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Questa ricchezza di vocaboli e frasi scurrili e (solo apparentemente) offensivi, deriva verosimilmente da una tradizione linguistica della [[Roma]] [[papalino|papalina]], in cui il popolano rozzo e incolto (ma nobili e clero non parlavano molto diversamente; vedi, in proposito, l'aneddoto raccontato da [[Giggi Zanazzo]] in “Tradizioni popolari”, a proposito del papa parolacciaro [[Benedetto XIV]] Lambertini)<ref>Giggi Zanazzo, ''Tradizioni popolari romane'', (rist. anast. Torino-Roma, 1907) ed. Forni.</ref> usava esprimersi con un linguaggio spontaneo e colorito che, trascurando la ricerca di sinonimi e alternative concettuali, manifesta quella praticità espressiva di utilizzo verbale che è caratteristica principale del bagaglio culturale popolare. Tale spontaneità è quindi priva di inibizioni ed affida la ricchezza dell'espressione non tanto alla scelta del vocabolo quanto piuttosto alla sonorità, al significato convenzionale e, spesso, al contesto. In questo senso nel dialetto romanesco la parolaccia, la sconcezza o la bestemmia (il “moccolo”) nella maggior parte dei casi prescinde assolutamente dal suo significato letterale o comunque offensivo e – caratteristica frequente tra gli appartenenti al medesimo gruppo linguistico-dialettale – assume un senso simbolico comunemente accettato e riconosciuto.
Così è del tutto normale che una madre richiami il figlio con un ''“vviè cqua, a fijo de
In modo analogo, incontrando una persona la si può salutare con un ''“Ahó, come stai? Possin'ammazzatte!”'' in cui l'apparente incoerenza tra l'informarsi del suo stato di salute e contemporaneamente l'augurare una morte violenta è da entrambi gli interlocutori riconosciuta come una normale espressione di cordialità. Simile come concetto, ma ben diverso nell'uso e nel significato, è il ''“va' mmorì ammazzato!”'' (spesso accompagnato da un significativo gesto con il braccio) che viene solitamente utilizzato a suggello conclusivo e dimostrativo della forte disapprovazione di un atteggiamento o di un discorso altrui.<ref name="ReferenceA">P. Carciotto - G. Roberti ''"L'anima de li mottacci nostri - Parolacce, bestemmie inventate, modi di dire e imprecazioni in bocca al popolo romano"'' - Grafiche Reali Ed.</ref>
Sullo stesso tema una coloratissima espressione coniata dal [[Giuseppe Gioachino Belli|Belli]] storpiando l'originale frase latina: ''“requie schiatt'in pace!”'' che, lungi dall'augurare a qualcuno di "schiattare", usa un po' di cattiveria per mandarlo semplicemente a quel paese. Non diverso è il tono ed il significato di ''“possi campà quanto
==== La "metafisica" de ''li mortacci tua'' ====
[[File:All-ombra.jpg|thumb|upright=1.8|left|Poesia di [[Trilussa]]]]
L'adulatore è un ''“leccaculo”'', e quando subisce passivamente una prepotenza o si sottomette pavidamente alle situazioni o alle persone, magari scendendo a compromessi poco dignitosi, si ''“appecorona”'' (= si mette carponi). Un individuo particolarmente sfrontato e dotato di faccia tosta e quindi privo di vergogna, ha la ''“faccia com' er culo”'' che dovrebbe pertanto provvedere a nascondere. Il dialetto romanesco, che non si preoccupa di cercare sinonimi per frasi “indecenti”, mostra di possedere invece una grande dose di fantasia nel trovare forme alternative a concetti sconci, che lasciano però inalterata l'immagine originaria; così, lo stesso significato della frase precedente viene illustrato da locuzioni come ''“fasse er bidè ar grugno”'', ''“mettese 'e mutanne 'n faccia”'' o ''“soffiasse er naso caa cart'iggennica”''. Sempre sullo stesso soggetto troviamo ''“pijà p'er culo”'' (= prendere in giro), ''“arzasse cor culo all'insù”'' (= svegliarsi di cattivo umore), ''“vàttel' a pijà
[[File:Pascarella 1901.jpg|upright=0.7|thumb|[[Cesare Pascarella]]]]
Il popolano romano ha sempre avuto con la religione, e in particolare con i santi, un rapporto di enorme rispetto. La santità in quanto tale, e i valori che essa rappresenta, sono talmente al disopra delle umane bassezze da non poter essere messi in discussione, noto è il detto "scherza ch'i fanti, ma lassa sta' li santi" (scherza con le persone, ma lascia stare i santi). La cultura popolare è però anche assolutamente infarcita di superstizioni e tradizioni secolari a cui è impensabile rinunciare e che risultano particolarmente evidenti in moltissimi proverbi e modi di dire. La commistione tra il sentimento di rispetto religioso e le superstizioni porta spesso a risultati verbali che sfociano in forme ibride, di tipo paganeggiante, in cui non manca la caratteristica espressione rude e volgare che deriva da un rapporto improntato a semplicità e spontaneità.
