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| style="text-align: left;"|<div align="center">'''La nostra ''squarciona''<ref>La parola, quasi sicuramente di origine napoletana (Farinelli tradiva spesso le sue origini meridionali), è costruita sul verbo 'squarciare' come 'spaccone' è costruito su 'spaccare', e ne è praticamente un sinonimo ([http://www.treccani.it/vocabolario/squarcione/ Vocabolario Treccani]).</ref> Tesi'''</div>
[[Farinelli]] e la Tesi erano praticamente coetanei (più giovane di quattro anni il castrato) e si erano già incontrati in palcoscenico prima della cantata di [[Johann Adolf Hasse|Hasse]] a Napoli nel 1725, della quale si riferisce nel corpo della voce. Dopo di allora si sarebbero ritrovati di sovente, muovendosi poi indiemeinsieme, agli inizi degli anni Trenta, per intere stagioni. Tra i due si stabilì un rapporto di consonanza artistica, di cameratismo e di amicizia profonda e, «in strategica complicità i due si opposero, a registri invertiti, alla coppia formata dal soprano [[Francesca Cuzzoni]] e dal contralto Francesco Bernardi detto il [[Senesino]]».<ref name="Lora" /> Il rapporto era destinato a durare nel tempo. Una volta stabilitosi a Madrid, il Farinelli riuscì a convincere, grazie soprattutto ad un contratto principesco, la Tesi a fare l'unica puntata all'estero della sua lunga stagione italiana e rimase confermato nella sua fiducia sulle qualità artistiche della Fiorentina. Riferendosi alla sua esibizione come Berenice nel ''Farnace'' di [[Francesco Corselli]] scriveva (esagerando, come al solito, nella deferenza per i Reali di Spagna, qui addirittura definiti in modo blasfemo):
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«la nostra Tesi ha saputo con quel suo spirito ebrio farsi distinguere sopra tutti della compagnia ed ha ottenuto la sorte che i Numi del Supremo Altare si sono dichiarati per lei, poiché il suo recitare colla bella figura fece comparire il resto (come dicono qui) serve sue».<br>Lettera al conte Sicinio Pepoli,<br>Madrid, 14 novembre 1739<ref>''La solitudine amica'', p. 158.</ref>
</blockquote>
Una decina di anni dopo, anche Mestastasio, "gemello" (come a loro piaceva dichiararsi) del Farinelli, si univa al gruppo definendo la cantante come «la <u>nostra</u> impareggiabile africana Tesi».<ref>Lettera al Signor Cavaliere Carlo Broschi detto Farinelli del 29 giugno 1748, in ''Raccolta di lettere scientifiche, familiari, e giocose dell'abate Pietro Metastasio romano'', Roma, a spese di Pietro Puccinelli, s.d., IV p. 44 (sottolineatura del redattore; la lettera è reperibile ''online'' presso [https://books.google.it/books?id=jGgQZ-uUezQC&pg=PA44&lpg=PA44&dq=nostra+impareggiabile+africana+Tesi&source=bl&ots=JFHS50ssrm&sig=ACfU3U0eeRAit4upbpgEM2Uw24VwxL1LfQ&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwiMhe64xp7oAhUI2aYKHV9wBFEQ6AEwAXoECAsQAQ#v=onepage&q=nostra%20impareggiabile%20africana%20Tesi&f=false Google Books]).</ref>
 
L'occhio affettuoso e scanzonato con la quale il Farinelli guardava la Tesi (di cui non aveva mai apprezzato il comportamento licenzioso) traspare in un'altra delle lettere che il cantante scrisse da Madrid al conte Pepoli, quasi un padre per lui, dalla quale si colgono bene i suoi sentimenti, al di là della relativa oscurità della seconda parte.
 
{{Citazione|la nostra Tesi ha saputo con quel suo spirito ebrio farsi distinguere sopra tutti della compagnia ed ha ottenuto la sorte che i Numi del Supremo Altare si sono dichiarati per lei, poiché il suo recitare colla bella figura fece comparire il resto (come dicono qui) serve sue.|Lettera al conte Sicinio Pepoli, Madrid, 14 novembre 1739<ref>''La solitudine amica'', p. 158.</ref>}}
 
