Villotta (musica): differenze tra le versioni

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La diffusione in altre zone dell'Italia settentrionale diede luogo a forme locali, quali la villotta alla [[Friuli|furlana]], la villotta alla [[Venezia|veneziana]] e la villotta alla [[Mantova|mantovana]].
 
== La villotta alla friulana ==
La '''villotta alla friulana''' (o '''vilote furlane''') è una manifestazione di cultura tradizionale, all’inizio tramandata oralmente.
 
In [[Friuli]] invece il [[canto popolare]] era indicato con i termini "cjançon", "cjançonete", "cjantose" e, in [[Carnia]], anche con "danze" e "raganiza" (filastrocca). Questo tipo di canto non era solo in [[lingua friulana|friulano]], ma anche in [[lingua veneta|veneto]] e in [[lingua italiana|italiano]] e, nelle zone di confine nord-orientale, anche in [[lingua tedesca|tedesco]] e [[lingua slovena|sloveno]]. Dal punto di vista poetico la villotta è composta da 4 [[ottonari]] a [[rima]] alternata ed è equivalente ai [[rispetti]] ed agli [[strambotti]] dell'[[Italia centro-meridionale]]. A [[Ermes di Coloredo]] poeta, autore di versi ottonari si attribuisce il momento di passaggio della villotta da espressione folclorica a produzione d'autore, fu infatti la studiosa e musicologa [[Ella de Schouls-Adaiewsky]] ad analizzare il fenomeno Villotta agli inizi dell' 'ottocento arrivanto alla definizione di una cronologia nell'evoluzione della produzione villottistica da fenomeno di tradizione orale a produzione compositiva d'autore.
 
 
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==== Forma poetica ====
 
La forma poetica è quella chiusa di quattro ottonari alternati piani (primo e terzo) e tronchi (secondo e quarto). La modalità armonica era caratteristicamente in "maggiore" in tempo dispari (possibile sentore di provenienza slavo-balcanica). Questo potrebbe mostrare in musica un aspetto del carattere friulano: anche la malinconia e lo sconforto sono misurati e contenuti senza cadere nel patetico e nello scontato musicale del modo "minore".
Il musicologo Fausto Torrefranca (1883 - 1955), sostiene la villotta nascere alla fine del ‘400 come aria di danza a canto, dove la voce portante veniva mescolata, in un dialogo tra voce solista e coro d’accompagnamento, a comporre una polifonia, incatenata dal “nio”, sorta di ritornello atto al ballo, ma anche legante tra diverse quartine.
 
Sembra una stretta gabbia, ma è la forma di espressione che ha funzionato per almeno quattro secoli permettendo alla forma di modello chiuso una libera e fertile espressione popolare ancora viva seppur in forma popolaresca.
Michele Leicht (1827-1897), storico cividalese, sostiene che questi piccoli canti sono la forma filosofica friulana per aggiungere contenuti e arricchire lo spirito.
 
Un pensiero malinconico che libera, o che allarga la sensazione momentanea di libertà, per insaporire il presente.
La vena poetica stava nella grande capacità di rimescolare le parole e tirare fuori il succo, alludendo, pungendo con ironia, senza mai toccare il nervo del dente che duole. Un lampo che scoppiettando arriva dritto al bersaglio.
Angelo Dalmedico, in "Canti del popolo Veneziano" nel 1848, e probabilmente riferendosi ai friulani immigrati a Venezia, dice: “Sino alla fine del secolo passato, le villotte venivano cantate accompagnate dal contrabbasso, dal mandolino e dalla chitarra. Ora vengono cantate dalle donne accompagnate dal cembalo coi sonagli, tessendo un ballo con un intermezzo che chiamano “nio” che ha una musica ancora più allegra".
 
Forse chi delle villotte ne ha scritto in maniera più estatica è stato [[Pier Paolo Pasolini]] (1922-1975) , che definisce un “cjandît lusôr inocent” (una luce candida e innocente) così ne scrive “Brevità metrica, che del resto si fa profonda nell’intimità dei contenuti, e vasta nella melodia: a esprimere come si canta uno spirito talvolta ciecamente malinconico, malinconico come possono esserlo certi sperduti dossi prealpini, di sera, d’inverno; e talvolta colmo invece di un’allegria accoratamente rozza, sgolata, di cui si empiono piazzette e orti nei vespri odorosi di pino, nelle notti tiepide.”.