Appercezione: differenze tra le versioni

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La vitalità della materia, con cui Leibniz si riappropria della metafisica [[neoplatonismo|neoplatonica]] abbinandola in un certo senso all'''[[entelechia]]'' [[Aristotele|aristotelica]], gli consente di confutare la filosofia di [[Cartesio]]:<ref>«Tutto quanto si sa dei corpi non consiste solo nell'estensione, come sostengono i moderni. Questo ci costringe a reintrodurre quelle forme che essi hanno bandito»
(Leibniz, ''Discorso di Metafisica'', XVIII, trad. in Perone, ''Storia del pensiero filosofico'', vol. II, Torino, SEI, 1989, pag. 231).</ref> questi aveva assimilato tutta la conoscenza alla ''[[res cogitans]]'', contrapponendola alla ''[[res extensa]]'' cioè alla realtà materiale fuori di noi, concepita in forma [[meccanicismo|meccanica]] e inanimata, che diventava così un qualcosa di inerte e privo di importanza. Cartesio non negava l'esistenza della materia, ma la considerava vera solo nella misura in cui riusciva ad averne una coscienza chiara ed evidente, per cui se non ne ho coscienza non esiste. Tale impostazione è per Leibniz gravemente sbagliata: in realtà esistono anche pensieri di cui non si ha consapevolezza, perché non c'è nessun dualismo insanabile tra spirito e materia, tra coscienza e incoscienza, ma solo infiniti passaggi dall'uno all'altro.
 
È soltanto negli organismi superiori, però, e in particolare nell'uomo, che le percezioni giungono a diventare coscienti, cioè ad essere ''appercepite'': l'uomo infatti riesce a coglierle [[Uno (filosofia)|unitariamente]] nella loro molteplicità, sommandole e componendole in una visione sintetica, come fossero tessere di un mosaico. In ciò consiste propriamente l'appercezione, che significa in definitiva "accorgersi"; ad esempio il rumore del mare è in fondo il risultato del rumore delle piccole onde che essendo piccole percezioni noi assimiliamo inconsciamente fino a sviluppare la "percezione della percezione".
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Il problema che Kant cercava in particolare di risolvere, da lui affrontato nella ''Deduzione trascendentale'' della ''[[Critica della ragion pura]]'', era il seguente: perché la [[natura]] sembra seguire leggi necessarie conformandosi a quelle del nostro [[intelletto]]? Con quale diritto quest'ultimo può dire di conoscere scientificamente la natura, "stabilendone" le leggi in un modo piuttosto che in un altro?<br>
Secondo Kant un tale diritto è giustificato perché il fondamento delle nostre conoscenze non si trova nella natura ma nell'attività stessa del soggetto. In proposito anche [[David Hume]], prima di Kant, aveva fatto notare che le caratteristiche di necessità e universalità che noi attribuiamo alle leggi naturali sono in realtà un prodotto del soggetto, ma in tal modo egli aveva distrutto la loro pretesa di oggettività, finendo per giudicarle arbitrarie e del tutto soggettive.
 
Il passo decisivo della riflessione di Kant, a cui egli arduamente approdò per sua ammissione, consiste allora nel riconoscere l'oggettività nel cuore stesso della soggettività.<ref name="abbagnano">Cfr. Nicola Abbagnano, ''Linee di storia della filosofia'', Torino, Paravia, 1960, pag. 182.</ref> Un [[Oggetto (filosofia)|oggetto]] infatti è tale solo in rapporto a un [[Soggetto (filosofia)|soggetto]], cioè solo se esso viene pensato ''da me''. È la [[autocoscienza|coscienza]] che io ho di me come soggetto pensante che mi consente di avere delle rappresentazioni del mondo. Se non ci fosse questa appercezione di me, cioè che io resto sempre [[identità (filosofia)|identico]] a me stesso nel rappresentarmi la mutevolezza e la molteplicità dei fenomeni, dentro di me non ci sarebbe pensiero di nulla, perché non sarebbero una "mia" rappresentazione, e quindi non potrei averne coscienza. Prendere consapevolezza che un dato oggetto è un prodotto del mio pensiero significa collocarlo entro il quadro unitario di tutte le mie rappresentazioni; conoscere vuol dire infatti collegare, unificare, fare una sintesi.<ref>«L'unificazione non è dunque negli oggetti, e non può esser considerata come qualcosa di attinto da essi per via di percezione, e per tal modo assunto primieramente nell'intelletto; ma è soltanto una funzione dell'intelletto, il quale non è altro che la facoltà di unificare ''a priori'', e di sottoporre all'unità dell'appercezione il molteplice delle rappresentazioni date; ed è questo il principio supremo di tutta la conoscenza umana» (Kant, ''Critica della ragion pura'', Laterza, ''ivi'').</ref>
 
