Gaio Musonio Rufo: differenze tra le versioni

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Sulla vita di Gaio Musonio Rufo, filosofo [[neostoicismo|neostoico]], si posseggono poche notizie certe. È noto che nacque a ''Volsinii'', corrispondente all'odierna [[Bolsena]], in [[Etruria]], che fu cavaliere e visse nel [[I secolo d.C.]], all'incirca tra il 30 e il 100.
 
Il ''praenomen'' Gaius (abbreviato nella tradizione latina in ''C''.) lo conosciamo solo attraverso Plinio il Giovane, che ci fornisce anche un’altra notizia su una sua figlia (presumibilmente chiamata ''Musonia'', secondo l’uso romano), che fu sposata ad un certo Artemidoro, di probabile origine siriana, al quale Plinio prestò aiuto anche per stima e affetto nei confronti del suocero (''Epistole'', III, 11). Sappiamo dalla voce ''Mousonios'' della ''Suda'' (lessico ed enciclopedia bizantina del X secolo) che egli fu figlio di Capitone ma non abbiamo altre notizie sulla sua famiglia, che era comunque di origine etrusca. Il ''nomen'' ''Musonius'', che doveva denotare la ''gens'' - e che [[Giacomo Leopardi|Leopardi]] nello ''[[Zibaldone]]'' cita come esempio famoso, benché raro, di nome greco che precede il ''cognomen'' latino ''Rufus'' - viene indicato da alcuni studiosi della lingua etrusca come forma latina del gentilizio etrusco ''Musu'' , ''Muśu-nia''.
 
Fra il 55 e il 60 fu a capo a [[Roma (città antica)|Roma]] di un circolo filosofico-letterario e si dedicò anche alla politica, con idee abbastanza tradizionali e moderate. Fece parte del gruppo creatosi intorno a Rubellio [[Plauto]], giovane discendente della famiglia Giulia. Quando questo nel 60 fu allontanato da Roma in via precauzionale da [[Nerone]], Musonio lo seguì in [[Asia]]; sappiamo che due anni dopo giunse l'ordine dell'imperatore di eliminare Rubellio Plauto. Musonio ritornò a [[Roma]], ma nel 65, in concomitanza della congiura pisoniana venne mandato in esilio (in quanto allievo di [[Seneca]]) nell'isola di Gyaros, inospitale e rocciosa nel [[Mar Egeo]].
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Indicativi della sua integrità morale e della sua coerenza sono altri due momenti della sua vita, entrambi riportati da Tacito nelle ''Storie'' (105).
 
Nel 69, dopo essere ritornato dall’esilio, forse grazie all’imperatore Galba, con il quale sembra fosse in amicizia, nella fase finale della guerra civile seguita alla morte di Nerone, Musonio si rese protagonista di un primo episodio significativo, rivelatore della sua generosa attitudine a mettere in pratica i principi morali e gli ideali di pace che insegnava. In una Roma che era teatro di violenti scontri tra le fazioni avverse, il filosofo di ''Volsinii'' si impegnò a svolgere un’improbabile opera di pacificazione, sulla quale non mancarono di appuntarsi lo scherno e il crudo realismo di Tacito. Il grande storico romano così racconta la vicenda: «S’era mescolato agli ambasciatori Musonio Rufo, di ordine equestre, zelante filosofo e seguace dei precetti dello stoicismo, ed in mezzo ai manipoli prendeva ad ammonire gli uomini armati con le sue disquisizioni sui beni della pace e sui mali casi della guerra. Ciò fu per molti motivo di scherno; per la maggioranza, di fastidio. E non mancava chi l’avrebbe spinto via o l’avrebbe calpestato, se, dietro consiglio dei più equilibrati e fra le minacce di altri, non avesse deposto la sua inopportuna esposizione di saggezza».
 
Il secondo episodio, sempre riferito alla fine del 69, ci presenta Musonio Rufo impegnato nella riabilitazione della memoria dell’amico Barea Sorano, che nel 66 era stato sottoposto a processo e condannato a morte insieme alla figlia Servilia e a Trasea Peto. Contro di lui era stata resa una falsa testimonianza da parte del suo stesso maestro, Publio Egnazio Celere, anche lui appartenente alla corrente stoica. Musonio, che pure nei suoi insegnamenti si dichiarava contrario ad intentare cause per difendere se stesso dalle offese ricevute, in questo caso non esita ad accusare in Senato il traditore per difendere la memoria dell’amico condannato ingiustamente. Come scrive Tacito: «Allora Musonio Rufo attaccò Publio Celere, accusandolo di aver attaccato Barea Sorano con una falsa testimonianza. Evidentemente con quell’accusa si rinnovavano gli odii delle delazioni. Ma l’accusato, vile e colpevole, non poteva essere difeso: di Sorano era santa la memoria; Celere, che faceva professione di sapienza, testimoniando contro Barea, aveva tradito e violato l’amicizia». Musonio portò avanti con tenacia il suo impegno, che fu coronato da successo: «Fu deciso allora di riaprire il processo tra Musonio Rufo e Publio Celere: Publio venne condannato ed ai Mani di Sorano fu resa soddisfazione. Quel giorno, che si distinse per la severità dei magistrati, non mancò nemmeno di elogi ad un cittadino privato. Si era, infatti, del parere che Musonio avesse agito con giustizia in tribunale. Opinione ben diversa si aveva di Demetrio, seguace della scuola cinica, in quanto aveva difeso, più per ambizione che con onore, un reo manifesto. Quanto a Publio, non ebbe né animo, né eloquenza sufficienti in quel frangente».
 
