Castello Cantelmo (Alvito): differenze tra le versioni

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Il '''castello Cantelmo''' di [[Alvito (Italia)|Alvito]] è un'antica [[fortezza]] della [[valle di Comino]], territorio della [[provincia di Frosinone]] a confine con l'[[Abruzzo]] e il [[Molise]]. È posto sulla cima di un colle sovrastante la [[piana d'Alvito]], che si sviluppa in direzione nord-est sud-ovest, dove è ubicato anche l'abitato di Castello, frazione ''[[intramoenia]]'' di Alvito e centro di fondazione dell'attuale città, uno dei primitivi abitati sorti dopo il disfacimento della benedettina Civita di Sant'Urbano<ref>In località Colle della Civita, presso l'imbocco della Val Di Rio, dove passava la via per [[Pescasseroli]] e l'[[Alto Sangro]], esisteva una città medievale, chiamata Sant'Urbano, fondata dagli abati di [[Montecassino]], di cui oggi restano pochissime tracce.</ref>. Dagli [[Anni 1990|anni novanta]] è di proprietà del Comune di Alvito, che sta provvedendo a ricostruirlo nelle parti andate, col tempo, distrutte, e a riconsolidare quanto rimasto, per promuovervi incontri culturali e manifestazioni sociali. È anche conosciuto col nome di "castello di Alvito", benché amministrativamente si indichi in tal senso l'intera frazione alvitana in cui è sito il maniero.
[[File:Alvito Castello.jpg|400px|rightupright=1.8|thumb|''Alvito Castello'' nei primi del '900]]
== Storia ==
 
==== L'incastellamento di Sant'Urbano e la nascita di Alvito ====
{{Vedi anche|Incastellamento|Economia curtense}}
La città di Alvito è strutturata su più livelli, lungo una delle propaggini meridionali del monte Morrone, su di una cima minore conosciuta un tempo come [[monte de Albeto]] o Serra de Albeto<ref>''Cronicon'' p. 108 (483).</ref>. L'attuale assetto urbano è il risultato di un insediamento progressivo e diffuso, iniziato nell'[[XI secolo]], che interessò tutto il territorio della città di [[Civita di Sant'Urbano|Sant'Urbano]], un antico centro amministrativo cominese, fondato dall'abate [[Aligerno (abate)|Aligerno]] di [[Montecassino]] nel 976<ref>Antonelli D., ''Alvito dalle origini al sec. XIV. Nella ricorrenza del IX Centenario della fondazione della Città (1096-1996)'', Printhouse, Castelliri 1999, p. 49; Idem, ''Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel medioevo (secc. VIII - XV)'', Pasquarelli ed., Sora 1986, p. 128, n. 314.</ref>, là dove oggi una contrada è detta ''Colle della Civita''. Nello stesso luogo esisteva già una ''Civita Sancti Urbani''<ref>«''De loco sancti Urbano ubi fuid ipsa cibitate''». Leccisotti T. (a cura di), ''Abbazia di Monte Cassino. I regesti dell'archivio, VII'', Roma 1972, p. 235, n. 1365.</ref>, che fu probabilmente distrutta dai [[Saraceni]] sulla fine del [[IX secolo]], quando con i loro eserciti saccheggiarono e devastarono la [[Terra di San Benedetto]]<ref>Antonelli D., ''Alvito dalle origini'', cit., pp. 49 e 51.</ref>, e Aligerno, passato il pericolo arabo, s'interessò della sua riedificazione, commissionando in loco la costruzione di un castello<ref>Leccisotti T., ''op. cit.''.</ref>. L'opera si inseriva nel piano di riappropriazione territoriale della [[Terra di San Benedetto]], portato avanti dall'abate, che aveva diretto il ritorno dell'abbazia nella sua naturale sede cassinate dopo il cosiddetto «esilio di Teano»<ref>Dell'Omo M., ''Montecassino. Un'abbazia nella storia'', Arti Grafiche Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo 1999, p. 28-29.</ref>. Alcuni nobili di [[Vicalvi]] ottennero il permesso di costruire la [[fortificazione]], su un colle presso la strada che dalla [[Valcomino]], per [[Pescasseroli]], portava negli Abruzzi; l'opera si inseriva in un sistema di interventi territoriali frequenti nella [[Terra di San Benedetto]], successivi alle invasioni dei Saraceni. Così fu pianificato anche un insediamento di coloni, come già altrove nel [[Lazio meridionale]], secondo il sistema produttivo delle ''[[Corte (storia)|curtes]]'', l'antica base sociale ed economia della [[Terra di San Benedetto]]<ref>Sennis A., ''Un territorio da ricomporre: il Lazio tra i secoli IV e XIV'', in «''Atlante storico-politico del Lazio''», [[Casa editrice Giuseppe Laterza & figli|Laterza]], Roma-Bari 1996, p. 47.</ref>. La nuova fondazione però non assicurò vita duratura al borgo: a causa dell'incremento demografico che si verificò nell'area alla fine dell'[[XI secolo]]<ref>Toubert P., ''Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IX siècle à la fin du XII siècle'', Roma 1973, p. 353.</ref> il centro fu presto abbandonato, perché il castello non riuscì mai ad integrare la realtà urbana nello spazio agricolo circostante<ref>''Ivi'', pp. 364-365.</ref><ref>Antonelli D., ''Alvito...'', cit., p. 109.