Inferno - Canto trentesimo: differenze tra le versioni

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Dante guarda allora ad altri ''mal nati'' e ne nota uno che gli ricorda un [[liuto]] (strumento a corde allora piuttosto raro quanto lo è oggi, che fu popolare nel [[XV secolo]]) con le gambe, perché l'[[idropisia]] che lo affligge gli modifica la pancia, che è ingigantita, mentre il viso è magro e smunto e le labbra sono aperte grottescamente come fa il [[tisi]]co (''l'etico''), che le tiene arricciate per la sete una in su e una in giù (da notare il linguaggio tecnico di Dante, che era stato iscritto all'[[Arte dei Medici e Speziali (Firenze)|Arte dei Medici e Speziali]] a [[Firenze]]).
 
L'episodio che segue, che ha per protagonista [[Maestro Adamo]], come egli stesso si presenterà al verso 61, è tra i brani più eterogenei per stile e emozioni di tutto l'[[Inferno di Dante]]. Prima grottesco, nella descrizione del suo stato fisico, poi si nota il suo dolore attraverso la descrizione delle labbra. Egli si rivolge ai due pellegrini con sofferenza citando un passo biblico ("guardate e attendete" [se esiste un dolore come il mio], [[Libro delle Lamentazioni]] I, 12), indice di tristezza e sofferenza priva di qualsiasi volgarità; poi il suo diventa nostalgico, perché se in vita ebbe tutto ora non può ottenere nemmeno un goccio d'acqua, invocazione seguita da una malinconica rievocazione del [[Casentino]] e dei suoi ''ruscelletti'' freschi e morbidi. La rievocazione del luogo dove visse (presso il [[Castellocastello di Romena]]) subito riporta alla mente il suo peccato, quello di [[falsario]] di [[fiorini]] ai quali toglieva tre dei ventiquattro carati d'[[oro]] sostituendoli con ''mondigia'' cioè immondizia, metalli non nobili. Anche la rievocazione del suo corpo "arso" è malinconica, ma subito il sentimento si tramuta in odio verso coloro che lo indussero a peccare, i fratelli dei Conticonti [[Guidi]] di [[Romena]], [[Guido II di Romena|Guido]], [[Alessandro di Romena|Alessandro]] e [[Aghinolfo di Romena|Aghinolfo]], verso i quali Mastro Adamo non sa cosa darebbe per vederli all'Inferno, dovesse anche rinunciare a placare la sua sete. Con tono patetico dice che se potesse muoversi anche di un'oncia (pochi centimetri) ogni cento anni per raggiungerli lo avrebbe già fatto, ma è inchiodato al suolo.
 
Nel suo discorso dice anche che la bolgia è lunga undici miglia fiorentine e che è larga non meno di mezzo: assieme alla notazione della bolgia precedente come lunga 22 alcuni hanno cercato di risalire alle dimensioni dell'[[Inferno]] immaginato da Dante, ma i risultati erano così enormemente assurdi (più di quel che Dante indica come [[raggio della Terra]] nel [[Convivio]], che per attraversarlo nei tempi indicati qua e là nella narrazione egli si sarebbe dovuto spostare a circa 450 [[km/h]]) che oggi si preferisce pensare a numeri prettamente simbolici o necessari a dare un senso di realtà al [[viaggio immaginario]] senza essere però ineccepibilmente calcolabili. Galileo ne concluse che l'Inferno è sempre insondabile, "nelle sue tenebre offuscato".