Una decina di anni dopo, anche Mestastasio, "gemello" (come a loro piaceva dichiararsi) del Farinelli, si univa al gruppo definendo la cantante come «la <u>nostra</u> impareggiabile africana Tesi».<ref>Lettera al Signor Cavaliere Carlo Broschi detto Farinelli del 29 giugno 1748, in ''Raccolta di lettere scientifiche, familiari, e giocose dell'abate Pietro Metastasio romano'', Roma, a spese di Pietro Puccinelli, s.d., IV p. 44 (sottolineatura del redattore; la lettera è reperibile ''online'' presso [https://books.google.it/books?id=jGgQZ-uUezQC&pg=PA44&lpg=PA44&dq=nostra+impareggiabile+africana+Tesi&source=bl&ots=JFHS50ssrm&sig=ACfU3U0eeRAit4upbpgEM2Uw24VwxL1LfQ&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwiMhe64xp7oAhUI2aYKHV9wBFEQ6AEwAXoECAsQAQ#v=onepage&q=nostra%20impareggiabile%20africana%20Tesi&f=false Google Books]).</ref>
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'''"'''Così un giorno, si trattava allora dell<nowiki>'</nowiki>''Ifigenia in Tauride'', accadde ch'io mi fossi accorto che, nel corso della rappresentazione precedente, erano stati aggiunti dei [[Piatto (strumento musicale)|piatti]] nella prima aria di danza degli Sciti in si minore, dove Gluck non ha impiegato che degli strumenti ad arco, e che nei grandi recitativi di Oreste, al terzo atto, le parti dei [[Trombone|tromboni]], così ammirevolmente motivate dalle ragioni della scena, e scritte nella partitura, non erano state eseguite. Avevo deciso che, se gli stessi errori si fossero ripetuti, li avrei segnalati. Quando dunque il balletto degli Sciti iniziò, aspettai i miei piatti al varco; si fecero sentire, come la volta precedente, all'aria che ho detta. Ribollivo dalla collera, ma mi trattenni tuttavia fino alla fine del pezzo, e, approfittando del breve momento di silenzio che separa dal brano seguente, mi misi a gridare con tutta la forza della mia voce:<br />«Non ci sono piatti lì dentro; chi dunque si permette di correggere Gluck?».<ref>In nota, a questo punto, Berlioz precisa che i piatti sono bensì previsti da Gluck, ma solo nel precedente coro degli Sciti, ''Les dieux apaisent leur courroux''.</ref><br />Si immagini il brusio! Il pubblico, che non ci vede mai molto chiaro in queste faccende d'arte, e al quale era assolutamente indifferente se si cambiava o no la strumentazione dell'autore, non capiva nulla del furore di quel giovane pazzo della platea. Ma ben di peggio accadde quando, al terzo atto, dato che, come previsto, la soppressione dei tromboni nel monologo di Oreste ebbe luogo, la medesima voce fece udire queste parole: «I tromboni non hanno attaccato! È insopportabile». [...]<br />... alla rappresentazioni seguenti tutto ritornò al dovuto ordine, i piatti tacquero, i tromboni suonarono, e io mi accontentai di borbottare tra i denti: «Ah! è ben bello!»'''"'''<ref>La traduzione italiana è tratta da: Hector Berlioz, ''Memorie'', a cura di [[Olga Visentini (musicologa)|Olga Visentini]], Pordenone, Studio Tesi, 1989, pp. 319-320. ISBN 88-7692-173-7.</ref>
L'occhio affettuoso e scanzonato con la quale il Farinelli guardava la Tesi (di cui non aveva mai apprezzato il comportamento licenzioso) traspare in un'altra delle lettere che il cantante scrisse da Madrid al conte Pepoli, quasi un padre per lui, dalla quale si colgono bene i suoi sentimenti, al di là della relativa oscurità della seconda parte. Farinelli chiede notizie circa l'«opera bellissima» andata in scena al Teatro Malvezzi di Bologna il 5 maggio 1742, l<nowiki>'</nowiki>''Eumene'' di [[Niccolò Jommelli|Jommelli]], con la presenza di due grandi prime donne fiorentine ben conosciute dal cantante: l'una sul palcoscenico, Giustina Turcotti (circa 1700-dopo 1763), uno splendido soprano nota soprattutto per la strabordante obesità, e l'altra in platea, la Tesi, che non era riuscita a farsi ingaggiare dal teatro di [[Reggio Emilia]] ed era restata provvisoriamente disoccupata. Non solo, ma è datata 7 aprile dello stesso anno anche l'ultima lettera da lei inviata al Piccolomini, in cui prendeva atto del benservito datole dal prelato, e quindi aveva probabilmente il cuore infranto. Farinelli anzi allude anche a una sua intenzione di ritirarsi a Padova, la città di S. Antonio, dove il marito possedeva un palazzo. Questo è un estratto della sua lettera.
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{{Citazione|Di grazia mi dica un poco: la Turcotti è smacrita, o conserva quella sua grassezza smisurata? Io a questa gli desidero tutto il bene, perché le sue maniere sono diverse dalle altre prime donne.<br>Quante spaccate cuviellerie<ref>"Spacconate, vanterie. Da ''Coviello'' maschera della Commedia dell'Arte" (Francesca Boris, ''Glossario'', in ''La solitudine amica...'', p. 246</ref> avrà costì sparate la nostra squarciona Tesi? Mi pare di vederla; mi dispiace ch'ella abbia provato il dispiacere della perdita del Teatro di Reggio. Non so se perderà lo stile di ferire, quantunque si voglia riposare dove San Antonio tien trono. In qualunque luoco la palma è perduta, l'arte di colpire non so se trova ricetto nella bontà degli uomini ch'ella goder soleva; fa bene a condursi in luogo ritirato e da bene. Il marito non avrà di che dolersi. E viva!|Lettera al conte Sicinio Pepoli, Aranguez, 8 maggio 1742<ref>''La solitudine amica'', p. 180.</ref>}}
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