</ref>, e gli abitanti si insediarono stabilmente nelle località dove erano concentrate le principali attività agricole del territorio, specialmente ''[[Santa Maria del Campo (Alvito)|Santa Maria del Campo]]'', ''Sant'Onofrio'' e, presso l'abitato di Alvito, ''La Valle''<ref name="Ibidem">''Ibidem''.</ref>. [[File:Topografonomastica Alvito.jpg|450pxupright=2|left|thumb|Panorama di Alvito. La struttura diffusa dell'insediamento, che degrada lungo un colle dalla cima ai piedi, negli abitati di ''Castello'', ''Peschio'', ''La Valle'' e ''San Nicola'', sopravvive ancora oggi]] L'intervento di ricostruzione giovò comunque a [[Montecassino]]: il cenobio campano incoraggiò il ripopolamento della montagna fra l'[[Alto Sangro]] e la [[Terra di Lavoro]], dove istituì i più importanti centri di produzione, per il sostentamento dei monaci dell'abbazia, al contempo disponendo di autonomia economica e consolidando il confine settentrionale del [[principato di Capua]] e le propaggini della [[diocesi di Sora]] nel territorio marsicano.<ref>Antonelli D., ''Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel medioevo (secc. VIII - XV)'', Pasquarelli ed., Sora 1986, p. 33-34.</ref><ref>L'opera di incastellamento finanziata dagli abati di Montecassino interessò particolarmente i valichi fra l'[[Alto Sangro]] e la [[Val di Comino]]; ogni passaggio fra i [[Monti della Meta]] era controllato da una fortificazione: ''Sant'Urbano'' sulla via della ''Val Lattara'', ''San Donato'' sulla via di ''Forca d'Acero'', ''Settefrati'' e ''Picinisco'' sulla via di ''[[Santuario di Canneto|Canneto]]'' e ''Saracinisco'' sulla via del ''Valico Venafrano''.</ref>
 
==== Il primo feudo alvitano ====
{{Vedi anche|Terra di San Benedetto|Principato di Capua}}
Nel corso dell'[[XI secolo]] ''Sant'Urbano'' cadde definitivamente in rovina. Già dal 1096 tutto il territorio che spettava alla città si indicava ormai come pertinenza di ''Monte Albeto''<ref>AAMC in Antonelli a p. 113</ref>, un nuovo nome che si era imposto dopo l'invasione normanna<ref>''Chronicon Volturnense'', I, p. 231.</ref>. Ciò lascia supporre che, decaduta la città, la vita civile si svolgesse in nuovi centri sorti sulle pendici del ''Monte Morrone'' oppure che non vi fosse più nessuna fortificazione<ref>Antonelli D., ''Alvito dalle origini'', cit., p. 116.</ref>. La perdita dell'unità amministrativa cassinate rischiava di sciogliere l'organizzazione territoriale del fondo, in particolare il sistema economico che aveva per vertice i possedimenti di [[Montecassino]] e così l'abbazia provvide ad infeudare l'area ai [[d'Aquino]]. La famiglia campana, che si era insediata nella media valle del Liri, ottenne dall'abate [[Papa Vittore III|Desiderio]] di Montecassino, nell'ambito di una ripianificazione territoriale della Terra Sancti Benedicti, alcuni terreni a [[Settefrati]] (''Pietrafitta'') e a [[Posta Fibreno]] (''La Posta''), in cambio di [[Piedimonte San Germano]]<ref>Castrucci F.S., ''Cenni storici su Alvito e il suo castello'', Tipografia di Casamari, Veroli 1994, pp. 24-25.</ref> e per rafforzare il controllo benedettino, ebbe anche in dotazione in un nucleo di abitazioni sul ''Colle del Albeto'', fino ad allora appartenuto alla ''[[Civita di Sant'Urbano]]'', che gli Aquinati avrebbero dovuto possedere per una sola generazione. Costoro erano già stati tra i più convinti oppositori dei monaci benedettini, perché mal avevano tollerato l'attività politica della sede abbaziale a [[Cassino]], finché non furono costretti a sottomettersi ai cassinati, quando alcuni abati riuscirono ad assoggettare militarmente la quasi totalità della [[contea di Aquino]], già alla fine del [[X secolo]]<ref>Esilio di Teano. Abbate Mansone. Dell'Omo M., ''Montecassino. Un'abbazia nella storia'', Arti Grafiche Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo 1999, p. 33-34</ref>. [[File:Victor III. - Desiderius of Montecassino.jpg|200px|right|thumb|[[Desiderio di Montecassino|Desiderio]] nell'atto di donare a [[San Benedetto]] i beni temporali e i libri di [[Montecassino]] (particolare da una miniatura cassinense)<ref>Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vat. lat. 1202 (anno 1075), ''Lezionario'', f. 2r.</ref>]] E asserviti alla causa benedettina, la nuova infeudazione alvitana costituì uno degli interventi periferici nella politica di riorganizzazione della [[Terra di San Benedetto]] e delle proprietà di confine. Tale Adenolfo d'Aquino beneficiò dei nuovi possedimenti. Egli ottenne un nucleo urbano composto da più di 120 famiglie di coloni e coi terreni che lavoravano, che avrebbe però dovuto cedere con la sua morte, senza possibilità di farne un'eredità, il primo nucleo del castello di [[Alvito (Italia)|Alvito]]<ref>Castrucci S. F., ''ibidem''.</ref>. ''Sant'Urbano'' però, già in decadenza, perdeva anche l'unità amministrativa patrimoniale e l'incastellamento che aveva incoraggiato Desiderio fu disturbato da un nuovo fondo che ne assorbì la vitalità economica e urbana.
