici e innumerevoli altre vittime tra i sopravvissuti:[10] 17 capi senussiti impiccati, 35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, 50 donne stuprate, 50 fucilazioni, 40 esecuzioni con accette, baionette, sciabole. Atrocità e torture impressionanti: a donne incinte venne squartato il ventre e i feti infilzati, giovani indigene violentate e sodomizzate (ad alcune infisse candele di sego in vagina e nel retto), teste e testicoli mozzati e portati in giro come trofei; torture anche su bambini (3 immersi in calderoni di acqua bollente) e vecchi (ad alcuni estirpati unghie e occhi).[10]
 
Retroscena
Grande fu l'impressione nel mondo islamico. La "Nation Arabe" scrisse:
Cultura militare giapponese e Imperialismo
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Fascismo giapponese, Militarismo giapponese, Eugenetica in Giappone e Razzismo in Giappone.
La cultura militare, soprattutto durante la fase imperialista del Giappone, ebbe grande importanza per la condotta dei militari giapponese prima e durante la Seconda guerra mondiale. Dopo la Restaurazione Meiji e il crollo dello Shogunato Tokugawa, l'Imperatore del Giappone divenne il centro della lealtà militare. Durante la cosiddetta "Età dell'impero" nel tardo XIX secolo, il Giappone seguì l'esempio di altre potenze mondiali per lo sviluppo di un impero, perseguendo tale obbiettivo in modo aggressivo.
 
A differenza di molte altre grandi potenze, il Giappone non aveva firmato la Convenzione di Ginevra del 1929 (anche nota come la "Convenzione relativa al trattamento dei prigionieri di guerra"), Ginevra 27 luglio 1929, che era la versione della Convenzione di Ginevra che copriva il trattamento dei prigionieri di guerra durante la Seconda guerra mondiale. Tuttavia, il Giappone ratificò le Convenzioni dell'Aia (1899 e 1907), che contenevano disposizioni riguardanti i prigionieri di guerra e di una proclamazione imperiale (1894) che dichiarava che i soldati giapponesi dovevano fare ogni sforzo per vincere la guerra senza violare il diritto internazionale. Secondo lo storico Yuki Tanaka, le forze giapponesi durante la Prima guerra sino-giapponese rilasciarono 1.790 prigionieri cinesi senza danni, una volta firmato un accordo di non prendere di nuovo le armi contro il Giappone. Dopo la Guerra russo-giapponese (1904-1905), tutti i 79.367 prigionieri dell'Impero russo vennero rilasciati e vennero pagati per il lavoro svolto, in conformità alla Convenzione dell'Aia. Allo stesso modo, il comportamento dei militari giapponesi nella Prima guerra mondiale (1914-1918) era almeno altrettanto umano come quello degli altri militari, con alcuni prigionieri di guerra tedeschi che passarono in modo gradevole la loro vita in Giappone e che soggiornarono e si stabilirono in Giappone dopo la guerra.
«Noi chiediamo ai signori italiani… i quali ora si gloriano di aver catturato cento donne e bambini appartenenti alle poche centinaia di abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante: "Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà?"»
 
Il giornale di Gerusalemme "Al Jamia el Arabia" pubblicò il 28 aprile 1931, un manifesto in cui si ricordano:
 
Due ufficiali giapponesi, Toshiaki Mukai e Tsuyoshi Noda in competizione per vedere chi avrebbe ucciso prima cento persone con la spada. Il titolo riporta "Incredibile record, (nella Gara ad uccidere 100 persone con la spada) Mukai 106, Noda 105. Entrambi i due tenenti vanno ai tempi supplementari".
«...alcune di quelle atrocità che fanno rabbrividire: da quando gli italiani hanno assalito quel paese disgraziato, non hanno cessato di usare ogni sorta di castigo ... senza avere pietà dei bambini, né dei vecchi...[11]»
Eventi del 1930-1940
Entro la fine del 1930, l'aumento del militarismo in Giappone creò somiglianze almeno superficiali tra la più ampia cultura militare giapponese e quella della Germania nazista del personale militare d'élite delle Waffen-SS. Anche il Giappone ebbe un esercito di Polizia segreta che agiva come forza all'interno del Dai-Nippon Teikoku Rikugun, noto come Kempeitai, che assomigliava alla nazista Gestapo nel suo ruolo nei paesi annessi e occupati, ma che esisteva da quasi un decennio prima della nascita di Adolf Hitler. Il fallimento percepito o la devozione insufficiente per l'imperatore avrebbe comportato una punizione, spesso di tipo fisico. In campo militare, gli ufficiali avrebbero aggredito e battuto uomini sotto il loro comando, che passavano a battere i ranghi inferiori, fino in fondo. Nei campi di prigionia, questo significava che i prigionieri ricevevano i peggiori pestaggi di tutti, in parte nella convinzione che tali punizioni erano soltanto la tecnica corretta per affrontare la disobbedienza.
 
Crimini
Deportazioni dalla Cirenaica
L'esercito giapponese venne spesso paragonato a quello della Germania nazista durante gli anni 1933-1945 a causa della vastità delle sofferenze inflitte. Gran parte delle controversie sul ruolo del Giappone nella seconda guerra mondiale ruotano attorno ai tassi di mortalità dei prigionieri di guerra e civili sotto l'occupazione giapponese. Lo storico Sterling Seagrave scrisse che: "Arrivando a una probabile serie di vittime di guerra del Giappone che sono morti è difficile per vari motivi interessanti, che hanno a che fare con le percezioni occidentali. Sia gli americani che gli europei caddero nella sfortunata abitudine di vedere la 1GM e la 2GM come guerre separate, non riuscendo a comprendere che esse erano intrecciate in una moltitudine di modi (non era solo la conseguenza dell'altra, o del comportamento imprudente dei vincitori della 1GM). Tutto parte da questo equivoco di base, la maggior parte degli americani pensano che la 2GM in Asia sia iniziata con Pearl Harbor, gli inglesi con la caduta di Singapore, e così via. I cinesi avrebbero corretto questo identificandolo con l'Incidente del ponte di Marco Polo come l'inizio, o il sequestro giapponese della Manciuria in precedenza. È davvero iniziato nel 1895 con l'assassinio giapponese della regina Myeongseong, e l'invasione della Corea, con il conseguente suo assorbimento in Giappone, seguito rapidamente dalla prese giapponese della Manciuria meridionale, ecc stabilendo che il Giappone era in guerra nel 1895-1945, il Giappone aveva solo brevemente invaso la Corea durante lo Shogunato, molto prima della Restaurazione Meiji, e l'invasione non riuscì. Pertanto la stima di Rummel da 6 milioni a 10 milioni di morti tra il 1937 (Il Massacro di Nanchino) e il 1945, può essere più o meno corollario l'arco di tempo della Shoah nazista, ma sono insufficienti rispetto al numero reale uccisi dalla macchina da guerra giapponese. Se si aggiunge, per esempio, dei 2 milioni di coreani, 2 milioni di mancesi, cinesi, russi, molti ebrei dell'Europa orientale (sia Sefarditi sia Aschenaziti) e gli altri uccisi dal Giappone tra il 1895 e il 1937 (dati prudenziali), il totale delle vittime giapponesi è più o meno come 10 milioni di Dollari per 14 milioni di Euro. Di questi, vorrei suggerire che tra i 6 milioni e gli 8 milioni erano di etnia cinese, indipendentemente da dove risiedevano". Un altro storico, Chalmers Johnson argomentò[5] quanto segue:
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Deportazioni di massa del Gebel.
 
«Sarebbe inutile cercare di stabilire quale dei due aggressori dell'Asse, Germania o Giappone, sia stato il più brutale tra le popolazioni che decimarono. I Tedeschi uccisero 6 milioni di Ebrei e 20 milioni di Russi [vale a dire cittadini sovietici]; i Giapponesi sterminarono fino a 30 milioni fra Coreani, Filippini, Malesi, Vietnamiti, Cambogiani, Indonesiani e Birmani e almeno 23 milioni di loro erano di etnia cinese. Entrambe le nazioni saccheggiarono i paesi conquistati su scala monumentale, anche se il Giappone saccheggiò maggiormente nel corso di un periodo più lungo rispetto ai nazisti. Entrambi i conquistatori schiavizzarono milioni di persone e li misero ai lavori forzati, e nel caso dei giapponesi, anche come prostitute per le truppe in prima linea. Se fossi stato un prigioniero di guerra dei Tedeschi (Britannico, Americano, Australiano, Neozelandese o Canadese, ma non Russo) avresti avuto una probabilità del 4% di non sopravvivere alla guerra; il tasso di mortalità dei prigionieri di guerra dei Giapponesi fu invece quasi del 30%.»
Internati nel campo di concentramento italiano di El Agheila.
 
Secondo le conclusioni del tribunale di Tokyo, il tasso di mortalità fra i prigionieri di guerra provenienti dai paesi asiatici, inflitto dal Giappone, fu del 27.1%.[6] Il tasso di mortalità dei prigionieri di guerra cinesi era molto più alto perché ai sensi di una direttiva ratificata il 5 agosto 1937 dall'Imperatore Hirohito, i vincoli del diritto internazionale in materia di trattamento dei prigionieri di guerra furono rimossi.[7] Solo 56 prigionieri di guerra cinesi furono rilasciati dopo la Resa del Giappone.[8] Dopo il 20 marzo 1943, la marina giapponese aveva l'ordine di rilasciare tutti i prigionieri di guerra del mare.
L'impiccagione di Omar al Muktar a Soluk il 16 settembre 1931.
Il 20 giugno 1930, il governatore unico della Tripolitania e della Cirenaica, maresciallo Pietro Badoglio, dispose l'evacuazione forzata della popolazione della Cirenaica, per la quale circa centomila persone furono costrette a lasciare tutti i propri beni portando con sé soltanto il bestiame:[12]
 
Attacchi a Pearl Harbor, Malesia, Singapore e Hong Kong
«Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.»
 
La USS Arizona (BB-39) brucia durante l'attacco giapponese a Pearl Harbor.
(Pietro Badoglio, 20 giugno 1930[13][14])
L'articolo 1 della Convenzione dell'Aia del 1907 III-L'apertura delle ostilità vietava l'apertura di ostilità contro potenze neutrali "senza precedente ed esplicito avvertimento, sotto forma sia di una motivata Dichiarazione di guerra o di un Ultimatum con la dichiarazione condizionale della guerra" e l'articolo 2 inoltre dichiarava che "l'esistenza di uno stato di guerra deve essere comunicata alle potenze neutrali senza indugio, e non avrà effetto nei loro confronti fino a dopo la ricezione della notifica, che può, però essere data dal telegrafo." I diplomatici giapponesi avrebbero dovuto fornire la comunicazione agli Stati Uniti trenta minuti prima dell'attacco di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, ma venne consegnato al governo statunitense un'ora dopo che l'attacco era finito. Tokyo trasmise la notifica di 5.000 parole (comunemente chiamato il "14-Part Message") in due blocchi per l'ambasciata giapponese a Washington, ma la trascrizione del messaggio impiegò troppo tempo per l'ambasciatore giapponese da consegnare in tempo. Il "14-Part Message" in realtà era l'invio di un messaggio dei funzionari degli Stati Uniti che affermavano che i negoziati di pace tra il Giappone e gli Stati Uniti fossero al momento suscettibili a essere terminati, non una dichiarazione di guerra. In realtà, i funzionari giapponesi erano ben consapevoli del fatto che il "14-Part Message" non era una vera e propria dichiarazione di guerra, come richiesto dalla Convenzione dell'Aia del 1907 III-L'apertura delle ostilità. Essi decisero di non rilasciare opportune dichiarazioni di guerra in quanto temevano che così facendo avrebbero esposto la possibile perdita del funzionamento segreto agli americani. Alcuni teorici delle cospirazioni accusarono che il presidente Franklin Delano Roosevelt avesse acconsentito di buon grado all'attacco al fine di cercare un pretesto per la guerra, ma nessuna prova credibile sostiene tale affermazione. Il giorno dopo l'attacco a Pearl Harbor, il Giappone dichiarò guerra agli Stati Uniti e gli Stati Uniti dichiararono guerra al Giappone in risposta lo stesso giorno.
Mussolini approvò e nei mesi seguenti Graziani procedette a deportare tutta la popolazione del Gebel in campi di concentramento siti tra le pendici del Gebel e la costa. Le ragioni delle deportazioni vengono da taluni ricollegate alla ripopolazione del Gebel da parte di coloni italiani, mentre Rodolfo Graziani le giustificò con la necessità di mettere fine alla ribellione senussita.[15]
 
In contemporanea con il bombardamento di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941 (ora di Honolulu), il Giappone invase le colonie britanniche di Malesia e bombardò Singapore e Hong Kong, senza una dichiarazione di guerra o un ultimatum. Sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna erano neutrali quando il Giappone attaccò i loro territori senza esplicito avvertimento di uno stato di guerra.
Dal 1930 al 1931 le forze italiane scatenarono un'ondata di terrore sulla popolazione indigena cirenaica; tra il 1930 e il 1931 furono giustiziati 12 000 cirenaici e tutta la popolazione nomade della Cirenaica settentrionale fu deportata in enormi campi di concentramento lungo la costa desertica della Sirte, in condizione di sovraffollamento, sottoalimentazione e mancanza di igiene.[16] Nel giugno 1930, le autorità militari italiane organizzarono la migrazione forzata e deportazione dell'intera popolazione del Gebel al Akhdar, in Cirenaica, e ciò comportò l'espulsione di quasi 100 000 beduini (una piccola parte era riuscita a fuggire in Egitto)[16] - metà della popolazione della Cirenaica - dai loro insediamenti, che furono assegnati a coloni italiani.[17][18] Queste 100 000 persone, in massima parte donne, bambini e anziani, furono costretti dalle autorità italiane a una marcia forzata di oltre mille chilometri nel deserto verso una serie di campi di concentramento circondati di filo spinato costruiti nei pressi di Bengasi. Le persone furono falcidiate dalla sete e dalla fame; gli sciagurati ritardatari che non riuscivano a tenere il passo con la marcia venivano fucilati sul posto dagli italiani. Tra i vari episodi di crudeltà si cita l'abbandono di molti indigeni, tra cui donne e bambini, nel deserto privi di acqua a causa di vari dissidi; altri morti per fustigazioni e fatica. Fonti straniere, non censurate dal governo italiano e mostrate anche nel film Il leone del deserto, mostrano riprese aeree, fotogrammi e immagini dei campi per il concentramento dei deportati, in cui i deportati venivano internati senza alcun'assistenza o sussidio. Le esecuzioni sommarie erano all'ordine del giorno per chi si mostrava ostile o cercava di ribellarsi alla situazione.[19]
 