Il rapporto che viene stabilito con i Santi, in quanto sincero e di assoluto rispetto, diventa così di tipo estremamente confidenziale, con la conseguenza che anche il linguaggio non ha alcuna necessità di adeguarsi e riesce pertanto a mantenere quella caratteristica peculiare del dialetto popolare che è la rinuncia alla ricerca di sinonimi e alternative concettuali. E così, proprio come potrebbe esprimersi per mettere in risalto la bravura e le capacità di un qualsiasi ciabattino che ha bottega nel vicolo dietro casa, il popolano può tranquillamente affermare che ''“santa Rosa è
Sebbene abituato all'uso ed all'accettazione di un linguaggio costellato di scurrilità, il romano ha invece un inaspettato e quasi sorprendente rifiuto per la bestemmia, anche se pronunciata come semplice intercalare o senza alcuna intenzionalità. Il rispetto di tutto quanto è sacro e santo è così fortemente radicato da generare nel popolano una strana contrapposizione tra lo spirito parolacciaro ed una forte interdizione religiosa.
Il dubbio di coinvolgere qualche Santo in una imprecazione, e di compromettere quindi la propria coscienza (con tanto di eventuale ritorsione da parte dello stesso) era però talmente consistente che, contravvenendo ad una caratteristica linguistica stabilmente radicata, il romano ha ritenuto di dover ricorrere ad un processo di sostituzione onomastica. Ha quindi inventato tutta una serie di Santi dai nomi fantasiosi, ognuno con un suo ambito, per così dire, di competenza, da utilizzare, secondo le occasioni, per poter imprecare e bestemmiare tranquillamente, senza il timore reverenziale di incorrere in peccato mortale. Così, per un bambino che si fa male cadendo si può lanciare un ''“mannaggia [[santa Pupa]]!”''<ref>G. G. Belli, ''Santa pupa'' in Roberto Vighi, ''Poesie romanesche'', Libreria dello Stato, 1992.</ref> protettrice, appunto, dei bambini (i pupi); all'indirizzo di un distratto, o a seguito di una disattenzione, si può imprecare ''“San Guercino!”'', ecc.. Il fatto che qualcuno di questi nomi possa corrispondere ad un Santo realmente esistito passa in secondo piano, quasi come un caso di involontaria omonimia, ma per essere proprio tranquilli si può sempre ricorrere a un ''“mannaggia quer santo che nun se trova!”''.
Anche nei confronti della Madonna e del Cristo si è provveduto a sostituzioni o storpiature del nome; non è quindi peccato esclamare ''“Madosca”'' o ''“Matina”'' (i più frequenti) e addirittura ''“Cristoforo Colombo”''. I nomi dei santi, di Cristo e della Madonna vengono comunque a volte utilizzati, senza alcun ricorso a mascherature, nell'ambito non blasfemo e non religioso dei detti e proverbi popolari, come rafforzativo del concetto che si vuole esprimere ed a rimarcare la confidenzialità del rapporto che il popolano romano ha con loro, in assoluta tranquillità di coscienza. Qualche esempio: a sottolineare l'assoluta impossibilità di cambiare una decisione irremovibile ''“nun ce so' né Cristi né Madonne!”'' o anche ''“nun ce so' santi!”''; una signora eccessivamente ingioiellata ''“pare
=== Il rapporto con le istituzioni ===
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