 
==== L'incastellamento di ''Albeto'' ====
{{Vedi anche|Normanni}}
Il dominio dei d'Aquino in Valcomino fu instabile e soggetto ai primi disordini cui incorse il [[Lazio meridionale]], nel periodo che vide più volte combattersi e poi riappacificarsi i [[Normanni]] e lo [[Stato Pontificio]]. Dopo la costituzione del [[Regno di Sicilia]], i confini della Campania furono nuovamente oggetto di numerose contese fra i papi e i nobili locali, specialmente i sovrani del [[Principato di Capua]] e in quest'epoca Alvito risultò particolarmente esposta alle scorrerie normanne alla fine dell'[[XI secolo]]. Il conte di [[Carìnola]], Gionata, si portò fino ai confini romani, in una piccola guerra condotta contro la [[contea di Sora]]. Una contesa tra Rainulfo d'Aquino, castaldo di Sora, che da anni perseguiva una politica di sostegno economico all'[[Abbazia di Montecassino]], con lasciti e donazioni di importanti proprietà, fra cui i ricchi mulini di ''Colle de Insula'' (probabilmente oggi [[Isola del Liri]]), e diversi monasteri in [[Arpino]], e la popolazione locale<ref>Antonelli D., ''Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel medioevo (sec. VIII-XV)'', Pasquarelli ed., Sora 1986, p. 156-157.</ref>, era stato il pretesto del calense per occupare militarmente la città, conducendo un assedio che interessò anche gli alvitani. I sorani, che mal avevano tollerato le acquisizioni cassinesi di Isola, si erano ribellati ai [[d'Aquino]] e avevano chiamato in soccorso il conte normanno. Rainulfo, gastaldo di Sora, e l'alvitano Atenolfo furono vinti da questi, e resi quindi prigionieri<ref>Branca C., ''Memorie istoriche della città di Sora'', Tipografia de' Gemelli, Napoli 1847, p. 123.</ref>. I fatti di quegli anni, attorno al 1094, sono molto conosciuti nella storiografia locale e, oltre ad essere presi come il ''terminus a quo'' del declino dell'egemonia aquinate della [[valle del Liri]], sono testimoniati in documenti storici importanti per comprendere la situazione feudale della Valcomino. Quando Adenolfo fu catturato, gli fu imposto un cospicuo riscatto in denaro che pagò l'[[Oderisio di Montecassino|abate Oderisio]], alleato dei d'Aquino. Il prezzo pattuito era di 200 [[Libbra|libbre]] d'oro, garantite dai cassinati, di cui egli ne avrebbe dovuto restituire 100 all'abate entro un anno, altrimenti avrebbe reso in pegno le proprietà alvitane così come le aveva ricevute da [[Desiderio di Montecassino|Desiderio]]. Una clausola contrattuale prevedeva però che non sarebbero stati né negoziabili né tantomeno alienabili i beni di Atenolfo sul ''Monte de Albeto'' perché oggetto, in quegli anni, di migliorie.<ref>Castrucci F. S., ''op. cit.'', pp. 26-27.</ref> Questa condizione ha fatto pensare ad alcuni autori che era ivi iniziata la costruzione di un castello<ref name="Ibidem"/>, mai portata a termine<ref>Antonelli D., ''Alvito dalle origini al sec. XIV. Nella ricorrenza del IX Centenario della fondazione della Città (1096-1996)'', Printhouse, Castelliri 1999, p. 116.</ref>. Alcuni anni più tardi Adenolfo, proprietario della sola ''Albeto'', morì, e chi gli succedette è ignoto. Perché si trovi successivamente menzione della proprietà alvitana, si dovrà attendere il 1157<ref>Ammirato S., ''Delle famiglie nobili napoletane'', I, Firenze 1580, p. 154; Della Marra F., ''Delle famiglie estinte, forestiere, o non comprese ne' seggi di Napoli, imparentate con la Casa [[della Marra]]'', Napoli 1641, p. 47. Scandone F., ''Regesto di documenti'', in appendice a ''Roccasecca, patria di San Tommaso d'Aquino'', in «Archivio Storico di Terra di Lavoro»'', I (1956), p. 133 doc. 50 (1157).</ref>, quando dei documenti menzionano un d'Aquino, ''Landolfo de Albeto'', signore della terra alvitana, precisamente «''dominus castri Albeti''», il quale era sicuramente un parente di Atenolfo. Certamente alla fine del [[XII secolo]] il centro fortificato era stato ultimato, come dimostra il toponimo ''castrum'' con cui è denominato, non necessariamente un castello, più probabilmente un borgo protetto da torri, mura e un palazzo signorile o fortezza<ref>Antonelli D., ''op. cit.'', p. 162.</ref>.
