Giulio Paolini: differenze tra le versioni

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==Biografia==
 
Dopo l’infanzia trascorsa a [[Bergamo]], nel [[1952]] si trasferisce con la famiglia a [[Torino]]. Frequenta l’Istituto Tecnico Industriale Statale per le Arti Grafiche e Fotografiche, diplomandosi nel [[1959]] nella sezione di [[Grafica]]. Fin da giovane si interessa all’arte, prima frequentando [[museo|musei]] e [[galleria d'arte|gallerie]] e consultando periodici d’arte, poi, verso la fine degli [[anni 1950|anni cinquanta]], sperimentando le prime prove pittoriche. La scoperta della grafica di impronta moderna durante gli studi e la presenza in casa di riviste d’[[architettura]] – il fratello maggiore, Cesare ([[1937]]-[[1983]]), è architetto – contribuiscono a orientarlo ad una linea di ricerca tesa verso l’azzeramento dell’immagine. Nel [[1960]] realizza la sua opera d’esordio, ''Disegno geometrico'', costituita dalla squadratura a inchiostro della superficie di una [[tela]] dipinta a [[tempera]] bianca. Questo gesto preliminare di qualsiasi rappresentazione rimarrà il punto di “eterno ritorno” dell’universo di pensiero paoliniano: momento topico e istante originario che rivela l’artista a se stesso, rappresenta il fondamento [[Arte concettuale|concettuale]] di tutto il suo lavoro futuro.
 
Nei primi [[anni 1960|anni sessanta]] Paolini sviluppa la propria ricerca focalizzando l’attenzione sui componenti stessi del quadro, sugli strumenti del [[pittore]] e sullo spazio della rappresentazione. Nella sua prima mostra personale, nel [[1964]] a [[Roma]] alla Galleria La Salita diretta da Gian Tommaso Liverani, presenta una serie di pannelli di legno grezzo appoggiati alla parete, che suggeriscono l’idea di una mostra in allestimento. L’esposizione è visitata da [[Carla Lonzi]] e [[Marisa Volpi]], che di lì a poco scriveranno i primi testi critici sul giovane artista. Nel [[1965]] Paolini introduce la [[fotografia]], che gli consente di estendere la propria indagine alla relazione tra autore e opera (''Delfo'', 1965; ''1421965'', 1965). Nello stesso anno, grazie a Carla Lonzi, conosce Luciano Pistoi, titolare della Galleria Notizie a Torino, che lo avvicina a una nuova cerchia di amici e collezionisti e diventa il suo principale mercante fino all’inizio degli [[anni 1970|anni settanta]].
 
Tra il [[1967]] e il [[1972]] il critico [[Germano Celant]] lo invita a partecipare alle mostre sull’[[Arte Povera]], che sanciscono l’associazione del suo nome a questa tendenza. Di fatto, la posizione di Paolini si distingue nettamente dal clima vitalistico e dalla “fenomenologia esistenziale” che distingue le proposizioni degli artisti appoggiati da Celant. Paolini dichiara ripetutamente la sua intima appartenenza alla [[Storia dell'arte|storia dell’arte]] e si identifica in modo programmatico con l’io collettivo degli artisti che lo hanno preceduto. A questo intento, estraneo al panorama militante della fine degli anni sessanta, vanno ricondotte alcune tra le sue opere più note: ''Giovane che guarda Lorenzo Lotto'' (1967), gli “autoritratti” da [[Nicolas Poussin|Poussin]] e da [[Jean-Jacques Rousseau|Rousseau]] (1968) e i quadri in cui riproduce particolari di dipinti antichi (''L’ultimo quadro di Diego Velázquez'', 1968; ''Lo studio'', 1968). Tra i principali riferimenti paoliniani di questi anni figurano [[Jorge Luis Borges]], cui rende più volte omaggio, e [[Giorgio De Chirico]], dal quale prende in prestito la frase costitutiva del lavoro ''Et.quid.amabo.nisi.quod.ænigma est'' (1969).
 
Gli anni settanta coincidono con i primi riconoscimenti ufficiali: dalle mostre all’estero che lo inscrivono nel circuito delle gallerie d’avanguardia internazionali, alle prime esposizioni nei musei. Nel [[1970]] partecipa alla [[Biennale di Venezia]] con l’opera ''Elegia'' (1969), in cui utilizza per la prima volta un calco in gesso di un soggetto antico: si tratta di un calco dell’occhio del ''David'' di [[Michelangelo]] con un frammento di specchio applicato sulla pupilla. Tra le tematiche di rilievo in questo decennio figura lo sguardo retrospettivo sul proprio lavoro: dalla citazione letterale di dipinti illustri giunge all’autocitazione, proponendo una storicizzazione in prospettiva delle sue opere. Lavori come ''La visione è simmetrica?'' (1972) o ''Teoria delle apparenze'' (1972) alludono all’idea del quadro come contenitore potenziale di tutte le opere passate e future. Nella stessa linea d’intenti si colloca anche il motivo della [[prospettiva]] (''La Doublure'', 1972-73): la visione prospettica disegna uno spazio illusorio, che crea una distanza fondamentale rispetto all’opera. Altro tema indagato con particolare interesse in questo periodo è quello del [[doppio]] e della copia, che trova espressione soprattutto nel gruppo di lavori intitolati ''Mimesi'' (1975-76), costituiti da due calchi in gesso di una statua antica collocati uno di fronte all’altro, a porre in questione il concetto stesso di riproduzione e rappresentazione.