Festival di Berlino 1960: differenze tra le versioni

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== Storia ==
Al suo 10º anno la ''Berlinale'' registrò un'edizione sottotono rispetto a quelle precedenti.<ref name="berlinale.1960"/> La stampa scandalistica lamentò una carenza di ''[[glamour]]'' a causa delle poche star femminili e delle numerose presenze maschili tra cui [[Richard Widmark]], [[Gene Kelly]], [[Richard Attenborough]], [[Jean Gabin]], [[Jean-Paul Belmondo]] e [[Vittorio Gassman]].<ref name="berlinale.boulevard">{{Cita web|url=https://www.berlinale.de/en/archiv/jahresarchive/1960/05_boulevard_1960/05_Boulevard_1960.html|titolo=Photo Boulevard 1960|editore=www.berlinale.de|accesso=26 ottobre 2017}}</ref><ref name=Jacobsen.95>{{Cita|Jacobsen (2000)|p. 95}}.</ref> Se Hans Borgelt, press manager della manifestazione, ci tenne a sottolineare che il Festival di Berlino non era un "Sexival", la giornalista Karena Niehoff scrisse su ''Der Tagesspiegel'' il 10 luglio 1960: «La mancanza di glamour, malizia e moda (che in realtà non sono poi così male) non è qualcosa di cui essere orgogliosi, e il fatto che le sporche operazioni di carriera delle attrici portino frutti più modesti (o nascosti) rispetto alla ben organizzata industria cinematografica maschile può essere utile per alcuni aspetti, ma non dice niente della qualità dei film e non li migliora neanche un po'».<ref name="Jacobsen.95"/>
 
Allo stesso tempo cominciarono ad emergere i primi segnali significativi che un cambiamento stava avvenendo nei contenuti. Il ''[[Free Cinema]]'', il ''[[Cinéma Nôvo]]'' e soprattutto la ''[[Nouvelle Vague]]'' stavano emergendo e in pochi anni avrebbero portato a considerare ormai morto il cosiddetto "cinema dei padri", quello degli studios tradizionali e delle grandi star con cui i festival avevano attraversato i loro anni d'oro.<ref name="berlinale.1960"/>
 
In realtà, gran parte della critica ritenne proprio il neonato movimento cinematografico francese già smarrito moralmente e nonostante la presenza di opere che sarebbero diventate pietre miliari, molti percepirono la strada intrapresa dalla ''Berlinale'' come una strada sbagliata.<ref name="berlinale.1960"/> Nei film di [[Jean-Luc Godard]] (''[[Fino all'ultimo respiro (film)|Fino all'ultimo respiro]]'') e [[Robert Bresson]] (''[[Diario di un ladro]]'') molti commentatori videro solo la trasgressione dei codici morali e un incitamento ad atti criminali.<ref name="berlinale.1960"/> Irene Pulst espresse sullo ''Spandauer Volksblatt'' la sua indignazione per «l'inganno giocato con la parola magica ''Nouvelle Vague'', con la quale non vogliamo avere più niente a che fare dato che è stata attribuita a soggetti pronti per la prigione».<ref name=Jacobsen.97>{{Cita|Jacobsen (2000)|p. 97}}.</ref> Anche Heinz Mudrich, nella sua relazione conclusiva per la ''Berlinale'' parlò di «un'ondata criminale del marchio "ruba se ti riesce". Prima di tutto c'è stato questo ''Diario di un ladro'', in cui il regista francese del "fai da te" Robert Bresson non mostra molto di più di un borseggiatore (...) per non parlare del morboso Michel di ''Fino all'ultimo respiro'', che ruba le automobili come fossero noccioline».<ref name="Jacobsen.97"/>
 
{{Approfondimento
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|titolo = <div style="text-align:center;">Il cinema del terzo mondo, una scelta contestata</div>
|contenuto = Una novità di questa edizione fu l'aumento del numero di film provenienti da paesi come Pakistan, Corea, Thailandia, Egitto e India, la cui partecipazione era sempre stata incentivata dal direttore [[Alfred Bauer]].<ref name=Jacobsen.96>{{Cita|Jacobsen (2000)|p. 96}}.</ref> Questa scelta non incontrò l'approvazione della critica che la vide come una "misura umanitaria" sbagliata.<ref name="berlinale.1960"/> «Lo schermo è stato semplicemente inondato da esperimenti provenienti da Paesi con industrie cinematografiche sottovalutate», scrisse Dora Fehling sul ''Telegraf'', «è stato impossibile non annoiarsi a guardare questa sovrabbondanza completamente disinibita di immagini esotiche. Il fastidio di così tanto sforzo sprecato è stato alleviato solo dalla pietà per coloro che erano stati così sconsiderati».<ref name="Jacobsen.96"/> Nonostante le obiezioni Bauer restò fedele alla sua politica e trovò anche l'appoggio del [[Senato di Berlino]], che nella settima sessione del consiglio consultivo tradusse questa politica in una semplice formula: «Conquistare i paesi sottosviluppati per non lasciare che siano tentati dall'Est».<ref name="Jacobsen.96"/>}}
 
Solo in pochi elogiarono il coraggio della giuria nell'assegnare l'Orso d'Argento per la miglior regia a Godard. Il critico Friedrich Luft del ''[[Süddeutsche Zeitung]]'' mostrò un atteggiamento più distaccato dei suoi colleghi in un articolo del 7 luglio 1960: «Per la giuria non è stato facile, non c'era niente di eccezionale. Premiare il talentuoso regista francese Jean-Luc Godard per ''Fino all'ultimo respiro'' è stato giusto e coraggioso».<ref name=Jacobsen.98>{{Cita|Jacobsen (2000)|p. 98}}.</ref> Su ''Die Zeit'', l'8 luglio Thilo Koch riconobbe nella regia di Godard «un senso drammatico nella migliore tradizione francese», aggiungendo: «Superficialmente il film ha usato mezzi molto modesti (...) ma le performance di [[Jean Seberg]] e [[Jean-Paul Belmondo]] offrono più di quanto avrebbero potuto fare il [[CinemaScope]] o il [[Technicolor]]».<ref name="Jacobsen.97"/>
 
Oggetto di critiche furono anche l’aumento del numero di film provenienti dai cosiddetti "Paesi in via di sviluppo" e la qualità dei cortometraggi, definiti da Ethel Schwirten del ''[[Frankfurter Rundschau]]'' niente più che brochure di viaggio e relazioni di fabbrica, mentre sul ''Telegraf'' la giornalista Dora Fehling scrisse: «Niente di provocatorio, niente di immaginativo, niente slanci».<ref name="Jacobsen.97"/>