[[File:Castello di Alvito.jpg|700pxupright=3.2|center|thumb|Il borgo fortificato di Alvito Castello e il maniero dei [[Cantelmo (famiglia)|Cantelmo]]]]
 
==== L'organizzazione feudale ====
La costruzione della fortificazione alvitana risale dunque all'epoca dell'invasione [[normanni|normanna]]. Probabilmente fu il frutto di un intervento congiunto dei principi di Capua e dell'abbazia di Montecassino; la costruzione risale, infatti, proprio al periodo in cui i re di Sicilia trovarono nei cassinati un prezioso sostegno nella costituzione dello stato unitario, in particolar modo presso gli incerti confini settentrionali del [[principato di Capua]]<ref>Dell'Omo M., ''op. cit.'', p. 41-73.</ref>. Era coeva di molti altri manieri e strutture militari rurali che i nobili normanni, conquistato il [[Meridione d'Italia|Meridione]], costruirono a difesa delle principali vie di comunicazione, valichi e valli del [[Regno di Sicilia|Regno]], specialmente tra [[Abruzzo]] e [[Terra di Lavoro]]<ref>Cuozzo E., ''«Quei maledetti Normanni», cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno'', Napoli 1986, p. 78.</ref>. Chiara impronta di come la campagna del [[Mezzogiorno (Italia)|Mezzogiorno]] stava smettendo di essere un mosaico di proprietà ecclesiastiche e signorili, oggetto di contese e spartizioni di duchi, vescovi e re, per diventare parte integrante dello stato unitario siciliano, sotto il controllo di un capillare sistema di rocche e castelli, che rappresentavano il potere militare e civile anche nelle periferie<ref>''Ibidem''. Vedi anche Delogu P., ''Il Ducato di Gaeta dal IX all'XI secolo. Istituzioni e società'', in [[Giuseppe Galasso|Galasso G.]] e [[Rosario Romeo|Romeo R.]] (a cura di), «''Storia del Mezzogiorno''», vol. II, t. I, Edizioni Del Sole - [[Rizzoli]], Napoli 1988, p. 221.</ref>. Il «''castrum Albeti''», che era fra questi, compare nel ''[[Catalogus Baronum]]'' di [[Ruggero II di Sicilia|Ruggero II]]<ref>Jamison E. (a cura di), ''Catalogus Baronum'', Roma 1972, p. 152, n. 836.</ref>, dove si indica come pertinenza di Landolfo I d'Aquino, primo signore<ref>Antonelli D., ''op. cit.'', p. 164.</ref>, e che a lui spettavano le terre di ''[[Alvito (Italia)|Albitum]]'', [[Campoli Appennino|Campoli]], [[Settefrati]] e parte di [[Aquino]], disponendo su questi territori di dieci ''milites'' e trenta ''servientes''<ref>''Catalogus Baronum'', cit., p.</ref>. Landolfo inoltre era barone di Gionata di Caleno, conte di [[Carinola]] (o conte di [[Cales|Caleno]]) e a questa città Alvito faceva capo, con la baronia dei d'Aquino<ref>Antonelli D., ''op. cit.'', p. 167.</ref>. La politica rurale normanna facilitò la ricostituzione dell'antico feudo cominese e l'accentramento amministrativo e patrimoniale che si compì nel ''castrum Albeti'', che riprende un modello insediativo ed economico risalente dalle prime invasioni dei [[saraceni]]<ref>Toubert P., ''op. cit.'', pp. 943-44 e 326, n. 3.</ref>. Altri documenti del 1221 danno testimonianza di come si evolvesse il feudo, di come già fosse strutturata l'impronta di una baronia alvitana: si disputò in quegli anni una ripartizione territoriale del contado, che vide fra i contendenti [[Tommaso I d'Aquino]], [[conte di Acerra]], [[Roberto di Alvito]], Landolfo e [[Adenolfo d'Aquino]], i quali contestavano precedenti divisioni<ref>Scandone, ''op. cit.'', pp. 136-137 doc. 58.</ref>; le contrade spartite sono per la prima volta ben delineate, corrispondenti a centri abitati per la maggior parte ancora oggi popolati: compaiono cinque castelli della [[Valcomino]], cioè [[Campoli Appennino|Campoli]], [[San Donato Val di Comino|San Donato]], [[Settefrati]], ''Rocca delle nore'', [[Picinisco]] e il ''Castrum Albeti'', borghi della prima baronia<ref>Antonelli D., ''op. cit.'', p. 194.</ref>. Il contenzioso fa pensare ad un'amministrazione condivisa, che non impediva ai fratelli di conservare l'unità originaria del feudo, almeno fino all'arrivo degli angioini in Italia.
