Industria culturale: differenze tra le versioni

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[[File:Edgar Morin IMG 0558-b.jpg|thumb|Edgar Morin.]]
Il pessimismo dei due filosofi francofortesi ha dato presto avvio ad un lungo dibattito sulla [[cultura di massa]]. Il loro approccio è stato sottoposto a revisione a partire dall'analisi di [[Walter Benjamin]] che, pur condividendo la posizione adorniana sulla “razionalità illuministica” ha individuato proprio nel processo tecnologico e nei [[Nuovi media|nuovi mezzi]] di [[mezzi di comunicazione di massa|comunicazione di massa]], come la fotografia e il cinema, la leva per l'emancipazione sociale delle masse e per una possibile democratizzazione culturale.
=== Edgar Morin===
 
Un altro studioso, il francese [[Edgar Morin]] con il suo ''L'esprit du temps'', è arrivato a sostenere che l'industria culturale non fosse solo uno strumento ideologico utilizzato per manipolare le coscienze, ma anche un'enorme officina di elaborazioni dei desideri e delle attese collettive. Lo studioso, conducendo analisi sull'industria cinematografica, ha parlato di “industria dell'immaginario”, un'industria che mette in scena sogni collettivi in un impasto di realtà e desiderio, produzione mirata al consumo e aspettative inconsce, risultato della collaborazione tra chi produce e chi fruisce. Cosicché, per Morin, l'immaginario sociale scaturisce dalla dialettica tra l'industria culturale e la massa dei destinatari, cui viene conferito un ruolo attivo. La dialettica tra il mondo della produzione e i bisogni culturali si risolve in un reciproco adattamento: l'industria culturale, dal canto suo, utilizza come strutture costanti, su cui organizza la produzione, le forme archetipiche dell'immaginario con cui lo spirito umano ordina da sempre i propri sogni; e la massa d'altro canto vede riconosciuti i propri sogni proprio grazie alla manipolazione. Inoltre l'utilizzo delle strutture costanti (situazioni-tipo, personaggi-tipo, generi...) consente di piegare la necessità d'innovazione della creazione con le esigenze di standardizzazione della produzione industriale. Tuttavia la continua ripresa dei cliché consente sì di utilizzare formule sperimentate, ma anche di sperimentare nuovi significati, spesso non previsti dal sistema produttivo. A detta di Morin è proprio questa contraddizione dinamica tra invenzione e standardizzazione a consentire, da un lato, l'immenso catalogo di stereotipi su cui si regge la produzione di massa, dall'altro il permanere di una certa creatività e originalità, presupposto basilare di qualsiasi consumo culturale.
 
Altri studiosi si sono cimentati nella trattazione del concetto di industria culturale.
 
=== Noam Chomsky ===
 
Il linguista americano [[Noam Chomsky]], uno dei critici più radicali del "potere dei media" nell'epoca dei [[totalitarismo|regimi totalitari]], sostiene che la diffusione di prodotti culturali standardizzati costituisca la minaccia ai valori più elevati della cultura come strumento di costante critica nei confronti della vita e di ogni suo problema. Secondo lo studioso, l'obiettivo delle culture totalitarie era quello di dominare gli individui ­in modo da distrarli, propinando loro semplificazioni e illusioni emotivamente potenti, lasciandoli fare cose prive d'importanza: urlare per una squadra di calcio o divertirsi con una soap opera. L'importante è che l'individuo rimanga incollato al cosiddetto "tubo catodico".
=== Nicholas Garnham ===
 
In tempi più recenti, il ricercatore inglese [[Nicholas Garnham]], sulla streguascia di studi volti ad analizzare le logiche che governano la produzione di opere culturali, parla per la prima volta di "Industrie culturali". L'utilizzo plurale dell'espressione esprime uno scostamento dello studioso dall'accezione originaria che legava l'industria culturale alla cultura di massa. L'obiettivo di Garnham infatti era quello di individuare le caratteristiche proprie degli apparati di governo e di direzione della televisione e dell'editoria.
Nel suo "Capitalism and Communication" ([[1990]]) arriva a sostenere che le "industrie culturali" sono quelle istituzioni che nella nostra società impiegano i modi di produzione e di organizzazione caratteristici delle corporazioni industriali per produrre e diffondere beni e servizi culturali.
Così, secondo Garnham, l'editoria, le imprese discografiche, le organizzazioni sportive e commerciali, utilizzano mezzi tecnologici di produzione e distribuzione ad alta intensità di capitale, con un alto grado di divisione del lavoro e forme gerarchiche di organizzazione manageriale che hanno come fine l'efficienza se non addirittura la massimizzazione dei profitti.
 
Nel tempo ci sono state molte altre ricostruzioni del concetto d'industria culturale, alcune ideologiche, altre storiche, che hanno messo a punto tutta una serie di temi connessi.
=== Unesco ===
 
Probabilmente la definizione più chiara del concetto di "industria culturale" è quella avanzata dall'[[Unesco]] nel [[1982]] che faceva rientrare all'interno di quest'espressione la produzione e riproduzione di beni e servizi culturali, immagazzinati e distribuiti con criteri industriali e commerciali su larga scala, in conformità a strategie basate su considerazioni economiche piuttosto che su strategie concernenti lo sviluppo culturale delle società (UNESCO 1982, p. 21).