Appercezione: differenze tra le versioni

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==L'"io penso" kantiano o appercezione trascendentale==
[[Immagine:Kant SIL14-k001-06a.jpg|right|170px]]
[[Immanuel Kant|Kant]] utilizza l'espressione "'''io penso'''" per indicare l'appercezione, da lui intesa come '''''appercezione '[[trascendentale]]'''''', cioè funzionale al molteplice, nel senso che si attiva solo quando riceve dati da elaborare. Essa si trova al vertice della [[conoscenza]] critica, perché unifica e dà un senso alle nostre rappresentazioni del mondo. La conoscenza infatti non deriva solo dalle percezioni sensibili: in virtù di queste un oggetto ci è "dato", ma con l'appercezione esso viene "pensato", tramite l'utilizzo di dodici [[categoria (filosofia)|categorie]] mentali, senza le quali sarebbe come cieco.
 
Il problema che Kant cercava in particolare di risolvere, da lui affrontato nella ''Deduzione trascendentale'' della ''[[Critica della ragion pura]]'', era il seguente: perché la [[natura]] sembra seguire leggi necessarie conformandosi a quelle del nostro [[intelletto]]? Con quale diritto quest'ultimo può dire di conoscere scientificamente la natura, "stabilendone" le leggi in un modo piuttosto che in un altro?<br>
Secondo Kant un tale diritto è giustificato perché il fondamento delle nostre conoscenze non si trova nella natura ma nell'attività stessa del soggetto. In proposito anche [[David Hume]], prima di Kant, aveva fatto notare che le caratteristiche di necessità e universalità che noi attribuiamo alle leggi naturali sono in realtà un prodotto del soggetto, ma in tal modo egli aveva distrutto la loro pretesa di oggettività, finendo per giudicarle arbitrarie e del tutto soggettive.
 
Il passo decisivo della riflessione di Kant, a cui egli arduamente approdò per sua ammissione, consiste allora nel riconoscere l'oggettività nel cuore stesso della soggettività.<ref name="abbagnano">Cfr. Nicola Abbagnano, ''Linee di storia della filosofia'', Torino, Paravia, 1960, pag. 182.</ref> Un [[Oggetto (filosofia)|oggetto]] infatti è tale solo in rapporto a un [[Soggetto (filosofia)|soggetto]], cioè solo se esso viene pensato ''da me''. È la [[autocoscienza|coscienza]] che io ho di me come soggetto pensante che mi consente di avere delle rappresentazioni del mondo. Se non ci fosse questa appercezione di me, cioè che io resto sempre [[identità (filosofia)|identico]] a me stesso nel rappresentarmi la mutevolezza e la molteplicità dei fenomeni, dentro di me non ci sarebbe pensiero di nulla, perché non sarebbero una "mia" rappresentazione, e quindi non potrei averne coscienza. Prendere consapevolezza che un dato oggetto è un prodotto del mio pensiero significa collocarlo entro il quadro unitario di tutte le mie rappresentazioni; conoscere vuol dire infatti collegare, unificare, fare una sintesi.<ref>«L'unificazione non è dunque negli oggetti, e non può esser considerata come qualcosa di attinto da essi per via di percezione, e per tal modo assunto primieramente nell'intelletto; ma è soltanto una funzione dell'intelletto, il quale non è altro che la facoltà di unificare ''a priori'', e di sottoporre all'unità dell'appercezione il molteplice delle rappresentazioni date; ed è questo il principio supremo di tutta la conoscenza umana» (Kant, ''Critica della ragion pura'', Laterza, Roma-Bari 2000, pagg. 110-117).</ref>
 
L<nowiki>'</nowiki>''Io penso'', o "unità sintetica originaria", è propriamente l'attività che svolge questa funzione, la quale si esplica quando il legame che l'io pone tra due fenomeni, espresso dalla [[copula]] ''"[[essere|è"]]'', assume un valore necessario e oggettivo, diverso dal caso in cui due percezioni, che per esempio siano date successivamente nel tempo, risultino legate da un nesso puramente arbitrario e variabile.<ref name="abbagnano" /> Nel primo caso, infatti, a differenza del secondo, interviene l'''Io penso'' a dare fondamento oggettivo a quella connessione.
 
Se io non ci fossi, neanche le mie rappresentazioni esisterebbero. LQuesto però non significa che l'''io penso'' però non arrivaarrivi a modellare l'oggetto fino a crearlo materialmente da solo; non è un'attività creatrice ma soltanto ordinatrice, un "legislatore della natura" che unifica o ''sintetizza'' il materiale amorfo proveniente dall'esterno consentendo di dargli una "forma", secondo il criterio della reciproca corrispondenza di soggetto e oggetto. Una tale corrispondenza vale pertanto su un piano puramente conoscitivo o formale, dovuto al fatto che noi non conosciamo la realtà per come è in sé ([[noumeno]]), ma appunto per come noi la recepiamo ([[fenomeno]]).
 
Essendo formale, l'appercezione non può essere ridotta ad un semplice "dato" oggettivo, perché essa si attiva solo in rapporto a un oggetto: non la possiamo conoscere in se stessa ma solo quando si accompagna alle nostre rappresentazioni. In altre parole, essa non è una semplice conoscenza empirico-fattuale della realtà interiore dell'individuo, ma è la condizione formale di ogni conoscenza, il contenitore della [[coscienza (filosofia)|coscienza]], non un contenuto. Si tratta di un'attività di pensiero che appartiene a tutti gli uomini ma a nessuno di essi in particolare, strutturalmente identica in tutti. Essa si distingue perciò dall'''io empirico'' o ''appercezione empirica'', che è invece la coscienza di ognuno basata sulla singola sensibilità individuale e tale da appartenere solo a noi stessi singolarmente.