[[File:Aluito Castle.jpg|300px|rightupright=1.4|thumb|Il castello di [[Alvito (Italia)|Alvito]] in una stampa del [[XIX secolo]]]]
 
==== Alvito e gli Angioini ====
Una sorta di processo di riunificazione patrimoniale nel [[Mezzogiorno (Italia)|Mezzogiorno]] continuò con la dinastia sveva. [[Federico II]] ereditò il [[Regno di Sicilia]] e portò avanti la politica centralista normanna. Il partito che lo sosteneva e che si interessò anche di riformare il sistema politico e giuridico italiano, si dovette scontrare con i diritti e i privilegi delle città della Penisola. Dal [[1230]] il paese fu sconvolto da una feroce guerra, che ebbe termine solo con la [[Battaglia di Benevento (1266)|battaglia di Benevento]] e la sconfitta dei [[ghibellini]], compresi i [[D'Aquino (famiglia)|d'Aquino]], sostenitori di [[Manfredi di Sicilia|Manfredi]]. Di conseguenza anche i feudatari d'Alvito, [[Tommaso II d'Aquino]], Giacomo e Adenolfo II, vennero espropriati dei loro beni, e a nobili francesi, che combatterono a fianco di [[Carlo I d'Angiò|Carlo d'Angiò]] contro gli svevi, fu assegnato il territorio cominese<ref>Franco de Wassemal prima, poi Esustasio de Faylle e quindi Pietro de Cronay e Goffredo de Jamville ebbero [[San Donato Val di Comino|San Donato]] e [[Settefrati]]; altri territori ebbe Guglielmo Maccaris, Atina andò a Ottone de Tremblay, mentre Casalvieri toccò a Ugone de Lica, nel 1269. Da ''Registri Angoini'', 1969, XXVII, p. 163, n. 222 e p. 288 n. 211.</ref><ref>Tauleri B., ''Memorie istoriche della città di Atina'', pp. 112-113, in Mancini A., «''La storia di Atina. Raccolta di scritti vari''», Forni ed., Sala Bolognese 1994.</ref>. L'intera [[Valle di Comino|Valle]] risultò variamente frammentata e agli Aquinati, che pur conservavano un certo prestigio politico in [[Terra di Lavoro]], restò la sola Gallinaro<ref>Mazzoleni J. (a cura di), ''I registri della cancelleria Angioina'', Napoli 1949-1971, XXII, p. 40.</ref>. Dal 1270 pare che abbiano perso anche il castello di Alvito<ref>Castrucci F.S., ''op. cit.'', pp. 27-28.</ref>. Solo con la venuta di un nuovo re ebbero fine le loro sventure e il feudo per breve tempo si giovò di un'amministrazione prospera. Adenolfo II D'Aquino ([[1293]]), [[conte di Acerra]], qualche anno dopo le dure perdite subite dai suoi predecessori, riconquistò il favore del nuovo re, [[Carlo II d'Angiò|Carlo II]], che era succeduto a [[Carlo I d'Angiò]]. Costui riebbe [[Campoli Appennino|Campoli]], [[San Donato Val di Comino|San Donato]], [[Settefrati]] e il ''fortilicie castri Albeti'', nuova denominazione con cui si indicò [[Alvito (Italia)|Alvito]], che lascia supporre che nel frattempo vi era sorto un castello vero e proprio<ref>Antonelli D., ''op. cit.'', p. 195-196.</ref><ref>[[Domenico Santoro|Santoro D.]], ''Pagine sparse di storia Alvitana'', vol. I, Tip. Jecco, Chieti 1908, pp. 9-10.</ref>. ''Fortilicium'' è, infatti, il termine con cui nel medioevo si indicavano specificatamente i castelli.<ref>Antonelli D., ''op. cit.'', pp. 195-196.</ref> Il maniero in quegli anni è descritto come un edificio in buone condizioni, ampiamente munito di armi e adeguatamente approvvigionato dei prodotti del circondario ([[vino]], [[grano]], [[Panicum miliaceum|miglio]], [[spelta]])<ref>Santoro D., ''op. cit.'', pp. 9-10.</ref> anche perché nelle lotte tra guelfi e ghibellini, trattandosi di una fortezza di confine fra lo Stato Romano e il Napoletano, aveva acquisito sempre maggior importanza territoriale e politica<ref>Antonelli D., ''op. cit.'', pp. 195-196.</ref>. [[File:Vicalvi.JPG|350pxupright=1.6|left|thumb|L'abitato e il [[castello di Vicalvi]]]]
 
==== La fine del dominio dei d'Aquino ====
[[Cristofaro D'Aquino]], succeduto a Adenolfo II nel[[1305]], amministrò il contando d'Alvito. Malgrado la famiglia avesse conosciuto in quegli anni una nuova ascesa politica, la successiva generazione degli Aquinati fu ancor più sfortunata e con essa i titoli alvitani vennero definitivamente persi. I membri di tale famiglia erano tornati ad essere i feudatari più influenti della [[Terra di Lavoro]] e in meno di un lustro erano riuscita a riunificare sotto il proprio controllo tutti i territori che avevano perduti con la venuta dei francesi a Napoli, ma un violento terremoto si abbatté presto su alcune loro proprietà. Adenolfo aveva lasciato il suo titolo ai figli [[Berardo d'Aquino|Berardo]] e [[Adenolfo IV d'Aquino|Adenolfo IV]], secondo alcuni figlio<ref>Trigona S. L., ''Atina e il suo territorio nel Medioevo. Storia e topografia di una città di frontiera'', Montecassino 2003. p. 140</ref> o sposo di [[Margherita de Corban]]<ref>Castrucci F.S., ''op. cit.'', p. 31.