Come le vittime dei bombardamenti di Beirut del 1983, dei bombardamenti delle Khobar Towers del 1996, gli Attentati alle ambasciate statunitensi del 1998 in Africa orientale, l'Attentato allo USS Cole e gli Attentati dell'11 settembre 2001, gli Stati Uniti ufficialmente classificarono tutte le 3.649 vittime fra civili e militari e la distruzione della proprietà militare di Pearl Harbor come non combattenti in quanto non c'era uno stato di guerra tra il Giappone e gli Stati Uniti quando si verificò l'attacco. Joseph B. Keenan, il procuratore capo del processo di Tokyo disse che l'attacco a Pearl Harbor non solo accadde senza una dichiarazione di guerra, ma fu anche un atto infido e ingannevole. In realtà, il Giappone e gli Stati Uniti stavano ancora negoziando per un possibile accordo di pace che mantenne i funzionari degli Stati Uniti molto distratti quando gli aerei giapponesi bombardarono Pearl Harbor. Keenan spiegò la definizione di una guerra di aggressione e la criminalità dell'attacco di Pearl Harbor: "Il concetto di guerra di aggressione non può essere espresso con la precisione di una formula scientifica, o descritte come i dati oggettivi delle scienze fisiche. La guerra aggressiva non è del tutto un fatto fisico da osservare e definire come il funzionamento delle leggi della materia. Si tratta piuttosto di un'attività che comporta l'ingiustizia tra le nazioni, l'aumento del livello della criminalità a causa dei suoi effetti disastrosi sul bene comune della società internazionale. L'ingiustizia di una guerra di aggressione è penale dei propri incassi estremi, considerati sia dal punto di vista della volontà dell'aggressore di infliggere lesioni e dagli effetti del male che ne derivano... la guerra ingiusta è chiaramente un reato e non una semplice illecita violazione dei contratti. L'atto comprende la distruzione intenzionale e irragionevole della vita, l'incolumità fisica e la proprietà, oggetto che è considerato criminale dalle leggi di tutti i popoli civili... L'attacco a Pearl Harbor violò il Patto Kellogg-Briand e della Convenzione dell'Aia III. Inoltre violò l'articolo 23 dell'allegato alla Convenzione dell'Aia IV dell'ottobre 1907... Ma l'attacco di Pearl Harbor non solo finì in omicidi e nel massacro di migliaia di esseri umani, non ha eventuali nella distruzione di proprietà. È stato un atto definitivo a minare e distruggere la speranza di un mondo di pace. Quando una nazione si avvale dell'inganno e del tradimento, con periodi di trattative e gli stessi negoziati come un mantello a programmare un attacco perfido, poi c'è un ottimo esempio del crimine di tutti i crimini".
La massa dei deportati fu rinchiusa dalle truppe agli ordini di Graziani, in tredici campi di concentramento nella regione centrale della Libia, ove, in base alle cifre ufficiali furono reclusi 90 761 civili.[20] La propaganda del regime fascista dichiarava che i campi erano oasi di moderna civilizzazione gestite in modo igienico ed efficiente - mentre nella realtà i campi avevano condizioni sanitarie precarie avendo una media di 20 000 beduini internati insieme ai propri cammelli o altri animali, ammassati in un'area di un chilometro quadrato. I campi avevano solo rudimentali servizi medici: per i 33 000 reclusi nei campi di Soluch e di Sidi Ahmed el-Magrun c'era un solo medico. Il tifo e altre malattie si diffusero rapidamente nei campi, anche perché i deportati erano fisicamente indeboliti dalle insufficienti razioni alimentari e dal lavoro forzato. La loro unica ricchezza, il bestiame, fu radicalmente distrutto; perirono il 90-95% degli ovini e l'80% dei cavalli e dei cammelli della Cirenaica.[16] Quando i campi vennero chiusi nel settembre 1933, erano morti 40 000 persone.[21]
 
L'ammiraglio Isoroku Yamamoto, che progettò l'Attacco a Pearl Harbor, era pienamente consapevole del fatto che se il Giappone avesse perso la guerra, sarebbe stato processato come criminale di guerra per quell'attacco (anche se venne ucciso dagli United States Air Force nell'Operazione vendetta del 1943). Al processo di Tokyo, il primo ministro Hideki Tōjō, Shigenori Tōgō (l'allora ministro degli esteri), Shigetarō Shimada (il ministro della marina) e Osami Nagano (il capo di stato maggiore dalla Marina), vennero accusati di crimini contro la pace (oneri dal 1 al 36) e di Omicidio (oneri dal 37 al 52) in connessione con l'attacco a Pearl Harbor. Insieme con i Crimini di guerra e i Crimini contro l'umanità (oneri dal 53 al 55), Tojo fu tra i sette dirigenti giapponesi condannati a morte e giustiziati tramite Impiccagione nel 1948, Shigenori Togo ricevette una condanna di 20 anni, Shimada ricevette una condanna a vita e Nagano morì per cause naturali durante il processo del 1947.
La popolazione della Cirenaica, che in base al censimento turco del 1911 contava 198 300 abitanti, scese a 142 000 secondo i dati del censimento del 21 aprile 1931. Il saldo negativo del 28,6% in vent'anni, secondo alcuni, sarebbe correlabile con un genocidio.[22] Il dato non tiene conto però delle deportazioni del 1929, che spostarono diverse decine di migliaia di persone verso le regioni centrali.
 
Nel corso degli anni, molti nazionalisti giapponesi sostennero che l'attacco a Pearl Harbor era giustificato in quanto agirono per Autodifesa in risposta all'Embargo petrolifero imposto dagli Stati Uniti. La maggior parte degli storici e studiosi concordano sul fatto che l'embargo petrolifero non poteva essere utilizzato come giustificazione per l'uso della forza militare contro una nazione straniera che impone l'embargo del petrolio perché c'è una netta distinzione tra la percezione che qualcosa è essenziale per il benessere dello Stato-nazione e una minaccia che è veramente sufficientemente grave da giustificare un atto di forza in risposta, che il Giappone non riuscì a prendere in considerazione. Uno studioso e diplomatico giapponese, Takeo Iguchi, afferma che è "difficile dal punto di vista del diritto internazionale, che l'esercizio del diritto di autodifesa contro pressioni economiche è considerato valido". Mentre il Giappone ritenne che i suoi sogni di ulteriore espansione sarebbero stati portati a una brusca frenata dall'embargo americano, questo "bisogno" non poteva essere considerato proporzionale con la distruzione subita dalla United States Pacific Fleet a Pearl Harbor, previsto dai pianificatori militari giapponesi per essere esauriente il più possibile.
Il quadro che emerge dalle incomplete cifre dei censimenti delle altre regioni è analogo: il censimento turco del 1911 – infatti – enumerava 523 000 abitanti nella sola Tripolitania; la stima italiana del 1921 faceva ascendere a 570 000 la popolazione araba della Tripolitania e del Fezzan che, il censimento del 1931 calcolava in soli 512 900 arabi[23]. Ciò significherebbe che, al lordo degli spostamenti suddetti, in soli dieci anni, anche la popolazione delle altre due province era scesa di circa il 10%.
 
Uccisioni di massa
Nonostante la censura imposta dal regime, i crimini commessi dagli italiani in Libia erano ben noti, e la stampa, soprattutto araba, non mancava di commentarli con articoli particolarmente severi. Ma anche la stampa europea esprimeva forti denunce. Si veda, per esempio, il lead di un articolo apparso il 26 settembre 1931 sul quotidiano di Sarajevo, Jugoslavenski List:
«Già da tre anni il generale Graziani, con inaudita ferocia, distrugge la popolazione araba per far posto ai coloni italiani. Sebbene anche altri popoli non abbiano operato coi guanti contro i ribelli nelle loro colonie, la colonizzazione italiana ha battuto un record sanguinoso.[24]»
 
Soldati giapponesi sparano contro prigionieri bendati Sikh. La fotografia venne trovata fra i record giapponesi quando le truppe britanniche entrarono a Singapore.
Guerra d'Etiopia
Rudolph Joseph Rummel, professore di scienze politiche presso l'Università delle Hawaii, stima che tra il 1937 e il 1945, l'esercito giapponese uccise dai 3 a oltre 10 milioni di persone, molto probabilmente 6 milioni di cinesi, taiwanesi, singaporeani, malesi, indonesiani, coreani, filippini e indocinesi, tra gli altri, compresi prigionieri di guerra occidentali. Secondo Rummel, "Questo democidio [cioè, la morte del governo] è dovuto a una strategia politica e militare di bancarotta morale, convenienza militare e personalizzata e la cultura nazionale". Secondo Rummel, solo in Cina, durante il 1937-1945, circa 3,9 milioni di cinesi vennero uccisi, la maggior parte civili, come risultato diretto delle operazioni giapponesi e 10,2 milioni nel corso della guerra. L'incidente più famoso durante questo periodo fu il Massacro di Nanchino del 1937-1938, quando, secondo le conclusioni del Tribunale Militare Internazionale per l'Estremo Oriente, l'esercito giapponese massacrò ben 300.000 civili e prigionieri di guerra, anche se la cifra accettata è qualche centinaia di migliaia.
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra d'Etiopia.
Le operazioni di guerra e l'uso delle armi chimiche
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Motivo: In questa sezione le atrocità attribuite agli italiani (senza peraltro fornire una pietra di paragone per comprenderne l'entità reale, ad esempio la concentrazione di aggressivi per kilometro quadrato di campo di battaglia necessario per capire se esso sia stato veramente efficace e mortifero, o il paragone con l'impiego durante la Grande Guerra) vengono riferite come fatti acclarati, mentre per le atrocità commesse dagli abissini si evidenzia che si tratta di opinioni di autori terzi. Inoltre si tende a sottolineare una presunta malafede italiana nell'uso delle armi chimiche come rappresaglia ad analoghe infrazioni abissine delle convenzioni internazionali. Infine, non si dà alcun resoconto dello stato dell'adesione, sottoscrizione e ratifica italiana e abissina alle varie convenzioni internazionali che regolavano l'uso di determinate armi e che determinavano l'esistenza di reciprocità o meno fra i due Stati in guerra
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Durante la Seconda guerra sino-giapponese, i giapponesi seguirono quella che venne definita come una "politica di abbattimento", anche contro le minoranze degli Hui mussulmani in Cina. Secondo Wan lei, "In un villaggio Hui nella contea di Hebei, i giapponesi catturarono venti uomini Hui fra i quali vennero impostati gratuitamente solo due uomini più giovani verso la "redenzione" e vennero sepolti vivi fra i diciotto uomini Hui. Nel villaggio di Habei, i giapponesi uccisero più di 1.300 persone Hui entro tre anni dalla loro occupazione di quella zona". Le moschee furono profanate e distrutte dai giapponesi, e i cimiteri Hui vennero distrutti. Molti cinesi mussulmani Hui combatterono nella seconda guerra sino-giapponese nella guerra contro il Giappone.
Pietro Badoglio in Africa orientale durante la Guerra d'Etiopia. Badoglio venne inserito nella lista dei criminali di guerra dell'ONU su richiesta dell'Etiopia ma non venne mai processato.
 
Nel sud-est asiatico, la Strage di Manila del febbraio 1945 provocò la morte di 10.000 civili nelle Filippine. Si stima che almeno uno ogni 20 filippini siano morti per mano dei giapponesi durante l'occupazione. Nel Singapore, nel mese di febbraio e marzo 1942, la Strage di Sook Ching era una sistematica di Genocidio di elementi ostili percepiti tra la popolazione cinese residente. Lee Kuan Yew, l'ex primo ministro di Singapore, disse durante un'intervista con il National Geographic Magazine che ci furono fra le 50.000 e le 90.000 vittime, mentre secondo il generale Kawamura Saburo, ci furono 5.000 morti in totale.
Rodolfo Graziani, soprannominato dagli arabi "Il macellaio di Fezzan",[25] venne inserito dall'ONU, su richiesta dell'Etiopia, nella lista dei criminali di guerra per l'uso di gas tossici e bombardamenti degli ospedali della Croce Rossa, ma non venne mai processato.
Per la conduzione della guerra coloniale in Etiopia, furono segretamente sbarcati in Eritrea 270 tonnellate di aggressivi chimici per l'impiego ravvicinato, 1 000 tonnellate di bombe caricate ad iprite per l'aeronautica e 60 000 granate caricate ad arsine per l'artiglieria.[26] La prima autorizzazione al loro uso fu espressa da Mussolini al generale Graziani, comandante sul fronte somalo-etiope, il 27 ottobre 1935: “come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico o in caso di contrattacco”[27]. In tale occasione, peraltro, il loro uso non fu ritenuto necessario.
 
Ci furono altri massacri di civili, ad esempio, la Strage di Kalagong. In tempo di guerra del sud-est asiatico, i Cinesi d'oltremare e la Diaspora europea erano bersagli speciali degli abusi giapponesi; nel primo caso, motivato da un Complesso di inferiorità nei confronti della discesa storica e dell'influenza della Cultura cinese che non esisteva con gli indigeni del sud-est asiatico, e il secondo, motivato da un razzista Panasianismo e il desiderio di mostrare agli ex soggetti coloniali l'impotenza dei loro padroni occidentali. I giapponesi giustiziarono tutti i sultani malesi nel Kalimantan e spazzarono via l'élite malese nel incidente di Pontianak. Nella rivolta di Jesselton, i giapponesi massacrarono migliaia di civili indigeni durante l'Occupazione giapponese del Borneo e spazzarono via quasi l'intera popolazione Tausug delle isole costiere. Durante l'Occupazione giapponese delle Filippine, quando un Moro lanciò un attacco suicida contro i giapponesi, i giapponesi avrebbero massacrato l'intera famiglia o villaggio dell'uomo.
Il 28 novembre assunse il comando generale dell'offensiva in Etiopia il maresciallo Pietro Badoglio. Quest'ultimo, investito da una forte controffensiva etiopica, nella notte tra il 14 e il 15 dicembre, richiese espressamente a Roma l'autorizzazione ad utilizzare gli aggressivi chimici.[28] I documenti pubblicati dimostrano che Mussolini in persona autorizzò espressamente Badoglio all'uso dei gas tra il 28 dicembre 1935 e il 5 gennaio 1936 e tra il 19 gennaio e il 10 aprile.[27][29] Un'ulteriore autorizzazione fu successivamente data per la repressione dei ribelli. Il Maresciallo tuttavia, aveva già iniziato autonomamente l'uso delle armi chimiche sin dal 22 dicembre 1935 e non l'aveva interrotta nemmeno tra il 5 e il 19 gennaio 1936.[30] Tra le suddette date furono lanciati sul fronte nord duemila quintali di bombe, per una parte rilevante caricate a gas, tra cui l'iprite che provoca leucopenia.
 
