Francesco Delfino: differenze tra le versioni

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m →‎La carriera nell'Arma dei Carabinieri: l'operazione, mancando un riferimento alla banda di Mesina, rientra in una più consueta ordinarietà
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Il [[10 aprile]] [[1998]], indagato per illeciti legati al rapimento di [[Giuseppe Soffiantini]], il generale viene sospeso dall'Arma, in «attesa che la [[magistratura]] completi gli accertamenti»<ref name=ImpastatoCrono0498>[http://www.centroimpastato.it/php/crono.php3?month=4&year=1998 Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato", Cronologia da 'Giornale di Sicilia', 'la Repubblica', 'Corriere della Sera', 'La Stampa', aprile 1998] </ref>.
 
Il successivo [[11 aprile]], durante una [[perquisizione]], vengono rinvenute presso l'abitazione di Delfino due borse non in commercio prodotte in esclusiva per un'azienda legata ai Soffiantini; queste borse sono ritenute dagli inquirenti quelle impiegate dalla famiglia per la consegna ad ignoti un miliardo di lire, che essi ritenevano destinato ai rapitori del loro congiunto, al fine di ottenerne la liberazione. Viene inoltre rinvenuta una [[banconota]] facente parte di tale somma (le banconote erano state tutte fotocopiate prima della loro consegna). Delfino, ancora a piede libero, replica animosamente, dicendosi vittima di una macchinazione e dichiarando che «non perdona»<ref name=ImpastatoCrono0498 />.
 
Nel quadro delle conseguenti indagini, il [[14 aprile]] Delfino viene tratto in [[arresto]] assieme all'imprenditore Giordano Alghisi. Viene inoltre indagato il capitano dei carabinieri [[Arnaldo Acerbi]], allora comandante del [[nucleo operativo]] dei carabinieri di Brescia, al quale viene contestato di non aver riferito all'[[autorità giudiziaria]] - com'era suo dovere - le confidenze da egli raccolte da Carlo Soffiantini sul ruolo svolto da Delfino nella vicenda per la quale quest'ultimo veniva tratto in arresto<ref name=ImpastatoCrono0498 />. In un primo tempo, Delfino tenta di sottrarsi al carcere ottenendo il ricovero presso l'ospedale militare del [[Celio]] (a Roma), ma una consulenza tecnica medica stabilisce in breve che la sua salute è compatibile con il regime carcerario<ref>[http://www.repubblica.it/online/fatti/soffiantini/carcere/carcere.html "I medici: "Delfino deve andare in carcere", 16 aprile 1998]</ref>.
Difeso dall'[[avvocato]] [[Pierfrancesco Bruno]], interrogato il [[17 aprile]], Delfino respinge le accuse che gli vengono mosse, ma successivamente viene reso noto che il generale avrebbe ammesso che, a suo dire, Giordano Alghisi, amico di famiglia dei Soffiantini, gli avrebbe consegnato 800 milioni a titolo di "acconto" per la vendita didella unsua immobilevilla a [[Meina]]; pochi giorni dopo, il [[22 aprile]], il generale, rinchiuso presso il [[carcere]] militare di [[Peschiera del Garda]], tenta il [[suicidio]]<ref name=ImpastatoCrono0498 /> battendo violentemente il capo nella cella. Ricoverato a [[Verona]], viene rapidamente dichiarato fuori pericolo <ref>[http://www.repubblica.it/online/fatti/soffiantini/suicidio/suicidio.html La Repubblica, "Delfino: "Non so cosa mi è successo", 23 aprile, 1998]</ref>. Nel libro scritto nel 1998<ref name=libro>Francesco Delfino, ''La verità di un generale scomodo'', Verona, IET, 1998</ref>, Delfino nega decisamente ogni addebito, evocando peraltro la figura di [[Giovanni Prandini]], notabile democristiano ed amico di Soffiantini, del quale i rapitori avrebbero, sostiene, affannosamente cercato libretti al portatore in casa del rapito (Soffiantini smentì altrettanto decisamente)<ref>Si veda anche l'[http://www.cisf.it/fc99/0199fc/0199fc74.htm intervista rilasciata ad Alberto Chiara e Luciano Scalettari]</ref>.
 
Emerge peraltro la coincidenza che la moglie di Carlo Soffiantini, Ombretta Giacomazzi, nuora del rapito, era stata tempo prima arrestata dallo stesso Delfino nel quadro di indagini sull'eversione di destra a Milano ed era poi divenuta testimone-chiave per le indagini sulla strage di Brescia<ref>L'arresto era stato eseguito con l'accusa di [[reticenza]] dopo che un buon amico della Giacomazzi, Silvio Ferrari, era saltato in aria mentre guidava una [[Vespa]] che trasportava [[tritolo]] poco tempo prima della strage di piazza della Loggia; era con l'occasione venuta alla ribalta l'attività di alcuni gruppi neofascisti che frequentavano il locale di proprietà della famiglia della Giacomazzi. Dopo la strage, la ragazza dichiarò che [[Ermanno Buzzi]], su cui poi si appuntarono le indagini del Delfino, le avrebbe confidato, vantandosene, di esserne l'autore. Si veda, per esempio, [http://archiviostorico.corriere.it/1998/aprile/11/Piazza_della_Loggia_teste_chiave_co_0_9804114332.shtml Archivio Corriere della Sera]</ref>.
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Delfino in seguito riprese le supposizioni sulla eventuale regia di un Grande Vecchio dietro certe trame, nel suo libro "''La verità di un generale scomodo''" (1998), nel quale scrisse:
{{quote|... c'è o non c'è il Grande vecchio in grado di muovere i fili del burattino Italia? La mia idea guida è il [[caso Moro]] del quale non mi sono mai occupato: mi si sono aperti nella mente in modo casuale, ripescati nel cestino della memoria, quattro file. Primo file: una foto di [[Henry Kissinger]]; secondo file un vocabolario russo-italiano; terzo file l'attentato alla questura di Milano di [[Gianfranco Bertoli]], un individuo che si professa anarchico. Ma non proviene da Israele? Quarto file il corpo dilaniato di [[Giangiacomo Feltrinelli|Feltrinelli]] a trecento metri da uno dei covi di Carlo Fumagalli.
|Francesco Delfino, ''La verità di un generale scomodo''<ref>Francesco Delfino,name=libro ''La verità di un generale scomodo'', Verona, IET, 1998/></ref>}}
 
Circa il riferimento al caso Moro però, il pentito di '[[ndrangheta]] [[Saverio Morabito]] sostenne che il ''boss'' [[Antonio Nirta]], presente in via Mario Fani a Roma il giorno dell'eccidio della scorta e del rapimento del presidente [[Democrazia Cristiana|democristiano]], non si trovasse in quel luogo per conto delle [[Brigate Rosse]], bensì perché richiestone dal generale Delfino. Delfino rispose: "''C'è senz'altro un errore. Non ero io quello che aveva infiltrati nelle Brigate Rosse''"<ref>Rita Di Giovacchino, ''Il libro nero della Prima Repubblica''</ref>.