</ref>, ovvero più probabilmente marito di [[Giovanna Cantelmo]]<ref>Santoro D., ''op. cit.'', vol. I, pp. 49-50.</ref>. Adenolfo IV poi, aveva anche ereditato grazie a Margherita de Corban [[Vicalvi]] e ''[[Posta Fibreno|La Posta]]'', territori economicamente ricchi e ben popolati, e malgrado ciò, il terremoto che nel 9 settembre [[1349]] devastò [[L'Aquila]], la [[Valle Roveto]], [[Sora]], la Valcomino e parte della media e bassa [[Valle del Liri]], distrusse il suo castello, dove sotto i crolli morì con la sua consorte, assieme a dieci notabili di [[Pescasseroli]]<ref>[[Benedetto Croce|B. Croce]], ''Due paeselli d'Abruzzo: [[Pescasseroli]] e [[Montenerodomo]]'', GraphiType, Raiano 1999, p. 70.</ref>.
[[File:Stemma Cantelmo.jpg|100px|rightupright=0.5|thumb|Stemma dei [[Cantelmo (famiglia)|Cantelmo]]]]
 
==== I Cantelmo ====
{{Vedi anche|Cantelmo}}
Dall'arrivo degli angioini nel [[regno di Napoli]] non esistevano più le grosse signorie baronali, alcune delle quali retaggio dell'antica dominazione [[longobardi|longobarda]]. Ogni città aveva il suo signore, generalmente di origine francese, e ricostruire le unità territoriali delle regioni storiche meridionali fu impresa ardua, spesso impossibile. Nell'area a cavallo fra l'[[Abruzzo]] montano e l'alta [[Terra di Lavoro]] si insediò la famiglia francese dei [[Cantelmo (famiglia)|Cantelmo]], che qui ebbero in concessione diverse città dai sovrani di [[Napoli]], ricoprendo poi anche cariche amministrative e burocratiche nei [[giustizierato|giustizierati]] abruzzesi e campani.<ref>Santoro D., ''op. cit.'', vol. I, p. 49.</ref> A svantaggio dei D'Aquino, la famiglia francese accrebbe notevolmente il suo patrimonio, e compare per la prima volta anche nella storia di Alvito, grazie a dei matrimoni combinati dapprima fra Giovanni Cantelmo, figlio di [[Giacomo II Cantelmo|Giacomo II]], con [[Etendard|Angela Étendard]], signora di [[Arpino]], [[Roccasecca]], [[Gallinaro]] e [[San Donato Val di Comino|San Donato]], e quindi fra [[Rostaino II Cantelmo|Rostaino II]] e Margherita di Corban, vedova di [[Adenolfo d'Aquino]] signore di Alvito<ref name="Ibidem"/>. Anche l'unità territoriale cominese era stata perduta; gli [[Stendardo (famiglia)|Étendard]] di Arpino, infatti, avevano ottenuto diversi borghi della [[Valcomino|Valle]]<ref>Vincenti P., ''Historia della famiglia Cantelma'', Napoli 1604, p. 33.</ref>, e i D'Aquino non erano più in grado di tutelarvi i propri interessi economici e territoriali, né il bene comune dei locali abitanti. [[Rostaino Cantelmo]], figlio di [[Rostaino II Cantelmo|Rostaino II]] e nipote diretto dei d'Aquino morti nel terremoto del [[XIV secolo]], per via della zia [[Giovanna Cantelmo|Giovanna]], non poté non approfittare di questa confusione amministrativa e, ereditata la proprietà del castello, si preoccupò della sua ricostruzione. Rostaino edificò anche una cinta muraria nuova per Alvito e il palazzo ducale di [[Atina]], ultima residenza nobiliare dopo i crolli del [[XIV secolo|1300]]<ref>Altri membri della famiglia [[Cantelmo(famiglia)|Cantelmo]] avevano Rostaino per nome; perciò per anni si è fatta molta confusione su chi fosse il proprietario del [[Castello di Alvito]], su chi ne avesse finanziato la ricostruzione, sulla consistenza del patrimonio alvitano della famiglia francese e sulla linea di successione. Il [[Domenico Santoro|Santoro]] riporta una serie di documenti che fanno pensare che il Rostaino, primo feudatario dei Cantelmo di Alvito, sia il figlio di [[Rostaino II Cantelmo|Rostaino II]] e Margherita di Corban, vedova di Adenolfo II signore d'Alvito e che quindi, morto senza eredi, abbia indirettamente lasciato il patrimonio al suo pronipote Rostaino, nipote diretto di [[Giacomo II Cantelmo|Giacomo II]], giustiziere d'Abruzzo. Cfr. Santoro D., ''op. cit.'', vol. I, pp. 56-60.</ref>, assicurandosi il controllo di quello che allora era il centro più importante della zona. I lavori iniziarono nel [[1350]] e furono completati probabilmente da [[Giacomo III Cantelmo|Giacomo III]]<ref>Reggente dei tribunali del regno. Mancini A., ''Famiglia Cantelmo'', in «''La storia di Atina''», cit., p. 691.