Lo storico Mitsuyoshi Himeta riferisce che la Politica dei tre assi (Sanko Sakusen) venne realizzata in Cina nel 1942-1945 ed era in sé responsabile della morte di "più di 2,7 milioni di civili cinesi". Questa Terra bruciata, sanzionata da Hirohito stesso, diresse le forze giapponesi a "uccidere tutti, bruciare tutto, e distruggere tutto". Inoltre, militari alleati e civili catturati vennero massacrati in diversi incidenti, tra cui:
Contravvenendo al Protocollo di Ginevra del 17 giugno 1925, sottoscritto anche dall'Italia per cui entrava in vigore il 3 aprile 1928,[31] all'aviazione italiana fu quindi ordinato di utilizzare su larga scala il gas, che, irrorato dagli aerei in volo a bassa quota, sia sui soldati che sui civili, venne usato con la precisa finalità di terrorizzare la popolazione abissina e piegarne ogni resistenza.[senza fonte]
 
Battaglia di Singapore
Il 15 dicembre, anche Graziani richiedeva di nuovo al Capo del governo l'autorizzazione all'uso delle armi chimiche. Il comandante ciociaro fu autorizzato “per supreme ragioni di difesa”. L'uso fu effettuato a partire dal 24 dicembre sulla località di Areri, presidiata da Ras Destà, da parte di tre aerei Caproni 101 bis. Gli attacchi furono ripetuti in date 25, 28, 30 e 31 dicembre, per un totale di 125 bombe complessivamente lanciate.[32]
Massacro di Laha
Massacro di Banko
Massacro di Paris Sulong
Strage di Bear
SS Tjisalak, massacro perpetrato dal Sottomarino giapponese I-8
Massacro di Wake Island
Massacro di Tinta
Marcia della morte di Bataan
Incidente di Shinyo Maru
Massacro di Sulug Island
Incidente di Pontianak
Sperimentazione umana e guerra biologica
 
Shirō Ishii, comandante dell'Unità 731.
Il 26 dicembre, sul fronte sud, avvenne la brutale uccisione dell'aviatore Tito Minniti che, caduto in territorio nemico, era stato torturato, evirato ed infine decapitato. Questa sarebbe stata la causa scatenante dell'utilizzo dell'iprite anche su tale fronte. Ras Destà, tra l’altro, per giustificare all'imperatore la sconfitta subita, dichiarò l'impiego dei gas, anticipandolo al 17 dicembre: “Dal 17 dicembre gli italiani gettano anche bombe a gas, le quali piovono come la grandine... Le lesioni, anche leggere, prodotte da tale gas gonfiano sempre più sino a diventare, per infezioni delle grandi piaghe”.[senza fonte]
Unità militari speciali giapponesi condussero esperimenti sui civili e sui prigionieri di guerra in Cina. Una delle più famose era l'Unità 731 sotto Shirō Ishii. L'Unità 731 era stata istituita per ordine di Hirohito stesso. Le vittime vennero sottoposte ad esperimenti, tra cui, vivisezione e amputazioni senza anestesia e la sperimentazione di armi biologiche. L'anestesia non venne utilizzata perché si credeva che gli anestetici avrebbero influenzato negativamente i risultati degli esperimenti. Per determinare il trattamento di congelamento, i prigionieri vennero portati fuori dal gelo e lasciati con le braccia a vista, periodicamente inzuppati con acqua fino al congelamento. Il braccio veniva poi amputato; il medico avrebbe ripetuto il processo sul braccio della vittima alla spalla. Dopo che entrambe le braccia non c'erano più, i medici passavano verso le gambe fino a che rimanevano solo la testa e il tronco. La vittima veniva poi utilizzata per esperimenti sulla peste e gli agenti patogeni. Secondo una stima, solo gli esperimenti effettuati dall'Unità 731 avrebbero causato 3.000 morti. Inoltre secondo l'International Symposium on the Crimes of Bacteriological Warfare del 2002, il numero di persone uccise dalla guerra batteriologica e dagli esperimenti umani dell'esercito imperiale giapponese è di circa 580.000. Secondo altre fonti, "decine di migliaia, e forse fino a 400.000 cinesi morirono di Peste bubbonica, Colera, Antrace e altre malattie...", derivate dall'utilizzo della guerra biologica. Gli alti ufficiali dell'Unità 731 non furono perseguitati per crimini di guerra, dopo la guerra, in cambio della concessione dei risultati delle loro ricerche agli Alleati. Essi assunsero anche, secondo quanto riferito, posizioni di responsabilità nel settore farmaceutico giapponese, scuole di medicina e nel Ministero della salute.
 
Un caso di sperimentazione umana si verificò nel Giappone stesso. Almeno 9 su 11 membri dell'equipaggio sopravvissuti allo schianto di un Bombardiere Boeing B-29 Superfortress dell'United States Army Air Forces nel Kyūshū il 5 maggio 1945 (questo aereo era comandato dal tenente Marvin Watkins del "29th Bomb Group of the 6th Bomb Squadron"). Il comandante del bombardiere venne separato dal suo equipaggio e inviato a Tokyo per l'interrogatorio, mentre gli altri sopravvissuti vennero portati al reparto anatomia della Kyushu University a Fukuoka, dove vennero sottoposti a vivisezione o uccisi.
Il 30 dicembre 1935, in un bombardamento italiano a Malca Dida, ordinato da Graziani, fu colpito un ospedale da campo svedese con i contrassegni della Croce Rossa provocando la morte di 28 ricoverati e di un medico svedese.[33] Complessivamente, saranno diciassette le installazioni mediche distrutte dagli italiani, compresi gli ospedali da campo di Amba Aradam e di Quoram.[34]
 
Durante gli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale, il Giappone aveva previsto di utilizzare la peste come arma biologica contro i civili statunitensi di San Diego in California durante l'Operazione Cherry Blossoms di notte, sperando che la peste avrebbe diffuso tanto terrore per la popolazione americana, e quindi dissuadere l'America dall'attaccare il Giappone. Il piano venne fissato per la notte del 22 settembre 1945, ma il Giappone si arrese cinque settimane prima.
Il 10 febbraio 1936, Badoglio iniziò l'offensiva sull'Amba Aradam durante la quale vennero sparate 1 367 granate caricate con arsine.[26]
 
L'11 marzo 1948, 30 persone, fra cui diversi medici e un'infermiera di sesso femminile, vennero portati in giudizio da parte del Tribunale dei crimini di guerra degli Alleati. Le accuse di cannibalismo caddero, ma 23 persone vennero giudicate colpevoli di vivisezione o trasferimento illecito di parti dal corpo. Cinque vennero condannati a morte, quattro all'ergastolo, e il resto in pene più brevi. Nel 1950, il governatore militare del Giappone, il generale Douglas MacArthur, commutò tutte le condanne a morte e significativamente ridusse la maggior parte delle pene detentive. Tutti i condannati in relazione alla vivisezione era liberi dopo il 1958. Inoltre, molti medici che furono responsabili di queste vivisezioni non furono mai accusati dagli americani o dai loro alleati in cambio di informazioni sugli esperimenti.
Il 3 e 4 marzo, Badoglio, vedendo fuggire il grosso dell'esercito del ras Immirù verso i guadi del Tacazzè, ordinò all'aviazione di proseguire da sola la battaglia. Verrà così utilizzata ancora una volta iprite. I piloti scesi a volo radente per mitragliare i superstiti rilevarono notevoli masse nemiche abbattute e grande quantità di uomini e di quadrupedi trasportati dalla corrente.[senza fonte]
 
Nel 2006, l'ex ufficiale medico IJN Akira Makino dichiarò che gli era stato ordinato, come parte della sua formazione, svolgere la vivisezione su circa 30 prigionieri civili nelle Filippine tra il dicembre 1944 e il febbraio 1945. L'intervento comprendeva le amputazioni. La maggior parte delle vittime di Makino erano mussulmani Moro. Ken Yuasa, un ex medico militare in Cina, ammise anche di incidenti simili a cui fu costretto a partecipare.
Il 4 aprile, gli scampati alla battaglia di Mau Ceu furono bombardati con 700 quintali di bombe, di cui molte ad iprite.[senza fonte]
 
Uso di armi chimiche
Il 15 aprile Graziani diede inizio all'offensiva su Harar dopo aver gasato e bombardato per un mese la difesa etiope iniziando così l'attacco da terra. Il vescovo cattolico di Harar scrisse ai suoi superiori in Francia: "Il bombardamento che gli italiani hanno fatto contro la città è un atto barbaro che merita la maledizione del Cielo".[senza fonte]
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Attacco chimico di Changde.
Secondo gli storici Yoshiaki Yoshimi e Kentaro Awaya, durante la Seconda guerra sino-giapponese, armi a gas, come Gas lacrimogeni, vennero utilizzate solo sporadicamente nel 1937, ma nei primi mesi del 1938 l'esercito imperiale giapponese iniziò l'uso su vasca scala di Fosgene, Cloro, Lewisite e Cloropicrina (rosso), e da metà 1939, Iprite (giallo) venne utilizzato sia contro il Kuomintang che contro le truppe cinesi comuniste.
 
Secondo Yoshimi e Seiya Matsuno, l'imperatore Hirohito firmò gli ordini che specificavano l'uso di armi chimiche in Cina. Ad esempio, durante la Battaglia di Wuhan da agosto a ottobre 1938, l'imperatore autorizzò l'uso di armi chimiche in 375 occasioni, nonostante la Convenzione dell'Aia (1899) IV, 2 Dichiarazione sull'uso dei proiettili il cui obiettivo è la diffusione di gas asfissianti o indelebili e l'articolo 23(a), della Convenzione dell'Aia (1907) IV- Le leggi e gli usi della guerra di terra. Una risoluzione adottata dalla Lega delle Nazioni il 14 maggio condannò l'uso di gas tossici da parte del Giappone.
Secondo Indro Montanelli, Regno Unito e Svezia vendettero in modo continuativo agli abissini proiettili dum dum, vietati dalle convenzioni.[senza fonte]
 
Un altro esempio è la Battaglia di Yichang nel mese di ottobre del 1941, durante il quale il "19º Reggimento Artiglieria" aiutò la "13ª Brigata" della IJA 11th Army lanciano 1.000 proiettili a gas gialli e 1.500 proiettili a gas rossi alle forze cinesi. La zona era affollata di civili cinesi non in grado di evacuare. Circa 3.000 soldati cinesi erano nella zona e 1.600 vennero colpiti. Il rapporto giapponese dichiarò che "l'effetto del gas sembra considerevole".
Lo storico fascista britannico James Strachey Barnes sostenne, sui mezzi di informazione dell'epoca, che, per quanto riguardava l'uso dell'iprite, gli italiani "lo fecero legalmente quando gli abissini violarono altre convenzioni: l'evirazione dei prigionieri, l'impiego delle pallottole esplosive e l'abuso del simbolo della Croce Rossa".[35]
 
Nel 2004, Yoshimi Tanaka e Yuki Tanaka scoprirono negli archivi dei documenti nazionali australiani che il Cianuro di gas veniva testato sui prigionieri australiani e olandesi nel novembre 1944 nelle Isole Kai (Indonesia).
Il 3 maggio 1936 Mussolini telegrafava a Badoglio:
 
Tortura dei prigionieri di guerra
«Occupata Addis Abeba V.E. darà ordini perché: 1° siano fucilati sommariamente tutti coloro che in città aut dintorni siano sorpresi colle armi alla mano. 2° siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani etiopi, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi. 3° siano fucilati quanti abbiano partecipato a violenze, saccheggi incendi. 4° siano sommariamente fucilati quanti trascorse 24 ore non abbiano consegnato armi da fuoco e munizioni. Attendo una parola che confermi che questi ordini saranno - come sempre - eseguiti.[27]»
 
Un prigioniero di guerra australiano, il sergente Leonard Sifflet, catturato in Nuova Guinea, sta per essere decapitato da un ufficiale giapponese con un Gunto nel 1943.
Due giorni dopo il maresciallo Badoglio entrava in Addis Abeba e il 9 maggio successivo, dal balcone di Piazza Venezia, Mussolini poté annunciare alle folle la "proclamazione dell'Impero".
Le forze imperiali giapponesi impiegarono un utilizzo diffuso della tortura sui prigionieri, in genere, nel tentativo di raccogliere rapidamente informazioni militari. I prigionieri catturati venivano spesso giustiziati in seguito. Un ex ufficiale dell'esercito giapponese che servì in Cina, Uno Shintaro, dichiarò: "I principali mezzi per ottenere intelligence è quello estrarre informazioni interrogando i prigionieri. La tortura era una necessità inevitabile. Assassinare e seppellire seguiva naturalmente. Lo fai in modo da non essere scoperto. Ho creduto e agito in questo modo perché ero convinto di quello che stavo facendo. Abbiamo svolto il nostro dovere come indicato dai nostri maestri. Lo abbiamo fatto per il bene del nostro paese. Dal nostro impegno filiale ai nostri antenati. Sul campo di battaglia, non abbiamo mai considerato i cinesi esseri umani. Quando stai vincendo, i perdenti sembrano davvero infelici. Abbiamo concluso che il Popolo Yamato [cioè, i giapponesi] era superiore".
 
L'efficacia della tortura, potrebbe essere stata controproducente per lo sforzo di guerra del Giappone. Dopo il Bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki durante la Seconda guerra mondiale, l'esercito giapponese torturò un pilota di caccia P-51 Mustang catturato di nome Marcus McDilda per scoprire quante armi nucleari gli Alleati avevano e quali erano gli obiettivi futuri. McDilda che non sapeva nulla né della Bomba atomica né del Progetto Manhattan, "confessò" sotto tortura che gli Stati Uniti avevano 100 bombe atomiche e che Tokyo e Kyoto sarebbero state i prossimi obiettivi. La falsa confessione di McDilda potrebbe aver indotto la decisione dei leader giapponesi alla resa.
Repressioni in Africa Orientale Italiana dopo la proclamazione dell'Impero
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Strage di Addis Abeba e Massacro di Debra Libanos.
Dopo la proclamazione dell'Impero, il maresciallo Badoglio fu richiamato in Italia e passò le consegne a Graziani, nel frattempo promosso Maresciallo d'Italia. Il 20 maggio 1936, l'ufficiale ciociaro fu investito del triplice incarico di viceré, governatore generale e comandante superiore delle truppe.
 
Esecuzione e uccisione di aviatori alleati catturati
Rispettivamente in data 5 giugno e 8 luglio 1936, Mussolini telegrafò a Graziani, dal Ministero delle Colonie, i seguenti ordini: «Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi» e «Autorizzo ancora una volta V.E. a iniziare e condurre sistematicamente politica del terrore et dello sterminio contro i ribelli et le popolazioni complici stop. Senza la legge del taglione ad decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma».[27][36]
 
Un Raider Doolittle bendato fatto prigioniero nel 1942.
Il 19 febbraio 1937 il viceré Graziani invitava nel suo palazzo di Addis Abeba la nobiltà etiope per festeggiare la nascita del principe di Napoli e per l'occasione decideva di distribuire una elemosina a invalidi del luogo. Ma un fallito attentato al viceré (nove morti e una cinquantina di feriti, tra cui lo stesso Graziani), scatenò immediatamente la rappresaglia, da parte degli occupanti italiani.[37]
Molti aviatori alleati catturati dai giapponesi in terra o in mare vennero giustiziati in conformità con la politica ufficiale giapponese. Durante la battaglia delle Midway nel giugno del 1942, tre aviatori americani che erano stati abbattuti e discesi in mare vennero avvistati e catturati dalle navi da guerra giapponesi. Dopo brevi interrogatori, due aviatori vennero uccisi, i loro corpi poi legati a cinque lattoni di cherosene pieni d'acqua e gettati fuori bordo dal cacciatorpediniere Makigumo; il terzo venne ucciso e il suo corpo venne scaricato in mare dall'altro cacciatorpediniere Arashi.
 
