Lachete: differenze tra le versioni
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Se invece avesse davvero coraggio e possedesse quest'arte, ogni occhio sarebbe puntato su di lui, e al suo minimo sbaglio sarebbe deriso, dato che è malvisto chi pretende di conoscere quest'arte. A meno che non sia carico di virtù, cioè capacità in guerra, o di eliminare i propri errori. Solo se qualcuno conoscesse quest'arte, avesse coraggio e non sbagliasse mai, insomma, potrebbe salvarsi da un giudizio negativo. Per Lachete quest'arte non fa che compromettere le possibilità che un uomo coraggioso e predisposto alla lotta avrebbe di suo.
Lisimaco e Melesia chiedono dunque a Socrate di arbitrare il diverbio di opinioni, ma egli rifiuta: trattandosi della sorte dei loro figli, sarebbe poco saggio affidarsi alla maggioranza, cioè al giudizio dei più a prescindere dalla loro competenza (tema ricorrente dei dialoghi platonici, ma sarà espresso più compiutamente nel dialogo [[La Repubblica (dialogo)|La Repubblica]]). Serve un maestro, ma di cosa? Per Socrate ci si sta occupando dell'arte della lotta solo in virtù del bene che essa apporta all'animo dei giovani, pertanto è di questo che si deve ragionare: di ciò che effettivamente migliori l'anima. E se c'è un sapiente in quest'arte, lo provi (come di consueto nel dialogo socratico) mostrando chi ha saputo rendere migliore se l'ha imparata da sé (parallelo con [[Pericle]] nell'
Lachete non riesce dapprima a definirlo e porta esempi, come chi non fugge (ma c'è chi è coraggioso fuggendo, come Socrate e gli spartani, che combattevano ritirandosi e riattaccando dopo che le file dei nemici si fossero sfaldate per inseguirli). Poi afferma che sia fermezza dell'anima insieme all'assennatezza: abbiamo convenuto che il coraggio fosse una cosa bella, mentre la dissennatezza non lo è. Ergo insieme ad essa non lo sarebbe. Eppure Lachete conviene di ritenere più coraggioso chi sta fermo anche sapendo che potrebbe morire, rispetto a chi sta fermo sapendo di vincere, magari perché può contare sull'imminente arrivo di rinforzi.
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