Più tardi riuscì a guadagnarsi la stima di [[Vespasiano]] evitando la cacciata dei filosofi del 71. Ci fu però un secondo esilio intorno all'80. Dopo il suo rientro a Roma, voluto da [[Tito (imperatore)|Tito]], le fonti tacciono. Potrebbe essere stato espulso da Roma nel 94, assieme agli altri filosofi, a causa di un senatoconsulto sollecitato da [[Domiziano]], che fece uccidere [[Aruleno Rustico]] e cacciare [[Epitteto]] e altri. Da un'epistola di [[Plinio il Giovane]], dell'inizio del [[II secolo]], si apprende che egli non è più in vita.
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L'educazione filosofica però, essendo rivolta a tutti, comprende anche e soprattutto coloro che detengono il potere. Il sovrano (concetto platonico) deve conoscere il bene per se e per il suo popolo. Egli deve perciò studiare e interiorizzare la filosofia: solo chi sa governare se stesso può governare gli altri, perciò Musonio afferma con certezza che: "il sovrano deve fare filosofia, perché altrimenti, se non filosofasse, non conoscerebbe evidentemente la giustizia ed il giusto". Il sovrano e la legge finiscono così per identificarsi ribadendo quel forte connubio tra spirito e materia, equilibrio tra le parti, armonia del tutto che si dipana attraverso il pensare filosofico.
 
Aldilà del ruolo che ognuno interpreta nella vita, ciò che davvero rende la filosofia una “scienza regale” è la sua vocazione ad insegnare ad ogni uomo la via del governo di sé. Da questo punto di vista, del tutto in linea con l’ideale cinico e stoico dell’autosufficienza del saggio, non sorprende che tra le varie occupazioni Musonio prediliga la coltivazione della terra come l'occupazione più adatta al filosofo. La preferenza di Musonio per l’attività agricola, anche per la passione e la concretezza con cui è argomentata, sembra andare oltre la semplice adesione ad un modello convenzionale. «La terra in effetti – egli afferma – ricambia con i frutti più belli e più giusti coloro che si prendono cura di essa, dando molte volte tanto quel che riceve ed offrendo grande abbondanza di tutto quanto è necessario per vivere a chi ha la volontà di faticare: e tutto questo con decenza, nulla di ciò con vergogna». E’È sempre il motivo del governo di sé e dell’autosufficienza del saggio a giustificare la predilezione per l’agricoltura: arare, seminare, coltivare la vigna, mietere, trebbiare sono attività degne di un uomo libero perché «non aver bisogno di un altro per le proprie necessità è molto più dignitoso che l’averne bisogno».
 
Tra tutte le attività agricole, poi, quella che a Musonio piace di più è la pastorizia, che non affatica troppo il corpo e «offre all’anima più tempo libero per riflettere e ricercare su quanto concerne l’educazione». Il lavoro della terra non deve infatti impedire di filosofare, né di svolgere l’attività educativa nei confronti dei giovani. Anzi, la possibilità di vivere e insegnare in campagna rende più agevole realizzare l’ideale tipico delle scuole ellenistiche, che consiste nella comunanza di vita tra persone che condividono la stessa tensione verso la ricerca spirituale. «Infatti – argomenta Musonio – di coloro che veramente amano la filosofia, non c’è nessuno che non desidererebbe vivere in campagna con un uomo virtuoso, anche se il podere dovesse essere particolarmente poco accogliente, sapendo che ricaverà grandi guadagni da questo soggiorno, grazie alla vita in comune con il maestro notte e giorno, perché sta lontano dai mali della città che sono impedimento al filosofare».
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“secco splendore è l’anima saggia e migliore”» (''XVIII A'').
 
Molto radicata e diffusa nelle tradizioni spirituali orientali, la pratica dell’astinenza dalla carne intorno al VI secolo a.C. era attestata anche in Grecia tra gli appartenenti alla corrente mistica dell’orfismo, connessa con la dottrina della metempsicosi, la trasmigrazione delle anime in corpi diversi, anche di altre specie animali. Tra le scuole filosofiche, questa dottrina era stata ripresa dai Pitagorici; e con essa la pratica del vegetarismo, anche se riguardo a questo aspetto specifico le fonti antiche su Pitagora non sono coerenti.
 
Comunque gli elementi che più impegnano con la dottrina pitagorica della metempsicosi sono assenti nelle diatribe di Musonio. La scelta in favore dell’astinenza dalla carne e più in generale della ''xerofagia'' (il mangiare “magro”, “asciutto”) è motivata dal filosofo etrusco con ragioni di carattere ascetico: un’alimentazione appropriata favorisce la salute del corpo e dell’anima, la purezza della contemplazione, l’elevazione spirituale e l’assimilazione alla divinità.
 
La corretta pratica alimentare è dunque parte integrante della vita filosofica, intesa come esercizio spirituale di allenamento al governo delle passioni e al miglioramento di sé.
 
Questo per quanto riguarda i punti fondamentali del pensiero musoniano, ma nelle diatribe si possono anche trovare dei consigli di carattere più leggero ed esteriore, ad esempio riguardo all'abbigliamento o all'aspetto fisico. Ciò però non deve in alcun modo sminuire la riflessione del nostro filosofo, infatti non bisogna mai dimenticare, nell'affrontare lo studio di tali personaggi, che il loro campo d'indagine rimane sempre e in primo luogo quello della vita vissuta, con tutti i suoi accidenti, i suoi limiti e, per forza di cose, i suoi compromessi.