Il 13 agosto 1942, il Giappone varò la Legge degli aviatori nemici, che dichiarava che i piloti alleati bombardavano obiettivi non militari nel Teatro del Pacifico e vennero catturati a terra o in mare da parte delle forze giapponesi fossero oggetti di giudizio e condanna, nonostante l'assenza di qualsiasi diritto internazionale contenente disposizioni in materia di guerra aerea. Questa legislazione venne approvata in risposta all'Incursione aerea su Tokyo, avvenuta il 18 aprile 1942, in cui i bombardieri americani B-25 Mitchell sotto il comando del tenente colonnello Jimmy Doolittle bombardarono Tokyo e altre città giapponesi. Secondo la convenzione dell'Aia del 1907 (l'unica convenzione che il Giappone ratificò quanto riguardava il trattamento dei prigionieri di guerra), tutto il personale militare catturato in terra o in mare da parte delle truppe nemiche doveva essere trattato come prigioniero di guerra e non punito per essere semplicemente un legittimo combattente. Otto incursori aerei catturati al momento dello sbarco in Cina (e a conoscenza dell'esistenza della legge di "The Enemy Airmen") furono i primi membri di equipaggi alleati ad essere portati davanti a un Tribunale canguro a Shanghai ai sensi della legge, accusati di presunto (ma non dimostrato) bombardamento sui civili giapponesi durante l'incursione aerea. Gli otto avieri vennero privati di qualsiasi difesa e, nonostante la mancanza di prove legittime, vennero trovati colpevoli di partecipare a operazioni militari aeree contro il Giappone. Cinque delle otto sentenze vennero commutate in ergastolo; gli altri tre piloti vennero portati in un cimitero fuori Shanghai, dove vennero fucilati il 14 ottobre 1942.
Il giornalista Ciro Poggiali affermò:
 
L'applicazione della legge sugli "aviatori nemici" contribuì alla morte di centinaia di aviatori alleati durante la Guerra del Pacifico. Si stima che circa 132 aviatori alleati abbattuti durante i Raid aerei sul Giappone nel 1944-1945 vennero sommariamente giustiziati dopo brevi processi canguro o Corti marziali. I militari giapponesi imperiali deliberatamente uccisero 33 aviatori americani a Fukuoka, tra cui uno di quindici anni[senza fonte], che vennero decapitati poco dopo l'intenzione del governo di annunciare la resa il 15 agosto 1945. Alcuni civili uccisero anche loro alcuni aviatori alleati prima che i militari giapponesi arrivassero per prendere gli aviatori in custodia. Altri 94 avieri morirono per altre cause mentre erano in custodia giapponese, tra cui 52 che vennero uccisi quando furono deliberatamente abbandonati in prigione durante il Bombardamento di Tokyo il 24-25 maggio 1945.
«Tutti i civili che si trovavano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovavano ancora in strada. Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente.[38]»
 
Cannibalismo
Il 21 febbraio Mussolini inviava a Graziani questo telegramma:
Molti rapporti scritti e testimonianze raccolte dalla sezione australiana dei crimini di guerra del tribunale di Tokyo, e indagati dal procuratore William Webb (il futuro giudice in capo), indicano che il personale giapponese in molte parti dell'Asia e del Pacifico compì atti di Cannibalismo contro prigionieri di guerra alleati. In molti casi, questo venne causato dai sempre più crescenti attacchi alleati sui posti di alimentazione giapponesi, e la morte e la malattia del personale giapponese a causa della fame. Secondo lo storico Yuki Tanaka: "il cannibalismo era spesso un'attività sistematica condotta da squadre intere e sotto il comando di ufficiali". Questi frequenti omicidi spesso venivano fatti al fine di assicurare corpi. Ad esempio, un prigioniero di guerra indiano, un havildar Changdi Ram, testimoniò che: "[Il 12 novembre 1944] il Kempeitai decapitò un pilota [Alleato], ho visto da dietro un albero e ho guardato un po' dei tagli giapponesi sulla carne sulle sue braccia, gambe, fianchi, glutei e lo portarono via nei loro alloggi... L'hanno tagliato in piccoli pezzi e frissero essi".
 
In alcuni casi, la carne veniva tagliata a persone ancora vive: un altro prigioniero di guerra indiano, il Lance naik Hatam Ali (poi un cittadino del Pakistan), presente in Nuova Guinea, dichiarò: "I giapponesi iniziarono a selezionare prigionieri e ogni giorno un prigioniero veniva portato fuori e ucciso e mangiato dai soldati. Ho visto personalmente che questo accadde e circa 100 prigionieri furono mangiati in questo luogo dai giapponesi. Il resto di noi vennero presi a un altro punto a 50 miglia [80 km] di distanza, dove 10 prigionieri morirono di malattia. In questo luogo, i giapponesi ancora iniziarono la selezione dei prigionieri da mangiare. Quelli selezionati vennero portati in una capanna dove la carne venne tagliata dai loro corpi mentre erano ancora vivi e vennero gettati in una fossa dove poi morirono".
«Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si faranno dovrà essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi. Attendo conferma.[39]»
 
Forse l'ufficiale più anziano condannato per il cannibalismo era il tenente generale Yoshio Tachibana, che con altri 11 membri del personale giapponese venne processato nell'agosto 1946 in relazione all'esecuzione degli aviatori US Navy, e il cannibalismo di almeno uno di loro, nel mese di agosto 1944, sulle Chichi-jima, nelle Isole Ogasawara. Gli aviatori vennero decapitati per ordine di Tachibana. Poiché la legge militare e internazionale, non trattava specificatamente il cannibalismo, vennero processati per omicidio e "prevenzione di onorata sepoltura", Tachibana venne condannato a morte e impiccato.
A tale ordine, Graziani rispondeva con successivo telegramma:
 
Lavoro forzato
«Dal giorno 19 at oggi sono state eseguite trecentoventiquattro esecuzioni sommarie tuttavia con colpabilità sempre discriminata e comprovata (ripeto trecentoventiquattro). Senza naturalmente comprendere in questa cifra le repressioni dei giorni diciannove e venti febbraio. Ho inoltre provveduto a inviare nel campo di concentramento colà esistente fin dalla guerra numero millecento persone fra uomini, donne e ragazzi.[40]»
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Schiavitù in Giappone.
 
Prigionieri di guerra australiani e olandesi a Tarsau in Thailandia, 1943.
Dal 30 aprile 1937, in base ai rapporti ufficiali, le esecuzioni passarono a 710, il 5 luglio a 1 686, il 25 luglio a 1 878 e il 3 agosto a 1 918. Dalla relazione del colonnello Azzolino Hazon, comandante dei carabinieri in Etiopia, si evince che i soli carabinieri passarono per le armi 2 509 indigeni, tra febbraio e maggio 1937. Il numero esatto delle vittime della repressione è tra i 1 400 e i 6 000 per inglesi, francesi e americani, di 30 000 per gli etiopi.[41]
L'uso che i militari giapponesi fecero del Lavoro forzato, dei civili e dei prigionieri di guerra anche asiatici causò molti morti. Secondo uno studio congiunto da parte degli storici, tra cui Zhifen Ju, Mitsuyoshi Himeta, Toru Kubo, e Mark Peattie, più di 10 milioni di civili cinesi vennero mobilitati dalla Koa-in (consiglio di governo giapponese) per il lavoro forzato. Più di 100.000 civili e prigionieri di guerra morirono nella costruzione della ferrovia di Burma-Siam.
 
La biblioteca del congresso statunitense stima che a Giava l'esercito giapponese costrinse tra i quattro e i dieci milioni di Romusha ("operai" in giapponese) a lavorare. Circa 270.000 di questi lavoratori giavanesi vennero inviati ad altre aree giapponesi di detenuti nel sud-est asiatico, ma solo 52.000 vennero rimpatriati a Giava, il che significa che c'era un tasso di mortalità dell'ottanta per cento.
Il fatto che i due autori dell'attentato del 19 febbraio – peraltro due eritrei – fossero stati temporaneamente ospitati nella città conventuale di Debre Libanos, nello Scioa, convinse Graziani della correità dei monaci cristiani di rito copto ivi ospitati; inviò pertanto un telegramma del seguente tenore al generale Pietro Maletti: “ (l'avvocato militare Franceschino) Ha raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dell'attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore”.[42]
 
Secondo lo storico Akira Fujiwara, l'imperatore Hirohito ratificò personalmente la decisione di rimuovere i vincoli del diritto internazionale (Convenzione dell'Aia) sul trattamento dei prigionieri di guerra cinesi nella direttiva del 5 agosto 1937. Tale notifica consigliò gli ufficiali di stato maggiore di smettere di usare il termine "prigionieri di guerra". La convenzione di Ginevra esentava prigionieri del rango di Sergente o superiore del lavoro manuale, e stabilì che i detenuti che svolgevano un lavoro dovevano essere dotati di razioni extra e altre cose essenziali. Il Giappone non aveva firmato la Convenzione di Ginevra del 1929 sui prigionieri di guerra, al momento, e le forze giapponesi non seguirono la convenzione, anche se ratificarono la convenzione di Ginevra del 1929 sui malati e feriti.
Maletti era partito il 6 maggio da Debre Berhan e, stando ai rapporti da lui stesso redatti, attraversando la regione del Menz, le sue truppe avevano incendiato 115 422 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael (dopo averne fucilato i monaci), e sterminato 2 523 partigiani etiopi.[43]. La sera del 19 maggio Maletti aveva circondato Debra Libanos: il grande monastero risalente al XIII secolo, era stato fondato dal santo cristiano Tecle Haymanot e comprendeva due grandi chiese e i modesti tucul ove abitavano monaci, preti, diaconi, studenti di teologia e suore.
 
Comfort women
Il successivo 21 maggio, Maletti trasferì nella piana di Laga Wolde, chiusa a ovest da cinque colline e a est dal fiume Finche Wenz, tutti i religiosi. Le esecuzioni si protrassero sino alle 15:30 del pomeriggio e investirono 297 monaci, incluso il vice priore, e 23 laici sospettati di connivenza,[44] risparmiando i giovani diaconi, i maestri e altro personale d'ordine, che furono trattenuti. Ma tre giorni dopo Graziani inviava a Maletti una nuova direttiva: “Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino pertanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi. Assicuri con le parole: “Liquidazione completa”.[45] Il nuovo massacro fu eseguito in località Engecha, a pochi chilometri da Debre Berhan, e nella mattina del 26 maggio furono sterminati altri 129 diaconi. In totale, dunque, la cifra dei religiosi massacrati fu di 449.
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Comfort women.
I termini "donne di conforto" (Ianfu) o "donne di conforto militare" (Jugun-ianfu) sono eufemismi per le donne dei bordelli militari giapponesi nei paesi occupati, che vennero spesso reclutate con l'inganno o rapite e costrette alla schiavitù sessuale.
 
Nel 1992, lo storico Yoshiaki Yoshimi pubblicò materiale sulla base delle sue ricerche negli archivi presso l'istituto Nazionale del Giappone per gli studi sulla difesa. Yoshimi sostenne che ci fosse un legame diretto tra le istituzioni imperiali come la Koain e le "stazioni di conforto". Quando le scoperte di Yoshimi vennero pubblicate dai mezzi di informazione giapponesi il 12 gennaio 1993, causarono sensazione e costrinsero il governo, rappresentato dal capo di gabinetto Kato Koichi, a riconoscere alcuni dei fatti lo stesso giorno. Il 17 gennaio, il primo ministro Kiichi Miyazawa presentò scuse formali per la sofferenza delle vittime, durante un viaggio nella Corea del Sud. Il 6 luglio e il 4 agosto, il governo giapponese emise due dichiarazioni con le quali riconobbe che le "stazioni comfort" vennero attivate in risposta alla richiesta dei militari del giorno. L'esercito giapponese era, direttamente o indirettamente, coinvolto nello stabilimento e nella gestione delle stazioni di conforto e il trasferimento delle donne di conforto, e che le donne vennero reclutate in molti casi contro la propria volontà attraverso lusinghe e coercizioni.
Tra il 1991 e il 1994, due docenti universitari, l'inglese Ian L. Campbell e l'etiopico Defige Gabre-Tsadik, eseguirono nel territorio di Debrà Libanòs un'ampia e approfondita ricerca, dalla quale emerse che furono soppressi anche altri 276 insegnanti, studenti di teologia e sacerdoti appartenenti ad altri monasteri.[46]
 
La controversia venne nuovamente riaccesa il 1º marzo 2007, quando il primo ministro Shinzō Abe diede suggerimenti alla Camera dei rappresentanti di chiedere scusa e riconoscere al governo giapponese il ruolo dei militari giapponesi in tempo di guerra nella schiavitù sessuale. Abe negò che si riferiva alle stazioni e disse: "Non ci sono prove per dimostrare che non c'era la coercizione, non c'è nulla per sostenerlo". I commenti di Abe provocarono reazioni negative all'estero. Ad esempio, un numero del The New York Times del 6 marzo dichiarò: "Questi non erano bordelli commerciali. La forza, esplicita e implicita, venne utilizzata nel reclutamento di queste donne. Che cosa venne fatto su di loro era uno stupro di serie, non una prostituzione. Il coinvolgimento dell'esercito giapponese è documentato nei file di difesa del governo. Un alto funzionario di Tokyo ha più o meno chiesto scusa per questo orribile crimine nel 1993... Ieri, a malincuore ha riconosciuto il 1993 come l'anno delle scuse, ma solo come parte di una dichiarazione preventiva del suo governo che avrebbe rifiutato la chiamata, ora in attesa delle scuse ufficiali del congresso degli Stati Uniti. L'America non è il solo paese interessato a vedere se il Giappone tardivamente accetterà le sue piene responsabilità, la Corea, la Cina e le Filippine sono infuriate da anni per gli equivoci giapponesi sulla questione".
L'orrendo massacro scatenò una rivolta nella regione etiope del Lasta, a partire dall'agosto 1937, per stroncare la quale Graziani impartì i seguenti ordini:
 
Lo stesso giorno, il soldato veterano Yasuji Kaneko ammise al The Washington Post che "le donne gridavano, ma a noi non importava se le donne vivevano o morivano. Eravamo soldati dell'imperatore. Sia nei bordelli militari che nei villaggi, abbiamo violentato senza reticenze". Il 17 aprile 2007, Yoshimi e un altro storico, Hirofumi Hayashi, annunciarono la scoperta, negli archivi del Processo di Tokyo, di sette documenti ufficiali che suggerivano che le forze militari imperiali, come il Tokeitai (polizia navale segreta), le donne venivano direttamente estorte al lavoro nei bordelli in prima linea in Cina, Indocina e Indonesia. Questi documenti vennero inizialmente resi pubblici al processo per crimini di guerra. In uno di questi, un tenente venne citato per aver confessato di aver organizzato un bordello e di averne fatto uso egli stesso. Un'altra fonte riferisce che i membri del Tokeitai avevano donne arrestate per le strade, e dopo le visite mediche vigenti, venivano messe nei bordelli.
«La rappresaglia deve essere effettuata senza misericordia su tutti i paesi del Lasta... Bisogna distruggere i paesi stessi perché le genti si convincano della ineluttabile necessità di abbandonare questi capi... lo scopo si può raggiungere con l'impiego di tutti i mezzi di distruzione dell'aviazione per giornate e giornate di seguito essenzialmente adoperando gas asfissianti.»
 