L<nowiki>'</nowiki>''Io penso'', o "unità sintetica originaria", è propriamente l'attività che svolge questa funzione, la quale si esplica quando il legame che l'io pone tra due fenomeni, espresso dalla [[copula]] ''"[[essere|è"]]'', assume un valore necessario e oggettivo, diverso dal caso in cui due percezioni, che per esempio siano date successivamente nel tempo, risultino legate da un nesso puramente arbitrario e variabile.<ref name="abbagnano" /> Nel primo caso, infatti, a differenza del secondo, interviene l'''Io penso'' a dare fondamento oggettivo a quella connessione.
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===L'eredità di Kant===
Dopo Kant l'appercezione pura o ''io penso'' diventerà il fondamento dell'[[idealismo]] di [[Fichte]] e di [[Friedrich Schelling|Schelling]], che lo trasformano nell'[[io (filosofia)|Io assoluto]]. Fichte riconosce a Kant il merito di aver dato grande valore all'attività del soggetto, ma gli contesta di avere slegato la conoscenza umana dalla [[cosa in sé]], facendo dell'unità soggetto/oggetto un'entità puramente formale. Ad una forma deve corrispondere una sostanza, un contenuto, che Kant aveva bensì riconosciuto ma soltanto su un piano concettuale relegato all'ambito del fenomeno; egli svuotava così l'oggettività della sua stessa valenza oggettiva. Per Fichte, invece, il soggetto è "forma [[trascendentale]]" proprio in quanto crea da sé il suo contenuto, non potendo esserci soggetto senza un oggetto. L'appercezione viene pertanto da lui identificata con l'[[intuizione intellettuale]], ossia con la capacità che ha l'intelletto di accedere alla cosa in sé, essendo quest'ultima diventata una parte dell'io, un momento della sua attività di autocostruzione. Perché si sviluppi l'[[autocoscienza]] rimane tuttavia essenziale che l'oggetto non venga per ciò stesso dissolto nel soggetto, pertanto Fichte ricorre alla kantiana ''immaginazione produttiva'' per spiegare come la creazione dell'oggetto operi pur sempre [[inconscio|inconsciamente]], e vi si debba accedere per una via diversa da quella teoretica.<ref>Cfr. Francesca Caputo, ''Etica e pedagogia'', vol. II, ''Linee di teorizzazione etica e pedagogica dal Rinascimento a Nietzsche'', Pellegrini, Cosenza 2005, ISBN 9788881012459, pagg. 124-126: «Le istanze teoriche fatte valere da Fichte vanno valutate alla luce della riflessione propriamente [[etica]]. [...] La contrapposizione finito-infinito, che non può essere risolta dalla ragion teoretica perché sfugge ad ogni dimostrazione, viene risolta dalla ragion pratica».</ref>
 
==L'appercezione psicologica==
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*Claudio Cesa, ''Introduzione a Fichte'', Laterza, 2008
*Aldo Masullo, ''Fichte. L'intersoggettività e l'originario'', Guida, Napoli 1986
*Ariberto Acerbi, ''Fichte e Jacobi interpreti dell'“io penso” di Kant. Autocoscienza, esistenza, persona'', in A. Bertinetto, ''Leggere Fichte'', Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2009, pp. 267-297&nbsp;267–297.
*M. Fioravanti, C. Carlone, G. Bonello, ''Modello relazione nell'interpretazione del test di appercezione tematica'', Nuova Cultura, 2008 ISBN 9788861341739