</ref>, anche se in alcuni documenti sembra che in realtà l'erede del castello fosse il fratello Rostaino. Da alcuni manoscritti infatti, risulta che costui, usurpati ''manu militari'' i feudi dei [[D'Aquino]] nella [[Valcomino]], fu multato dal re [[Carlo III di Napoli|Carlo III]] e ancora, a seguito di una ribellione, pare, secondo altre fonti, che per le stesse ragioni gli furono alienate delle proprietà a [[Napoli]]<ref>L'identificazione di questo Rostaino è rafforzata proprio da alcune fonti che ricordano i suoi possedimenti a Napoli. Dice il Vincenti: «Rostainuccio hebbe un assai ricco palazzo nella piazza d'Arco di Napoli, là dove si dice capo di Trio, nel qual luogo erano le case di Rostaino Cantelmo, zio di costui». Evidentemente è lui il Rostaino a cui vennero confiscati i beni, lui il ribelle e lui il nemico dei D'Aquino, almeno il più intemperante. Cfr. Santoro D., ''op. cit.'', vol. I, pp. 59-62.</ref>. I nobili francesi avevano comunque sconfinato dall'Abruzzo in Terra di Lavoro e avevano compiuto il primo passo verso la riunificazione dell'antico feudo cassiense tra [[Alto Sangro]] e Valcomino. [[File:Palazzo Ducale Cantelmo di Atina.JPG|200px|left|thumb|Il palazzo ducale di [[Atina]] costruito da Rostaino e Giacomo III.]]
{{quotecitazione|Allorché un terremoto mise in pericolo varie parti del Regno, queste annose mura ruinarono e caddero interamente al suolo. Tuttavia Rostaino Cantelmo, chiaro pel nome illustre degli avi, le rifece più belle ed eresse un nuovo Castello e nuove mura. Ma più ancora gli dà rinomanza e gli assicura imperitura fama l'invitta costanza onde mantiene la sua fedeltà. Quando, a difesa del Re d'Ungheria, soldatesche nemiche invadevano il Regno, egli, incurante della sua stessa salute, di danni e di spese personali, serbò a viso aperto la sua onesta promessa. Per tanti meriti il Re e la Regina gli donarono questo Castello che, per la morte di Adenolfo, era rimasto privo del suo Signore. Se chiedi quando ciò accadesse, aggiungi a cinquanta mille e trecento: l'anno in cui il Giubileo aprì le porte del Cielo a tutti i cristiani; se domandi del fondatore, il suo nome è Landolfo.|lingua = la|Antica lapide presso il castello, oggi non più esistente|Dum tremor in terris fuit et generale periclum per varias Regni partes, haec moenia prorsus sunt aequata solo, dederunt annosa ruinam. Ristaysius tamen in melius Vir nobilis ille Guantelmus egregio priscorum Patrum restituit, Castrumque novum nova moenia fecit. Nec minus invictae fidei custodia clarum nunc facit et longe servat praeconia famae. Ungariae Regi, dum Regnum invaderet hostis, publicus iste fuit promissi cultor honesti, nec sibi, nec damnis parcens, nec sumptibus ullis. Huic pro tot meritis Rex et Regina dederunt hoc Castrum, quod tunc Adenulfi morte vacarat. Tempora si quaeris, millenos atque tricenos quinquaginta dabis, coeli dum libera cunctis Ostia christicolis annus iubilaeus habebat. Si petis artificem, Landulfus sit tibi nomen.|lingua = la}}
 
Al [[XIV secolo]] risale la costruzione degli edifici principali, e non essendo più rinvenibile traccia alcuna di strutture preesistenti, è evidente che il maniero fu raso al suolo completamente. All'epoca fu edificata una struttura a pianta quadrata con una torre per ogni angolo<ref>Santoro L., ''Castelli angioini e aragonesi nel Regno di Napoli'', Milano 1982, pp. 128-129, 222-223 e 225.</ref>. Nello stesso periodo i signori di Alvito si interessarono anche del rafforzamento del castello di [[Picinisco]]<ref>Antonelli D., ''Il Castello medievale di Picinisco'', C & V Published, Sora 1997, pp. 57-58.</ref>. Un'interpretazione più recente dell'Antonelli vuole che in realtà prima del terremoto non vi fosse alcuna fortezza e che il ''castrum'' distrutto dal terremoto doveva essere l'intero abitato di Alvito Castello; Rostaino si interessò quindi sia dell'innalzamento di un vero e proprio maniero (''fortilicium'') sul colle di Alvito, che della pianificazione di un nuovo centro abitato, obbedendo in parte ai modelli di incastellamento angioini, in parte alle strutture degli antichi sistemi difensivi rurali normanni<ref>Antonelli D., ''Alvito dalle origini...'', cit., pp. 260-267.</ref>.