Il 12 maggio 2007, il giornalista Taichiro Kaijimura annunciò la scoperta di 30 documenti governativi olandesi presentati al Processo di Tokyo come prova di un incidente forzato di prostituzione ammassata nel 1944 a Magelang. In altri casi, alcune vittime di Timor Est testimoniarono che venivano forzate quando non erano ancora abbastanza grandi per avere le mestruazioni e ripetutamente venivano violentate dai soldati giapponesi.
(Generale Graziani[senza fonte])
«Nella giornata di oggi aviazione compia rappresaglia di gas asfissianti di qualsiasi natura su zona dalla quale presumesi Uondeossen abbia tratto armati senza distinzione fra sottomessi e non sottomessi. Tenga presente V.E. che agisco in perfetta identità di vedute con S.E. Capo Governo (telegramma di Graziani al generale Alessandro Pirzio Biroli) [senza fonte]»
 
Una donna di conforto olandese-indonesiana, Ruff O'Hearn (ora residente in Australia), che ne diede prova al comitato degli Stati Uniti, disse che il governo giapponese aveva omesso di assumersi la responsabilità per i suoi crimini, che non voleva pagare un risarcimento alle vittime e che voleva riscrivere la storia. Ruff O'Hearn disse che lei era stata violentata "giorno e notte" per tre mesi da parte dei soldati giapponesi quando aveva 19 anni. Solo una donna giapponese pubblicò la sua testimonianza. Nel 1971, un ex donna di conforto, costretta a lavorare per i soldati giapponesi a Taiwan, pubblicò le sue memorie con lo pseudonimo di Suzuko Shirota.
Graziani, alla fine dell'anno, verrà sostituito con il Duca d'Aosta Amedeo.
 
Ci sono diverse teorie sulla ripartizione del luogo di origine delle donne di conforto. Mentre alcune fonti giapponesi sostengono che la maggior parte delle donne erano dal Giappone, altri (fra cui Yoshimi), sostengono che 200.000 donne fossero provenienti dalla Corea, e da altri paesi, come Cina, Filippine e Birmania, le Indie orientali olandesi, i Paesi Bassi e l'Australia vennero costrette a impegnarsi in attività sessuali. Nel mese di giugno 2014, i documenti più ufficiali del governo degli archivi del Giappone vennero resi pubblici, documentando la violenza sessuale commessa dai soldati imperiali giapponesi nell'Indocina francese e in Indonesia.
«Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenze che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillamente quanto le sere in cui questo esame mi è accaduto di fare. So dalla Storia di tutte le epoche che nulla di nuovo si costruisce se non si distrugge in tutto o in parte un passato che non regge più al presente.»
 
Il 26 giugno 2007, la Commissione della Camera dei rappresentanti per gli affari esteri approvò una risoluzione che chiedeva che il Giappone "dovrebbe riconoscere, scusarsi e accettare la responsabilità storica in modo chiaro e inequivocabile la coercizione del suo esercito nelle donne di schiavitù sessuale durante la guerra". Il 30 luglio 2007 la Camera dei rappresentanti approvò la risoluzione, mentre Shinzo Abe disse che questa decisione è stata "deplorevole".
(Generale Graziani[senza fonte])
Campi di prigionia nell'Africa italiana
Nell'Africa Italiana si contavano diversi campi di prigionia (16 in Libia, 1 in Eritrea, 1 in Somalia). Nei campi vennero inviate sia le tribù allontanate dal Gebel Acdar sia gli indigeni appartenenti a tribù seminomadi vaganti attorno alle oasi o all'interno.
 
Saccheggi
Nei 4 campi di rieducazione venivano inviati giovani appartenenti a tribù più evolute per addestrarli come funzionari indigeni impiegati nell'amministrazione coloniale.
Molti storici affermano che il governo giapponese e singoli militari si impegnarono in diffusi saccheggi durante il periodo dal 1895 al 1945. La refurtiva comprendeva un terreno privato, così come diversi tipi di oggetti di valore rubati dalle banche, cassette di sicurezza, templi, chiese, moschee, musei, centri commerciali e abitazioni private.
 
Note
Infine nei tre campi di punizione venivano inviati tutti coloro che avevano commesso reati o ostacolato l'occupazione italiana[47].
^ Joseph Chapel, Denial of the Holocaust and the Rape of Nanking, su history.ucsb.edu, 2004.
^ Ralph Blumenthal, The World: Revisiting World War II Atrocities;Comparing the Unspeakable to the Unthinkable, in The New York Times, 7 marzo 1999. URL consultato il 26 luglio 2008.
^ http://news.bbc.co.uk/2/low/in_depth/39166.stm, in BBC News Online, 13 dicembre 1997. URL consultato il 26 luglio 2008.
^ David Sanger, Japanese Edgy Over Emperor's Visit to China, 22 ottobre 1992. URL consultato il 26 luglio 2008.
^ C. Johnson, Looting of Asia
^ Yuki Tanaka, 1996, Hidden Horrors, p.2–3.
^ Akira Fujiwara, Nitchû Sensô ni Okeru Horyo Gyakusatsu, Kikan Sensô Sekinin Kenkyû 9, 1995, p.22
^ Tanaka, ibid., Herbert Bix, Hirohito and the Making of Modern Japan, 2001, p.360
Ulteriori informazioni
Libri
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Bass, Gary Jonathan. Stay the Hand of Vengeance: The Politics of War Crimes Trials. Princeton, NJ: Princeton University Press, 2000.
Bayly, C.A. & Harper T. Forgotten Armies. The Fall of British Asia 1941-5 (London: Allen Lane) 2004
Bix, Herbert. Hirohito and the Making of Modern Japan. New York: HarperCollins, 2000.
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Audio/visual media
Minoru Matsui (2001), documentario con interviste a veterani dell'esercito imperiale giapponese, Devils shed light on a dark past, CNN, [1], Japanese Devils, Midnight Eye, [2]
The History Channel (2000), Japanese War Crimes: Murder Under The Sun, A & E Home video
 
=== Italia ===
Dalla testimonianza di un sopravvissuto, Reth Belgassen, recluso ad Agheila:[48]
{{Vedi anche|Crimini di guerra italiani}}
{{...}}Periodo del colonialismo
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Colonialismo italiano.
Nel Regno d'Italia, il diritto bellico verrà essenzialmente disciplinato dalla legge di guerra e di neutralità, emanata con regio decreto n. 1415 dell'8 luglio 1938, dal codice penale militare di guerra e dal codice penale militare di pace, approvati con il regio decreto n. 303 del 20 febbraio 1941.
 
Guerra di Libia
«Ci davano poco da mangiare. Dovevamo sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo stanchi per lavorare.[49] [...] Le nostre donne tenevano un recipiente nella tenda per fare i loro bisogni. Avevano paura di uscire. Fuori rischiavano di essere prese dagli etiopi[50] o dagli italiani.[51] [...] Le esecuzioni avvenivano sempre verso mezzogiorno in uno spiazzo al centro del campo e gli italiani portavano tutta la gente a guardare. Ci costringevano a guardare mentre morivano i nostri fratelli.[52]»
Guerra Italo-turca e sue conseguenze
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra italo-turca.
 
Penitenziario delle isole Tremiti, distribuzione del pane
Racconta a sua volta Mohammed Bechir Seium:
Il 23 ottobre 1911, nel corso della battaglia di Sciara Sciatt per la conquista di Tripoli, due compagnie di bersaglieri italiani, composte da circa 290 uomini, furono accerchiate e, dopo la resa, annientate nei pressi del cimitero di Rebab dai militari ottomani e irregolari libici. Quando i bersaglieri italiani riconquistarono l'area del cimitero scoprirono che quasi tutti i prigionieri erano stati trucidati. Secondo la relazione ufficiale italiana "molti erano stati accecati, decapitati, crocifissi, sviscerati, bruciati vivi o tagliati a pezzi"[1]. Analogo resoconto fu fatto dal giornalista italo-argentino Enzo D'Armesano che era inviato sul posto per il quotidiano argentino La Prensa[2]. Nella repressione che seguì, furono uccisi almeno un migliaio di libici e si dispose la deportazione in Italia dei “rivoltosi” arrestati. L'operazione riguardò circa quattromila libici, che furono trasferiti nelle colonie penitenziarie delle Isole Tremiti, di Ustica, Gaeta, Ponza, Caserta e Favignana. Gli scarsi dati rimasti rilevano che, per le pessime condizioni igieniche e lo scarso cibo, alla data del 10 giugno 1912, alle Tremiti, erano già deceduti 437 reclusi, cioè il 31% del totale. A Ustica, nel solo 1911, ne morirono 69; a Gaeta e Ponza, nei primi sette mesi del 1912, altri 75. Nel corso del 1912, furono rimpatriati 917 libici, ma le deportazioni continuarono, con punte notevoli intorno al 1915.[3]
 
Il 18 ottobre 1912, con la stipulazione del Trattato di Losanna, l'Impero Ottomano cedeva all'Italia (a titolo di "protettorato") la Tripolitania e la Cirenaica, mantenendo una sovranità religiosa sulle popolazioni musulmane dei luoghi. Alla fine del conflitto nel 1912, alcune stime indicarono un totale di 10.000 vittime tra turchi e libici a causa di esecuzioni e rappresaglie italiane, dovute alla resistenza turco-libica che sarebbe durata almeno fino al 1932.[4]
«Ricordo la miseria e le botte. Ogni giorno qualcuno si prendeva la sua razione di botte. E per mangiare ricordo solo un pezzo di pane duro del peso di centocinquanta o al massimo duecento grammi, che doveva bastare per tutto il giorno.[53]»
 
Il 18 dicembre 1913, il deputato socialista Filippo Turati, denunciava l'uso della forca e della condanna a morte contro la popolazione libica, in esecuzione della legge e delle usanze locali.[5]
Riferisce Salem Omram Abu Shabur:
 
La repressione italiana della resistenza turco-libica in Tripolitania ed in Cirenaica avvenne tramite i tribunali militari speciali, per cui i processi avvenivano spesso all'aperto ed in pubblico, attraverso cui se ritenuti colpevoli, gli imputati venivano il più delle volte condannati a morte e le sentenze immediatamente eseguite. Le accuse più diffuse erano quelle relative alla collaborazione offerta ai ribelli.[6]
«Ogni giorno uscivano dal el Agheila cinquanta cadaveri. Venivano sepolti in fosse comuni. Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre. Gente che veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di fame e di malattia.[48]»
 
Il 24 maggio 1915, in base a un rapporto dell'8 ottobre successivo, indirizzato dal consigliere politico di Misurata Alessandro Pavoni al direttore per gli affari politici del Ministero delle colonie Giacomo Agnesa, riferisce di un barbaro massacro ordinato da un ufficiale dei carabinieri. Da quanto viene riferito a Pavoni, i militari italiani riferirono di alcuni spari partiti dall'edificio, forse per mano di ribelli, mentre un testimone, che all'epoca aveva nove anni, riferirà anni dopo che a sparare erano stati gli italiani dopo essere stati derisi per una recente sconfitta per mano dei senussi. Pavoni scrive che sei soldati italiani scalarono l'edificio fin sul tetto da cui spararono alcuni colpi di fucile nel cortile sopprimendo la ribellione. Poco dopo, il capitano dei carabinieri ordinò che l'edificio, un albergo, venisse incendiato, operazione che fu eseguita dopo la devastazione e la rapina di tutto ciò che potesse essere utile, da parte sia dei militari che dei civili, oltre al proprietario stesso dell'albergo. Il giorno seguente, furono trovate con certezza trentadue cadaveri, quasi tutte bruciate, di cui solo otto uomini adulti. L'inchiesta ministeriale si concluse con il proscioglimento degli accusati.[7] L'evento è ricordato da un piccolo monumento eretto alle spalle del municipio.
Nella propaganda fascista L'Oltremare si affermava che "nel campo di Soluch c'è ordine e una disciplina perfetta e regna ordine e pulizia"[54].
 
Un altro rapporto parla dell'esecuzione di settantacinque libici nei pressi di Suani Ben Aden, a una quarantina di chilometri a sud-est di Tripoli, il 7 luglio 1915 dopo che gli italiani avevano rinvenuto alcuni barilotti ed altri oggetti militari italiani nel dorso di alcuni cammelli appartenenti ai libici stessi. Anche in questo caso l'inchiesta ebbe il medesimo risultato.[8]
 
Operazioni militari per la «riconquista» (1923-32)
Seconda guerra mondiale
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Riconquista della Libia.
Questa voce non è neutrale!
La neutralità di questa voce o sezione sull'argomento storia è stata messa in dubbio.
Motivo: ingiusto rilievo a fonti che non trovano alcun riscontro nella storia accreditata delle truppe regolari italiane o degli ascari al servizio dell'Italia. Le atrocità attribuite agli italiani non vengono nemmeno referenziate come affermazioni di un autore ma date per vere e acclarate. Non si dà alcuna informazione in merito al fatto che negli anni in oggetto attività simili furono compiute negli stessi anni da tutte le potenze coloniali (spagnoli nel Riff, inglesi in Afganistan, giapponesi in Cina etc.)
Motivo: Sezione POV che non tiene conto del fatto che le truppe italiane spesso si frapposero fra opposte fazioni etnico-politiche di una guerra civile fra popolazioni iugoslave, specialmente per i serbi della Craina e gli ebrei di Croazia. Non si dà conto delle efferatezze commesse sui soldati italiani dai partigiani locali. Anche in questa sezione si dà ingiusto rilievo a fonti di parte, e l'intera sezione è generalmente priva di fonti attendibili e neutrali
Per contribuire, correggi i toni enfatici o di parte e partecipa alla discussione. Non rimuovere questo avviso finché la disputa non è risolta. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento.
All'ombra del Reich, l'Italia, dopo aver attaccato e sopraffatto il Regno di Jugoslavia e Grecia, trasformò parte dell'attuale Slovenia nella Provincia Italiana di Lubiana, la Dalmazia in Governatorato, ampliò la Provincia di Fiume annettendo parte della Banovina di Croazia, occupò il Montenegro, il Cossovo, la Grecia e le Isole ionie ed egee. Inoltre truppe italiane presidiavano parte della Bosnia e della Croazia.
 
