Regionalismo (Italia): differenze tra le versioni

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Il '''regionalismo''', o '''decentramento regionale''', in [[Italia]], è il processo di [[decentramento]] che ha portato a concedere [[autonomia (politica)|autonomia]] legislativa e amministrativa alle [[Regioni d'Italia|regioni italiane]].
 
Il decentramento amministrativo è stato introdotto nel 1948 con la [[Costituzione Italiana]], in cui viene esplicitamente citato all'articolo 5, come principio alternativo e opposto al principio dell'accentramento amministrativo. Il più ampio decentramento amministrativo viene realizzato concretamente attraverso l'attribuzione delle relative funzioni a organi diversi da quelli centrali, ovvero gli enti locali. Sebbene costituzionalmente previsto, il decentramento avvenne in maniera graduale e progressivo, in tema si ricordano la [[legge 16 maggio 1970, n. 281|]], la [[legge 22 luglio 1975, n. 382]] e il [[d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112]].
 
I suoi fautori sostengono che il decentramento regionale offra maggiori garanzie contro ogni attentato alla libertà: esso risponderebbe agli effettivi bisogni della vita del paese (autonomie amministrative che comportano una maggiore conoscenza dei problemi economici della singola regione), varia nella sua unità, e permetterebbe una struttura dello Stato più articolata e democratica.
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Il 13 agosto – quando [[Garibaldi]] aveva già conquistato la Sicilia e si apprestava a risalire la Calabria diretto a Napoli – Luigi Carlo Farini aprì ufficialmente i lavori della Commissione delineando un piano di riassetto dei poteri territoriali. Farini partì dal presupposto che occorresse «rispettare le membranature naturali dell'Italia». In altre parole, occorreva prendere atto dello storico frazionamento della penisola in più stati e accettare i confini degli stati preunitari nel nuovo ordinamento: così, le antiche frontiere interne sarebbero divenute fattore di coesione. Il documento, detto ''Nota Farini'' (anche se fu redatto dal segretario della commissione, [[Gaspare Finali]]), elencava sei aggregati interprovinciali: Piemonte, Sardegna, Liguria, Lombardia, «Emilia» (nome che designava all'epoca il territorio da Piacenza a Cattolica) e Toscana. La Nota fu recepita il 31 agosto [[1860]] in un progetto di legge.
 
Gli eventi militari si susseguirono con tale rapidità da scavalcare in breve tempo il progetto della commissione: in settembre l'esercito sabaudo conquistò Marche ed Umbria (cui seguì il plebiscito d'annessione); nel Sud l'avanzata dei Mille di Garibaldi procedeva sicura, tanto che si prospettava un trionfo per il generale nizzardo. Farini si sentì improvvisamente al di fuori dei giochi e, deciso a non farsi sopraffare dagli eventi, il 28 settembre partì per Napoli al seguito di [[Vittorio Emanuele II]]<ref>L'ex [[Regno delle Due Sicilie]] fu annesso il 21 ottobre.</ref>. I lavori della commissione proseguirono con il successore di Farini agli Interni, [[Marco Minghetti]].
 
In breve tempo Minghetti elaborò il proprio progetto (nota orientativa del 28 novembre 1860) ribaltando la prospettiva di Farini: secondo il nuovo ministro la provincia era il vero perno delle tradizioni locali; l'istituzione delle regioni (di cui non venne fornito l'elenco) era contemplata solo in via transitoria, per «facilitare il trapasso dallo stato di divisione» alla formazione di un ordinamento politico coeso. Il «discentramento amministrativo» prefigurava l'istituzione di un ente intermedio tra Province e Stato, il «consorzio interprovinciale», le cui competenze comprendevano: 1) lavori pubblici; 2) scuole pubbliche superiori; 3) bonifiche fondiarie, caccia e pesca. Per quanto riguarda gli organi direttivi, come la provincia aveva un consiglio ed era guidata da un organo monocratico (il prefetto), così il consorzio interprovinciale sarebbe stato guidato da un «Governatore» con poteri effettivi, concepito come "delegato del ministro dell'Interno".
 
L'anno seguente, all'inizio della [[VIII Legislatura del Regno di Sardegna]], la commissione guidata da Minghetti consegnò il progetto in Consiglio dei Ministri, che approvò quattro decreti per la sua realizzazione. Il 13 marzo [[1861]] Minghetti presentò al Parlamento subalpino i decreti. Contro di essi si formò un'ampia e trasversale maggioranza. Per evitare un repentino affossamento, il ministro ottenne di trasferire il dibattito in commissione, dove però il progetto fu bocciato (22 giugno 1861). Infine, il presidente del Consiglio [[Bettino Ricasoli]] il 9 ottobre di quell'anno abolì le Luogotenenze di Firenze, Napoli, Palermo, dichiarando la cessazione dell'autonomia della Toscana e dell'ex Regno delle Due Sicilie. Il regionalismo era definitivamente affossato. Fu preferito il modello napoleonico, che non prevedeva nessun organo sovraprovinciale.
 
Nel [[1864]], quando emerse la necessità di realizzare le prime statistiche nazionali sociali ed economiche, si dovette ovviare alla mancanza delle regioni. Il primo coordinatore della statistica nazionale, [[Pietro Maestri]], superò il problema "ritagliando" delle circoscrizioni territoriali "secondo la loro coesione topografica". Il Maestri, cioè, non eseguì il suo lavoro basandosi su criteri storici, ma effettuò un puro e semplice raggruppamento di province. L'autore, inoltre, sostenne che la propria ripartizione aveva valore provvisorio, nell'attesa che i criteri di ripartizione fossero meglio definiti. Era nato il primo riparto statistico del territorio italiano.
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