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{{Vedi anche|Contea di Alvito|Ducato di Sora}}
Il castello continuò ad essere sempre il principale centro amministrativo del feudo anche negli anni seguenti, insieme al palazzo ducale di Atina. Nel [[XV secolo]] era stato munito ulteriormente, con la costruzione del secondo perimetro murario, gli annessi torrioni e la scarpata in muratura, comunemente indicata come terzo sistema murario<ref>Santoro L., ''Castelli angioini e aragonesi nel Regno di Napoli'', Milano 1982, pp. 128-129 e 222-225.</ref>. I Cantelmo, nello stesso periodo, erano intanto arrivati ad ottenere il titolo ducale, nel [[1454]], e a fare della città il cuore di un grande patrimonio feudale fra [[Lazio]] e [[Abruzzo]], dalla [[Valcomino]] all'[[Alto Sangro]], [[Popoli (Italia)|Popoli]], il circondario di [[Sulmona]] ([[Pettorano]], [[Rivisondoli]]) e alcuni possedimenti nel [[Molise]]. [[Giacomo V Cantelmo|Giacomo V]], figlio di Rostaino, fu il primo conte di Alvito, il quale probabilmente ottenne il titolo dopo il matrimonio con [[Elisabetta d'Aquino]], a lei in dote con la [[contea di Popoli]]<ref>Per certo è conte solo dal [[1404]]. Cfr. Vincenti etc...</ref>. Il patrimonio alvitano si arricchì poi ulteriormente con Antonio, figlio di Giacomo V (vi aggregò i domini di [[Popoli (Italia)|Popoli]] e [[Arce]] ottenuti in eredità dai familiari morti senza prole, e ''manu militari'' [[Pacentro]] e ''[[Roccacaramanico|Rocchetta]]'')<ref>Santoro D., ''op. cit.'', vol. I, p. 73.</ref>; lo stesso Antonio fu però responsabile dei primi eventi nefasti per la famiglia, portando distruzione nella città di Alvito: il castello fu assediato dapprima da [[Ladislao d'Angiò]], per punire il padre Giacomo V, che l'aveva tradito, e, dopo che a costui fu tolta, si rese reo di aver fomentato delle ribellioni, per poterla riconquistare, contro Onello Ortiglia, cui era stato appena assegnato il titolo di signore di Alvito<ref>''Ivi'', p. 76; De Lellis C., ''Discorsi delle famiglie nobili di Napoli'', I, Napoli 1694, p. 297.</ref>. Solo con la venuta nelle [[Due Sicilie]] degli [[Aragonesi]] i Cantelmo, loro sostenitori, riacquistarono un certo prestigio e furono elevati di dignità, col titolo di [[duchi di Sora]]<ref>Vincenti P., ''op. cit.'', p. 48; Summonte A., ''Historia del Regno di Napoli'', vol. IV, Napoli 1675, p. 11; Antinori A., ''Antichità storico-critiche sacre e profane esaminate nella regione dei Frentani'', Napoli 1790, pp. 398-399; Santoro D., ''op. cit.'', vol. I, p. 81.</ref>.
[[File:Cantelmo Stemma.jpg|300px|rightupright=1.4|thumb|Stemma Cantelmo su volta in pietra nel [[castello di Alvito]]]]
Il legame di Alvito con l'[[Abruzzo]], che segnò gli anni della dominazione dei Cantelmo, nonostante i disagi che le numerose operazioni militari portarono alla popolazione, apportò una lenta crescita economica. Le attività annesse alla pastorizia e al commercio della lana furono fonte crescente di ricchezza per gli alvitani e per anni la [[Valcomino]] e l'[[Alto Sangro]] costituirono un unico comprensorio economico, culturale ed etnico<ref>Almagià R., ''La valle di Comino o Cominese. Contributo al Glossario dei nomi territoriali italiani'', Societa geografica italiana, Roma 1911 p. 30.</ref>. Nel [[XVI secolo]] il cuore economico del feudo era indiscutibilmente l'abitato de ''La Valle'', dove gli abitanti si registravano in 400 fuochi, contro i 60 di ''Peschio'' e 150 di ''Castello''. Là era anche sorto un nuovo palazzo ducale, in cui i nobili risiedevano quando erano in visita nella [[Valcomino]], perché allora si erano ormai abitualmente stabiliti a Napoli.<ref>''Relatione familiare de lo Stato d'Alvito fatta all'Ill.mo sig.re Card.le di Como 1595'', in «''Il Ducato di Alvito nell'Età dei Gallio''», tomo II, Castelliri 1997, p 26.</ref>