Impiccagione del capo della resistenza libica Omar Shegewi nel 1928
Il modello occupazionale italiano non fu dunque difforme a tanti altri modelli occupazionali del tempo, senza dimenticare che esso fu applicato in regioni dove gli italiani erano percepiti dalla popolazione locale come aggressori e come tali furono osteggiati e contrastati.
Con la fine della prima guerra mondiale, tutti i patti con i senussi furono denunciati; al rifiuto del parlamento locale di rispettare i precedenti accordi firmati il 1921,[non chiaro] il 6 marzo 1923, il governatore della Cirenaica, Luigi Bongiovanni proclamò lo Stato d'assedio, iniziando poi le operazioni per la «riconquista» della Libia.[9]
 
Cufra, considerata da Graziani "centro di raccolta di tutto il fuoriuscitismo libico", fu bombardata il 26 agosto e i ribelli inseguiti verso il confine con l'Egitto. Lo stesso Graziani parla di 100 ribelli uccisi, 14 ribelli passati per le armi e 250 fermati tra cui donne e bambini. Dopo una nuova insurrezione, il 20 gennaio 1931 la città è rioccupata dagli italiani; ne seguirono tre giorni di violenze ed atrocità impressionanti che provocarono la morte di circa 180-200 libici e innumerevoli altre vittime tra i sopravvissuti:[10] 17 capi senussiti impiccati, 35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, 50 donne stuprate, 50 fucilazioni, 40 esecuzioni con accette, baionette, sciabole. Atrocità e torture impressionanti: a donne incinte venne squartato il ventre e i feti infilzati, giovani indigene violentate e sodomizzate (ad alcune infisse candele di sego in vagina e nel retto), teste e testicoli mozzati e portati in giro come trofei; torture anche su bambini (3 immersi in calderoni di acqua bollente) e vecchi (ad alcuni estirpati unghie e occhi).[10]
La lotta contro i partigiani slavi e greci fu condotta con modalità di guerra che in Grecia furono rese ancor più aspre dalla penuria alimentare, mentre in Jugoslavia furono rese drammatiche da feroci contrasti etnico-politici presenti anche tra gli stessi ustascia, cetnici e titoisti. Gli italiani attuarono (in particolare nella italianizzata provincia slovena di Lubiana) un comportamento particolarmente violento, caratterizzato da efferate violenze, deportazioni, devastazioni di interi paesi o villaggi, internamento di civili (in campi con elevatissimo tasso di mortalità), sommarie esecuzioni di guerriglieri, presunti tali e di civili inermi.[senza fonte]
 
Grande fu l'impressione nel mondo islamico. La "Nation Arabe" scrisse:
Già nel settembre 1942, l'eco della politica d'occupazione dei fascisti e delle atrocità commesse nei paesi della regione balcanica cominciò a diffondersi, tanto che Radio Milano-Libertà comunicava:
«Italiani! Le crescenti difficoltà della guerra e il dileguarsi di ogni speranza di vittoria, rendono Hitler furioso, e aumentano le sue esigenze nei confronti dell'Italia. Hitler [...] pretende che i nostri soldati non abbiano né cuore né pietà, che sia annullata in essi ogni traccia di misericordia, ogni sentimento umano. Nei paesi balcanici in Grecia, Albania, Montenegro e particolarmente in Jugoslavia [...] i battaglioni fascisti e purtroppo anche alcuni reparti dell'Esercito massacrano e terrorizzano quelle disgraziate popolazioni. Le camicie nere [...] si distinguono in particolare per la crudele malvagità, distruggendo, devastando, incendiando villaggi e città, assassinando vecchi, donne e bambini, superando in crudeltà le stesse orde tedesche. Per eseguire gli ordini tedeschi, Mussolini non esita a disonorare l'Italia di Garibaldi e di tutti i grandi italiani che alla cultura, alla civiltà e al progresso materiale e spirituale dell'umanità diedero il loro ingegno e immolarono il loro sangue.»
 
«Noi chiediamo ai signori italiani… i quali ora si gloriano di aver catturato cento donne e bambini appartenenti alle poche centinaia di abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante: "Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà?"»
( Enzo Misefari, La Resistenza degli albanesi contro l'imperialismo fascista, Edizioni di cultura popolare, 1976, p. 132.)
La novità rispetto agli altri crimini di guerra commessi dalle forze italiane nel corso della storia sta nel fatto che nei Balcani non vi furono i battaglioni "indigeni" come in Africa a svolgere il "lavoro sporco", ma questo fu fatto direttamente e solo dagli italiani. L'autonomia operativa lasciata ai comandanti fece sì che alcuni reparti conquistassero un triste primato.[senza fonte]
 
Il giornale di Gerusalemme "Al Jamia el Arabia" pubblicò il 28 aprile 1931, un manifesto in cui si ricordano:
 
«...alcune di quelle atrocità che fanno rabbrividire: da quando gli italiani hanno assalito quel paese disgraziato, non hanno cessato di usare ogni sorta di castigo ... senza avere pietà dei bambini, né dei vecchi...[11]»
Mario Roatta
In questo senso la "Circolare 3 C" emanata il 1º marzo 1942 dal generale Mario Roatta, un memorandum che inasprisce la lotta controguerriglia, modificando l'atteggiamento italiano da difensivo ad aggressivo e al quale si sono attenuti i diversi comandi, è un documento ufficiale e una inoppugnabile prova contro il Regio Esercito (vi si afferma tra l'altro che eccessi di reazione non verranno tendenzialmente puniti)[55].
 
Deportazioni dalla Cirenaica
Nello scenario jugoslavo la lotta si inasprì in quanto venne combattuta una guerra dove il tentativo di pulizia etnica operato dagli italiani,[senza fonte] si intrecciava con la guerra di liberazione contro l'occupante e una vera e propria guerra civile tra le varie etnie slave e le varie ideologie in esse presenti, tra le quali prevalse quella comunista delle formazioni di Tito.
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Deportazioni di massa del Gebel.
 
Internati nel campo di concentramento italiano di El Agheila.
Occupazione della Grecia
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Operazione Marita e Campagna italiana di Grecia.
 
L'impiccagione di Omar al Muktar a Soluk il 16 settembre 1931.
Militari italiani camminano tra i cadaveri di civili greci giustiziati nel massacro di Domenikon.
Il 20 giugno 1930, il governatore unico della Tripolitania e della Cirenaica, maresciallo Pietro Badoglio, dispose l'evacuazione forzata della popolazione della Cirenaica, per la quale circa centomila persone furono costrette a lasciare tutti i propri beni portando con sé soltanto il bestiame:[12]
L'invasione italiana della Grecia non fu indolore e gli ultimi mesi d'occupazione furono caratterizzati dall'adozione su larga scala di misure repressive nei confronti dei civili.[56]
 
«Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.»
Nell'ottobre 1940, di fronte agli schiaccianti successi militari nazisti, il dittatore Benito Mussolini decise di aggredire la Grecia. Il 28 ottobre le truppe del Regio Esercito italiano, partendo dall'Albania (già occupata dall'Italia nel 1939), entrarono in territorio ellenico. Gli italiani erano certi di ottenere una vittoria rapida, ma le cose andarono diversamente: il tempo era pessimo, il terreno era montuoso e molto difficile da attraversare, e questo diede il tempo ai greci di continuare la mobilitazione e di spostare ulteriori truppe in Epiro. Le forze greche riuscirono così a contenere l'offensiva iniziale italiana e successivamente anche a contrattaccare gli invasori, impantanati nel fango e nel gelo delle trincee balcaniche. Di fronte al fallimento dell'offensiva, Mussolini reagì ordinando all'aviazione di bombardare incessantemente, distruggere e radere al suolo tutte le città con più di 10 000 abitanti, con l'intento dichiarato di seminare il panico ovunque:[57]
«[...] in questo periodo di sosta occorre che l'aviazione faccia quello che non possono fare gli altri. Questi bombardamenti incessanti dovranno: a) dimostrare alle popolazioni greche che il concorso dell'aviazione inglese è insufficiente o nulla; b) disorganizzare la vita civile della Grecia, seminando il panico dovunque. Quindi voi dovete scegliere - chilometro quadrato per chilometro quadrato - la Grecia da bombardare [...].[58]»
 
(Pietro Badoglio, 20 giugno 1930[13][14])
(Benito Mussolini)
Mussolini approvò e nei mesi seguenti Graziani procedette a deportare tutta la popolazione del Gebel in campi di concentramento siti tra le pendici del Gebel e la costa. Le ragioni delle deportazioni vengono da taluni ricollegate alla ripopolazione del Gebel da parte di coloni italiani, mentre Rodolfo Graziani le giustificò con la necessità di mettere fine alla ribellione senussita.[15]
«[...] quando le nostre truppe furono costrette a retrocedere e a ripassare le frontiere, Mussolini si allarmò decisamente. Cambiò a due riprese il comandante delle truppe [...] il che sottrasse automaticamente il Comitato Locale della dipendenza dello Stato Maggiore dell'Esercito passandola a quella diretta del Duce [...] ordinò l'invio di grossi rinforzi [...] e stabilì che la nostra aeronautica, per stroncare qualsiasi velleità offensiva dell'esercito ellenico, radesse al suolo tutte le località greche di popolazione superiore ai 10 000 abitanti, Atene esclusa.[59]»
 
Dal 1930 al 1931 le forze italiane scatenarono un'ondata di terrore sulla popolazione indigena cirenaica; tra il 1930 e il 1931 furono giustiziati 12 000 cirenaici e tutta la popolazione nomade della Cirenaica settentrionale fu deportata in enormi campi di concentramento lungo la costa desertica della Sirte, in condizione di sovraffollamento, sottoalimentazione e mancanza di igiene.[16] Nel giugno 1930, le autorità militari italiane organizzarono la migrazione forzata e deportazione dell'intera popolazione del Gebel al Akhdar, in Cirenaica, e ciò comportò l'espulsione di quasi 100 000 beduini (una piccola parte era riuscita a fuggire in Egitto)[16] - metà della popolazione della Cirenaica - dai loro insediamenti, che furono assegnati a coloni italiani.[17][18] Queste 100 000 persone, in massima parte donne, bambini e anziani, furono costretti dalle autorità italiane a una marcia forzata di oltre mille chilometri nel deserto verso una serie di campi di concentramento circondati di filo spinato costruiti nei pressi di Bengasi. Le persone furono falcidiate dalla sete e dalla fame; gli sciagurati ritardatari che non riuscivano a tenere il passo con la marcia venivano fucilati sul posto dagli italiani. Tra i vari episodi di crudeltà si cita l'abbandono di molti indigeni, tra cui donne e bambini, nel deserto privi di acqua a causa di vari dissidi; altri morti per fustigazioni e fatica. Fonti straniere, non censurate dal governo italiano e mostrate anche nel film Il leone del deserto, mostrano riprese aeree, fotogrammi e immagini dei campi per il concentramento dei deportati, in cui i deportati venivano internati senza alcun'assistenza o sussidio. Le esecuzioni sommarie erano all'ordine del giorno per chi si mostrava ostile o cercava di ribellarsi alla situazione.[19]
(Mario Roatta)
I bombardamenti portarono morte e distruzione, ma non modificarono l'esito della guerra; la sconfitta militare della Grecia e la conseguente occupazione del Paese si ebbe solo dopo l'intervento tedesco avvenuto nell'aprile 1941.
 
La massa dei deportati fu rinchiusa dalle truppe agli ordini di Graziani, in tredici campi di concentramento nella regione centrale della Libia, ove, in base alle cifre ufficiali furono reclusi 90 761 civili.[20] La propaganda del regime fascista dichiarava che i campi erano oasi di moderna civilizzazione gestite in modo igienico ed efficiente - mentre nella realtà i campi avevano condizioni sanitarie precarie avendo una media di 20 000 beduini internati insieme ai propri cammelli o altri animali, ammassati in un'area di un chilometro quadrato. I campi avevano solo rudimentali servizi medici: per i 33 000 reclusi nei campi di Soluch e di Sidi Ahmed el-Magrun c'era un solo medico. Il tifo e altre malattie si diffusero rapidamente nei campi, anche perché i deportati erano fisicamente indeboliti dalle insufficienti razioni alimentari e dal lavoro forzato. La loro unica ricchezza, il bestiame, fu radicalmente distrutto; perirono il 90-95% degli ovini e l'80% dei cavalli e dei cammelli della Cirenaica.[16] Quando i campi vennero chiusi nel settembre 1933, erano morti 40 000 persone.[21]
Il primo crimine commesso dagli italiani in Grecia fu strettamente legato alla strategia di guerra e la responsabilità fu condivisa con gli alleati tedeschi: l'occupazione portò come conseguenza una crisi economica devastante.[56] In Grecia, per garantirsi il regolare approvvigionamento, gli eserciti occupanti razziarono risorse e derrate alimentari presenti immagazzinati nel paese, lasciando la popolazione civile priva dei mezzi di sussistenza minimi.[60] La fame e la denutrizione si estesero allora a tutti gli strati della popolazione, provocando reazioni quasi immediate contro le truppe occupanti. Il 26 gennaio 1942, ad Atene si svolse una manifestazione di 6 000 mutilati di guerra; il 17 marzo una nuova protesta di ex combattenti ed invalidi, repressa dai Carabinieri e dalla Feldgendarmerie.[61] A fronte delle rivolte, vennero emesse ordinanze e bandi militari molto rigidi, decretate confische nei villaggi, arresti, fucilazioni e deportazioni nei campi di concentramento (Larissa, Hadari e Atene o al confino italiano, per quanto riguarda gli oppositori politici).[61]Le autorità greche segnalarono stupri di massa. Il comando tedesco in Macedonia arrivò a protestare con gli italiani per il ripetersi delle violenze contro i civili. Il capo della polizia di Elassona, Nikolaos Bavaris, scrisse una lettera di denuncia ai comandi italiani e alla Croce rossa internazionale: «Vi vantate di essere il Paese più civile d'Europa, ma crimini come questi sono commessi solo da barbari»; fu internato, torturato, deportato in Italia. Migliaia di donne prese per fame vennero reclutate in bordelli per soddisfare soldati e ufficiali italiani. Nel 1946 il ministero greco della Previdenza sociale, nel censire i danni di guerra, calcolò che 400 villaggi avevano subito distruzioni parziali o totali: 200 di questi causati da unità italiane e tedesche, 200 dai soli italiani.[62]
 
La popolazione della Cirenaica, che in base al censimento turco del 1911 contava 198 300 abitanti, scese a 142 000 secondo i dati del censimento del 21 aprile 1931. Il saldo negativo del 28,6% in vent'anni, secondo alcuni, sarebbe correlabile con un genocidio.[22] Il dato non tiene conto però delle deportazioni del 1929, che spostarono diverse decine di migliaia di persone verso le regioni centrali.
Tra settembre e ottobre 1942 le attività dell'E.A.M.-E.L.A.S. si intensificarono notevolmente e le truppe italiane, in linea con le direttive del Comando della XI Armata eseguirono vaste operazioni di rastrellamento. Una di queste venne compiuta nella zona Parnaso-Giona e si concluse con 430 persone internate in campo di concentramento e due paesi completamente sgomberati dalle popolazioni civili.[63] Cicli operativi di questo genere rappresentarono per l'occupante italiano una prassi consolidata finalizzata al mantenimento dell'ordine interno nei territori e alla lotta contro il movimento partigiano; gli uomini trovati con le armi in pugno durante i rastrellamenti venivano fucilati sul posto, mentre i prigionieri deportati nei campi di concentramento erano usati per eseguire rappresaglie successive ad azioni partigiane.[64] Nonostante queste misure di repressione sociale e territoriale praticate dal Regio Esercito, alle azioni di sabotaggio realizzate dalle formazioni partigiane contro gli occupanti, come la distruzione del viadotto di Gorgopotamos, si affiancò una sempre maggiore partecipazione popolare alle aperte manifestazioni di protesta contro le truppe nazifasciste e contro le condizioni di estrema povertà in cui versava il paese. Il 22 dicembre 1942 uno sciopero operaio organizzato ad Atene e nella zona del Pireo contro la fame e l'occupazione convogliò nelle strade della capitale greca decine di migliaia di manifestanti, tra cui anche numerosi studenti, donne e impiegati; le proteste sfociarono in duri scontri con i militari italiani durante i quali rimasero uccisi gli studenti Mitsos Konstantinidis e Filis Gheorghiou.[65]
 
Il quadro che emerge dalle incomplete cifre dei censimenti delle altre regioni è analogo: il censimento turco del 1911 – infatti – enumerava 523 000 abitanti nella sola Tripolitania; la stima italiana del 1921 faceva ascendere a 570 000 la popolazione araba della Tripolitania e del Fezzan che, il censimento del 1931 calcolava in soli 512 900 arabi[23]. Ciò significherebbe che, al lordo degli spostamenti suddetti, in soli dieci anni, anche la popolazione delle altre due province era scesa di circa il 10%.
Il Comando del III CdA, nella tavola riassuntiva delle operazioni contro i partigiani effettuate nel febbraio 1943 nei settori di Kastoria, Trikala, Lamia e Tebe-Aliartos, affermò di avere ucciso circa 120 "banditi" e 32 favoreggiatori e di avere fucilato per rappresaglia 107 persone, oltre ad aver internato 113 civili e ad avere provocato un numero imprecisato di morti e feriti nei bombardamenti aerei.[66]
 
Nonostante la censura imposta dal regime, i crimini commessi dagli italiani in Libia erano ben noti, e la stampa, soprattutto araba, non mancava di commentarli con articoli particolarmente severi. Ma anche la stampa europea esprimeva forti denunce. Si veda, per esempio, il lead di un articolo apparso il 26 settembre 1931 sul quotidiano di Sarajevo, Jugoslavenski List:
Il 16 febbraio 1943 a Domenikon, un piccolo villaggio della Grecia centrale situato in Tessaglia, l'intera popolazione maschile tra i 14 e gli 80 anni venne trucidata. Nei dintorni di Domenikon, poco prima della strage, un attacco partigiano aveva provocato la morte di 9 soldati italiani. Il generale della 24ª Divisione fanteria "Pinerolo", Cesare Benelli, ordinò la repressione: centinaia di uomini circondarono il villaggio, rastrellarono la popolazione e catturarono più di 150 uomini. Li tennero in ostaggio fino a che, nel cuore della notte, procedettero alla fucilazione.[67] L'episodio rappresenta uno dei più efferati crimini di guerra commessi dall'Italia durante la seconda guerra mondiale.
«Già da tre anni il generale Graziani, con inaudita ferocia, distrugge la popolazione araba per far posto ai coloni italiani. Sebbene anche altri popoli non abbiano operato coi guanti contro i ribelli nelle loro colonie, la colonizzazione italiana ha battuto un record sanguinoso.[24]»
 
Guerra d'Etiopia
Questo episodio non fu isolato: secondo la storica Lidia Santarelli fu il primo di una serie di azioni repressive nella primavera-estate 1943. Dopo Domenikon seguirono altri eccidi in Tessaglia e nel resto Grecia: 30 giorni dopo 60 civili fucilati a Tsaritsani e successivamente a Domokos, Farsala e Oxinià.[68] La lotta ai ribelli secondo una circolare del generale Carlo Geloso, comandante delle forze italiane di occupazione, fu basata sul principio della responsabilità collettiva;[67] di conseguenza per annientare i movimenti della resistenza andavano represse le comunità locali.
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra d'Etiopia.
 
Le operazioni di guerra e l'uso delle armi chimiche
Il 24 febbraio 1943 una grande manifestazione popolare ad Atene contro il lavoro forzato, pianificato dalle autorità dell'Asse, si diresse verso la sede del governo collaborazionista greco distruggendone i locali. La folla, muovendosi verso la sede del Ministero del lavoro e della previdenza sociale entrò a contatto con le compagnie di carabinieri a presidio dell'edificio: i militari italiani fecero fuoco sui manifestanti, provocando la morte di decine di persone.[69][70]
 
Italiani ricercati dalla Grecia
La lista C.R.O.W.C.A.S.S. (in inglese, Central Registry of War Criminals and Security Suspects) compilata dagli Alleati anglo-americani nel 1947 e pubblicata nel 2005 dall'editore Naval & University Press contiene 44 nominativi di soldati italiani ricercati dalla Grecia per crimini di guerra.[71]
 
Occupazione dell'Albania
Questa voce non è neutrale!
La neutralità di questa voce o sezione sull'argomento storia è stata messa in dubbio.
Motivo: In questa sezione le atrocità attribuite agli italiani (senza peraltro fornire una pietra di paragone per comprenderne l'entità reale, ad esempio la concentrazione di aggressivi per kilometro quadrato di campo di battaglia necessario per capire se esso sia stato veramente efficace e mortifero, o il paragone con l'impiego durante la Grande Guerra) vengono riferite come fatti acclarati, mentre per le atrocità commesse dagli abissini si evidenzia che si tratta di opinioni di autori terzi. Inoltre si tende a sottolineare una presunta malafede italiana nell'uso delle armi chimiche come rappresaglia ad analoghe infrazioni abissine delle convenzioni internazionali. Infine, non si dà alcun resoconto dello stato dell'adesione, sottoscrizione e ratifica italiana e abissina alle varie convenzioni internazionali che regolavano l'uso di determinate armi e che determinavano l'esistenza di reciprocità o meno fra i due Stati in guerra
Motivo: In questa sezione si accredita come "crimine di guerra" l'evacuazione di popolazioni a ridosso della linea del fronte in seguito a esigenze belliche
Per contribuire, correggi i toni enfatici o di parte e partecipa alla discussione. Non rimuovere questo avviso finché la disputa non è risolta. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento.
Per consentire lo svolgimento delle operazioni militari in Albania, vennero sgomberate completamente intere zone abitate da civili e furono razziate, per necessità belliche, tutte le risorse disponibili del posto lasciando alla fame migliaia di profughi albanesi cacciati dalle proprie terre e abitazioni:
 
«[...] le sofferenze erano gravi soprattutto per le popolazioni che avevano dovuto essere evacuate, man mano che la linea dei combattimenti aveva arretrato verso l'interno del paese. I profughi erano 18 781 [...][72]»
 
I primi nuclei di resistenza albanese all'occupante italiano scontarono, in special modo all'inizio, non poche difficoltà organizzative, in quanto poco e male armati (si pensi allo scarso armamento dell'Esercito regolare albanese per prefigurare i pochi mezzi a disposizione delle bande partigiane), ma poterono contare su un ampio appoggio della popolazione civile. Questo aspetto, affatto secondario, spinse gli italiani, che non volevano né potevano permettersi l'apertura di un fronte interno in Albania durante le operazioni belliche generali dal 1940 in poi, a repressioni della popolazione fiancheggiatrice del movimento partigiano.[73] Le misure punitive adottate contro i civili, come deterrente alla ribellione e mezzo di mantenimento dell'ordine interno, vennero razionalmente progettate fin dall'inizio della campagna albanese, in particolare il mezzo della rappresaglia feroce e indiscriminata fu lo strumento con il quale l'esercito e le forze di occupazione italiane pensarono di recidere alla base e con effetto immediato un possibile spirito di rivolta delle popolazioni locali.[74]
 
Le difficoltà militari incontrate dall'Italia nella campagna di Grecia crearono come riflesso una situazione politico-sociale difficilmente controllabile sul territorio albanese. Le milizie collaborazioniste albanesi si smembrarono facendo mancare agli italiani un supporto consistente per la gestione dell'ordine pubblico e la repressione anti-partigiana:
 
«[...] Le forze d'occupazione italiane non stettero a guardare. Nel dicembre del 1942 appiccarono il fuoco a centinaia di case ed effettuarono massacri contro la popolazione del luogo e fecero altre operazioni di repressione. Il 30 dicembre il comando fascista mandò in Mesapik più di due reggimenti militari. Aspri combattimenti si svolsero nella cittadina di Gjorm il primo gennaio del 1943, ai quali presero parte molti partigiani (comunisti) e ballisti (nazionalisti). I reparti italiani furono sconfitti e fu ucciso il comandante dell'operazione, Clementis. Per rappresaglia i fascisti uccisero poi il prefetto della città di Valona.
Il 16 gennaio 1943 i partigiani della città di Korca attaccarono i fascisti a Voskopoja.
Altri combattimenti vi furono in altre parti dell'Albania nei quali persero la vita molti militari Italiani, ma vi furono gravi perdite anche nei reggimenti partigiani Albanesi.
Ci furono molti combattimenti nella città di Valona, Selenice, Mallakaster, in Domje e altri luoghi.
Un importante e al tempo stesso molto duro combattimento vi fu a Tepelenë: anche qui persero la vita molti militari del reggimento fascista dislocato a Valona [...].[75]»
 
Il 12 maggio 1941 a seguito del fallito attentato contro il Re Vittorio Emanuele III a Tirana e la fucilazione del giovane operaio albanese Vasil Laci, autore dell'azione,[76] scoppiò una dura rivolta della popolazione contro l'occupante italiano, che in risposta eseguì con l'esercito, le milizie fasciste e il governo collaborazionista albanese numerose e pubbliche rappresaglie a scopo di monito verso la popolazione civile:
 
«[...] successivamente per scoraggiare la rivolta il binomio Jacomoni-Kruja ordinò una serie di pubbliche impiccagioni, indiscriminate e fece fucilare una serie di simpatizzanti e partigiani del Pca, presi prigionieri dai fascisti italo-albanesi [...].[77]»
 
In importanti centri come Valona la resistenza partigiana divenne fenomeno di massa obbligando l'amministrazione italiana all'impiego di centinaia di militari per operazioni di ordine pubblico. Città come Fieri, Berat e Argirocastro, divenuti centri attivi di lotta partigiana, subirono da parte dei miliziani filo-fascisti albanesi rappresaglie e rastrellamenti particolarmente cruenti tanto che nella zona di Skrapari i villaggi investiti dalle operazioni di polizia vennero completamente rasi al suolo e dati alle fiamme, dopo la razzia dei beni civili.[78]
 
In città, nelle quali l'opposizione anti-italiana assunse forme consistenti e attive, le forze fasciste operarono sistematicamente arresti, interrogatori, torture e impiccagioni pubbliche degli oppositori. Così a Valona divenne particolarmente conosciuto il Maresciallo del Servizio Informazioni Militare Logotito, il quale presenziava spesso agli interrogatori-tortura dei prigionieri politici nelle caserme, mentre a Tirana la caserma-prigione di via Regina Elena (oggi Rruga Barrigades) divenne particolarmente nota non solo a causa dei violenti interrogatori a cui venivano sottoposti i prigionieri ma anche per i casi di tortura e di morti verificatesi al suo interno.[79]
 
La città di Scutari, nel nord dell'Albania, era diventata il centro di numerose agitazioni partigiane, come nel caso dell'assedio dei tre eroi di Scutari, durante il quale centinaia di carabinieri e di militi fascisti assediarono per ore i tre partigiani (Branko Kadia, Jordan Misia e Perlat Rexhepi). Sempre a Scutari, il 26 luglio del 43, la milizia fascista aprì il fuoco durante uno sciopero cittadino, causando la morte di numerose persone (tra cui quella dell'intellettuale Mustafa Dervishi).
 
A Reç (villaggio a nord di Scutari) nell'ottobre del 1941, gli occupanti accerchiarono in forza di ottanta uomini e la casa della famiglia Fasllia, colpevole di ospitare le adunate illegali della resistenza contadina. Le milizie raggiunsero la casa della famiglia, accerchiandola e incendiandola. I partigiani presenti all'assemblea in quel momento si opposero cercando uno scontro a fuoco coi fascisti, ma l'incendio divampò prima che potessero difendersi. Morirono nel rogo il padre Bejto e la figlia quattordicenne Gjylie e massacrati gli altri partigiani presenti, i familiari sopravvissuti alla alla strage vennero imprigionati[80].
 
Il 14 luglio 1943 venne realizzata, dal Regio Esercito, un'imponente operazione militare anti-partigiana nei villaggi intorno a Mallakasha e al termine di quattro giorni di combattimento, in cui vennero usati artiglieria pesante e aviazione, tutti gli 80 villaggi della zona vennero rasi al suolo causando la morte di centinaia di civili.[81] L'eccidio di Mallakasha al termine della guerra verrà simbolicamente ricordato dalle autorità albanesi come la "Marzabotto albanese" con la volontà di porre in relazione i brutali metodi dell'occupazione tedesca e quelli italiani riguardo al controllo territoriale.[81]
 
Nel Museo della resistenza di Tirana, sorto negli edifici che ospitarono la caserma-prigione di via Rruga Barrigades,[82] sono riprodotte le statistiche dei danni arrecati all'Albania dall'occupante italiano:
«28.000 morti, 12.600 feriti, 43.000 deportati ed internati nei campi di concentramento, 61.000 abitazioni incendiate, 850 villaggi distrutti, 100.000 bestie razziate, centinaia di migliaia di alberi da frutto distrutti.[83]»
 
I militari italiani inclusi nelle liste della Commissione delle Nazioni Unite per crimini di guerra e in quelle del governo dell'Albania, al 10 febbraio 1948, risultarono 145, dei quali 3 inclusi nella lista della commissione e 142 aggiunti con nota verbale dal governo albanese che ne fece richiesta di estradizione all'Italia.[84] Nessuno degli accusati venne estradato o processato.[85]
 
Occupazione del Regno di Jugoslavia
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Operazione 25.
 
Divisione della Jugoslavia dopo la sua invasione da parte delle Potenze dell'Asse.
Aree assegnate all'Italia: l'area costituente la provincia di Lubiana, l'area accorpata alla provincia di Fiume e le aree costituenti il Governatorato di Dalmazia
 
Stato Indipendente di Croazia
 
Area occupate dalla Germania nazista
 
Aree occupate dal Regno d'Ungheria
 
 
Soldati italiani danno fuoco al villaggio di Čabar presso Fiume, 1941
Nell'aprile del 1941 il Regno di Jugoslavia fu occupato dalle potenze dell'Asse. L'Italia si annesse la parte sud-occidentale della Slovenia (Provincia di Lubiana), la parte nord-occidentale della Banovina di Croazia (congiunta alla Provincia di Fiume) e quasi tutta la parte costiera della Dalmazia settentrionale (con tutti i principali centri urbani, come Spalato e Sebenico) nonché la zona delle Bocche di Cattaro, che andarono a costituire assieme a Zara (già italiana) il Governatorato della Dalmazia.
 
Gli italiani in Slovenia e Croazia
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Provincia di Lubiana e Provincia di Fiume.
Le truppe del Regio Esercito stanziate in Slovenia furono subito impegnate in una dura lotta contro le formazioni partigiane, che avevano applicato una politica di terrore commettendo fin dall'estate 1941 atrocità e torture sui prigionieri italiani catturati[86]. La situazione nella Jugoslavia occupata era infatti drammaticamente degenerata a partire dall'invasione nazista dell'URSS, nel giugno 1941. Con queste parole a un rapporto con gli alti comandi del Regio Esercito a Gorizia, il 31 luglio 1942, lo stesso Mussolini descriveva la situazione:
 
«Inizialmente le cose parvero procedere nel modo migliore. La popolazione considerava il minore dei mali il fatto di essere sotto la bandiera italiana. Fu data alla provincia uno Statuto, poiché non consideriamo territorio nazionale quanto è oltre il Crinale delle Alpi, salvo casi di carattere eccezionale. Si credette che la zona fosse tranquilla; poi si vide, quando la crisi scoppiò, che i presidi non erano abbastanza consistenti e che non vi era modo di rinforzarli adeguatamente. Il 21 giugno, con l'inizio delle ostilità tra la Germania e la Russia, questa popolazione, che si sente slava, si è sentita solidale con la Russia. Da allora tutte le speranze ottimistiche tramontarono. Ci si domanda se la nostra politica fu saggia: Si può dire che fu ingenua. Anche nella Slovenia tedesca le cose non vanno bene. Io penso che sia meglio passare dalla maniera dolce a quella forte piuttosto che essere obbligati all'inverso. Si ha in questo secondo caso la frattura del prestigio. Non temo le parole. Sono convinto che al «terrore» dei partigiani si deve rispondere con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta. Come avete detto [riferito al generale Roatta], è incominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del paese e il prestigio delle forze armate. [...] Non vi preoccupate del disagio economico della popolazione. Lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze [...] Non sarei alieno dal trasferimento di masse di popolazioni [...] Considerate senza discriminazioni i comunisti: sloveni o croati, se comunisti vanno trattati allo stesso modo. Le truppe adottino la tattica dei partigiani.[87][88]»
 
(Mussolini, 31 luglio 1942)
Nell'estate 1941 le autorità italiane decisero di utilizzare reparti del Regio Esercito per il controllo del territorio delle zone controllate dalla resistenza.
 
 
Fucilazione sommaria di prigionieri nel villaggio di Dane, Loška Dolina, 1942
Il 6 ottobre 1941 le divisioni "Granatieri di Sardegna" e "Isonzo" avviarono una prima offensiva nel territorio di Golo-Skrilje e Mokrec-Malinjek incendiando le case del luogo;[89] il 14 ottobre a Zapotok i militari italiani attaccarono il battaglione partigiano "Krim" uccidendo due combattenti jugoslavi e arrestando i civili che abitavano il vicino villaggio:
 
«Due ribelli vennero uccisi ed altri 8 catturati insieme a 9 favoreggiatori. L'interrogatorio dei catturati, dei favoreggiatori e dei parenti dei ribelli uccisi consentiva ai Granatieri altre irruzioni nel campo scuola delle "Dolomiti dell'Isca" e in quello operativo di Rob.[90]»
 
Dalla relazione del novembre 1941 del comandante della divisione "Granatieri" e dell'XI Corpo d'armata si evince che i granatieri italiani a Ribnica riuscirono, dopo tre giorni di operazioni, a sbarrare la strada per la Croazia ai ribelli e a distruggerne la banda: 13 uccisi, 10 feriti e catturati, 44 catturati illesi.[89]
 
Nonostante questi successi del Regio Esercito l'attività partigiana allargò la propria capacità operativa e di mobilitazione grazie all'ampio appoggio popolare di cui godeva. Nel novembre 1941 a seguito di un attacco partigiano ad un ponte ferroviario sulla linea Lubiana-Postumia vennero eseguiti rastrellamenti e distruzioni in vaste zone adiacenti; durante le operazioni militari e gli scontri armati con la resistenza jugoslava le truppe italiane ebbero 4 morti e 3 feriti. Le autorità italiane reagirono incarcerando 69 civili dei villaggi del luogo, processandoli ed emettendo 28 condanne a morte, 12 ergastoli, 4 a trent'anni di carcere e altri 6 a pene tra i cinque e gli otto anni.[91] Il 1º dicembre 1941 studenti e gruppi armati realizzarono una serie di azioni dimostrative: esplosione di una bomba contro postazioni fasciste, manifestazioni di studenti, astensione della popolazione dalla circolazione e frequentazione dei locali pubblici. L'esercito italiano reagì sparando sui civili e uccidendo 2 persone (Vittorio Meden, Presidente della Federazione commercianti di Lubiana, e Dan Jakor) e ferendo gravemente Grikar Slavo, impiegato presso l'Alto Commissariato.[92]
 
 
Divieto del 1942 di uscire dalla città di Lubiana.
PROCLAMA ALLA POPOLAZIONE SLOVENA
Al momento dell'annessione, l'Italia vittoriosa vi ha dato condizioni estremamente umane e favorevoli.
 
Dipendeva da voi, ed unicamente da voi, di vivere in un'oasi di pace. Invece molti di voi hanno impugnato le armi contro le autorità e le truppe italiane. Queste, per un alto senso di civiltà ed umanità, si sono limitate all'azione militare, evitando misure che gravassero sull'insieme della popolazione ed ostacolassero la normale vita economica del paese.
 
È solo quando i rivoltosi sono trascesi ad orrendi delitti contro italiani isolati, contro vostri pacifici concittadini e persino contro donne e bambini, che le autorità italiane sono ricorse a misure di rappresaglia ed a qualche provvedimento restrittivo, di cui soffrite per causa dei rivoltosi.
 
Ora, poiché i rivoltosi continuano la serie di delitti, e poiché una parte della popolazione persiste nel favorire la ribellione, disponiano quanto segue:
 
1º) A partire da oggi nell'intera Provincia di Lubiana:
 
sono soppressi tutti i treni viaggiatori locali;
è vietato a chiunque viaggiare sui treni in transito, tranne a chi è in possesso di passaporto per le altre provincie del regno e per l'estero;
sono soppresse tutte le autocorriere;
è vietato il movimento con qualsiasi mezzo di locomozione, fra centro abitato e centro abitato;
è vietata la sosta ed il movimento, tranne che nei centri abitati, nello spazio di un chilometro dai due lati delle linee ferroviarie. (Sarà aperto senz'altro il fuoco sui contravventori);
sono soppresse tutte le comunicazioni telefoniche e postali, urbane ed interurbane.
2º) A partire da oggi nell'intera Provincia di Lubiana, saranno immediatamente passati per le armi:
 
coloro che faranno comunque atti di ostilità alle autorità e truppe italiane;
coloro che verranno trovati in possesso di armi, munizioni ed esplosivi;
coloro che favoriranno comunque i rivoltosi;
coloro che verranno trovati in possesso di passaporti, carte di identità e lasciapassare falsificati;
i maschi validi che si troveranno in qualsiasi atteggiamento - senza giustificato motivo - nelle zone di combattimento.
3º) A partire da oggi nell'intera Provincia di Lubiana, saranno rasi al suolo:
 
gli edifizii da cui partiranno offese alle autorità e truppe italiane;
gli edifizii in cui verranno trovate armi, munizioni, esplosivi e materiali bellici;
le abitazioni in cui i proprietari abbiano dato volontariamente ospitalità ai rivoltosi.
Sapendo che fra i rivoltosi si trovano individui che sono stati costretti a seguirli nei boschi, ed altri che si pentono di aver abbandonato le loro case e le loro famiglie, garantiamo salva la vita a coloro che, prima del combattimento, si presentino alle truppe italiane e consegnino loro le armi. Le popolazioni che si manterranno tranquille, e che avranno contegno corretto rispetto alle autorità e alle truppe italiane, non avranno nulla a temere, né per le persone, né per i loro beni.
 
Lubiana -- luglio 1942 - XX
 
Fonte: Fondo Gasparotto b. ff. 8578-8581, presso archivio Fondazione ISEC (Istituto di Storia dell'Età Contemporanea), Sesto S. Giovanni (MI)
 
 
Dettaglio del monumento presso Gramozna jama (Lubiana), su cui sono scolpiti i nomi degli ostaggi fucilati a Lubiana, per rappresaglia (senza regolare processo), da militari dell'Esercito Italiano nella primavera del 1942.
Nella notte fra il 22 e il 23 febbraio 1942 le autorità militari italiane cinsero con filo spinato e reticolati l'intero perimetro di 30 km di Lubiana, al fine di operate un rastrellamento completo della popolazione maschile della città[93] disponendo un ferreo controllo su tutte le entrate e le uscite. La città venne divisa in tredici settori e furono raccolti 18 708 uomini che furono controllati nelle caserme con l'aiuto di delatori sloveni dissimulati; 878 di questi uomini furono mandati in campo di concentramento.[94]
 
A Lubiana nel solo mese del marzo '42 gli italiani fucilarono 102 ostaggi.[95] Un soldato italiano in una lettera inviata a casa il 1º luglio 1942 scrisse:
 
«Abbiamo distrutto tutto da cima a fondo senza risparmiare gli innocenti. Uccidiamo intere famiglie ogni sera, picchiandoli a morte o sparando contro di loro. Se cercano soltanto di muoversi tiriamo senza pietà e chi muore muore.[96]»
 
Un altro scrisse:
 
«Noi abbiamo l'ordine di uccidere tutti e di incendiare tutto quel che incontriamo sul nostro cammino, di modo che contiamo di finirla rapidamente.[96]»
 
Il 24 aprile 1942 Grazioli e Robotti pubblicarono un bando di ammonizione e minaccia contro la popolazione civile slovena:
 
«Considerato che continuano a verificarsi, nel territorio della provincia, efferati delitti da parte di sicari al servizio del comunismo. Ritenuta l'assoluta necessità di stroncare con ogni mezzo tali manifestazioni criminose [...] qualora dovessero verificarsi altri omicidi o tentati omicidi a danno di appartenenti alle Forze Armate, al Capo della polizia, alle amministrazioni dello Stato; di cittadini italiani o di civili sloveni che in qualsiasi modo collaborano lealmente con l'Autorità [...] saranno fucilati [...] elementi di cui sia stata accertata l'appartenenza al comunismo.[senza fonte]»
 
In nove mesi, da fine aprile 1942 a fine gennaio 1943, nella sola città di Lubiana, oltre ai «regolarmente processati», furono liquidati senza processo 21 gruppi di ostaggi per un assieme di 145 uomini (di cui 121 fucilati presso la cava abbandonata Gramozna jama, presso Lubiana). Furono assassinati col solo proposito di intimidire la popolazione, senza processo formale, senza prove di colpevolezza, vittime innocenti, arrestate dalle pattuglie militari nelle vie cittadine e passate per le armi con la pretestuosa motivazione che trattavasi «sicuramente di attivisti comunisti, e quindi coinvolti in azioni di sabotaggio, di cui nel termine prescritto di 48 ore non erano stati individuati i colpevoli». Gli ostaggi venivano scelti sia tra i detenuti delle carceri militari, sia tra individui in capo ai quali il Tribunale Militare non era riuscito a scoprire alcun indizio di accusa.[senza fonte]
 
 
Monumento alle vittime dell'eccidio di Podhum.
Il 12 luglio 1942 nel villaggio di Podhum, per rappresaglia furono fucilati da reparti militari italiani per ordine del Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa tutti gli uomini del villaggio di età compresa tra i 16 ed i 64 anni.
Sul monumento che oggi sorge nei pressi del villaggio sono indicati i nomi delle 91 vittime dell'eccidio. Il resto della popolazione fu deportata nei campi di internamento italiani e le abitazioni furono incendiate.[97][98]
Per colpire la resistenza jugoslava le autorità italiane puntarono sulla deportazione di intere zone popolate da civili in contatto o in grado di parentela con i partigiani. La stessa politica venne perseguita anche nell'adiacente Provincia di Fiume: il locale Prefetto - Temistocle Testa - redasse il 19 giugno 1942 il rapporto "Allontanamento di coniugi di ribelli della Provincia di Fiume". Il prefetto della Provincia di Fiume ha firmato anche il proclama prot. n. 2796, emesso in data 30 maggio 1942, in cui rende nota la punizione inflitta alle famiglie di presunti aderenti alle formazioni partigiane:
 
«[...] Si informano le popolazioni dei territori annessi che con provvedimento odierno sono stati internati i componenti delle suddette famiglie, sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia contro gli atti criminali da parte dei ribelli che turbano le laboriose popolazioni di questi territori [...][99]»
 
Lo stesso Prefetto di Fiume fu anche il destinatario della seguente relazione resa dal Commissario Prefettizio di Primano:
 
«Il giorno 4/6/1942/XX alle ore 13:30 furono incendiati da parte degli squadristi del II° Battaglione di stanza a Cosale le case delle seguenti frazioni del Comune di Primano: Bittigne di Sotto...,Bittigne di Sopra..., Monte Chilovi..., Rattecievo in Monte... [...] Durante le operazioni di distruzione ... è stata fatta una esecuzione in massa di n. 24 persone appartenenti alle frazioni di Monte Chilovi e Rattecevo in Monte. [...] poiché è da temersi una immediata rappresaglia, si prega vivamente di voler inviare con tutta sollecitudine dei rinforzi.»
 
(IL COMMISSARIO PREFETTIZIO Attilio Orsarri, 5 giugno 1942[100][101])
Un comunicato del generale Lorenzo Bravarone documenta l'azione di intimidazione compiuta dai militari italiani in data 6 giugno 1942 nei pressi di Abbazia, che comportò la fucilazione sommaria di 12 persone e la deportazione di 131 loro familiari.[102]
 
Secondo fonti slovene e jugoslave, in 29 mesi di occupazione italiana della Provincia di Lubiana, vennero fucilati o come ostaggi o durante operazioni di rastrellamento circa 5 000 civili, ai quali furono aggiunti 200 bruciati vivi o massacrati in modo diverso, 900 partigiani catturati e fucilati e oltre 7 000 (su 33 000 deportati) persone, in buona parte anziani, donne e bambini, morti nei campi di concentramento. In totale quindi si arrivò alla cifra di circa 13 100 persone uccise su un totale di 339 751, al momento dell'annessione, quindi il 3,8% della popolazione totale della provincia.[103] Il tutto è da inquadrarsi nell'ambito del teatro di guerra jugoslavo-balcanico, che vide dal 1941 al 1945 la morte di oltre 89 000 sloveni su una popolazione di 1,49 milioni, pari al 6%.[104]
 
Gli italiani in Dalmazia