Deindustrializzazione: differenze tra le versioni

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Settori sempre più ampi della [[popolazione]], lavorano nel settore terziario, ovvero dei [[servizi]] ([[commercio]], servizi alla persona, servizi alle [[impresa|imprese]], intermediazione, [[trasporto|trasporti]], ecc...) mentre decresce la quota di forza lavoro all'interno del [[settore primario]] ([[agricoltura]]) e [[settore secondario|secondario]] ([[industria]]).
Di solito la terziarizzazione comporta benefici economici, ma solamente in quei paesi che hanno già conosciuto una [[industrializzazione]] nel passato e in cui la decisione di dismettere l'[[industria]] pesante è accompagnata da validi [[investimento|investimenti]] alternativi, accompagnati da validi programmi di [[formazione]] sulle nuove tecnologie.
 
== In Italia ==
{{F|economia internazionale|novembre 2014|Sembra a tutti gli effetti una ricerca personale di un anonimo protagonista che parla addirittura in prima persona}}
Alla fine degli [[anni ’70]] l’Italia aveva superato l’[[Inghilterra]], e nessuno 30 anni prima poteva immaginare un risultato del genere. Aveva quasi appaiato la [[Francia]] e stava minacciando la [[Germania]]. È in quella situazione che si stabilisce, in [[Europa]], l’accordo per i cambi fissi. Che cosa significa? I singoli stati sono responsabili della propria [[bilancia dei pagamenti]], cioè di fronte a un disavanzo commerciale non possono [[svalutazione|svalutare]] la propria moneta perché si sono impegnati con i cambi fissi e quindi devono offrire questi titoli ad alto [[tasso di interesse]]. Ma far crescere i tassi di interesse non è ininfluente per l’economia, per cui si crea un meccanismo per cui gli stati più forti, che [[esportazione|esportano]] di più, non tenuti a rivalutare la propria moneta, diventano ancora più forti e quindi si abbassano i loro tassi di interesse, fanno più [[investimento|investimenti]] in [[tecnologia]], sono più competitivi e ricominciano a esportare di più. Invece gli stati deboli, per compensare le [[importazioni]] nette, devono emettere titoli e far crescere i tassi di interesse, ma l’aumento dei tassi di interesse determina un accorciamento dell’orizzonte delle [[impresa|imprese]] e quindi minori prospettive di occupazione per i giovani.
 
Nel 1982/83 io ero funzionario del [[Ministero del Bilancio]] e feci uno studio. Lo feci vedere al Ministro, facendogli presente che questo sistema avrebbe rovinato il Paese perché il [[debito pubblico]], nel giro di 5/6 anni, avrebbe superato il [[prodotto interno lordo]], e la [[disoccupazione]] giovanile avrebbe superato il 50%. Ne parlai anche col [[Ministro del Tesoro]], che era [[Beniamino Andreatta]], e con alcuni dell’ufficio studi della [[Banca d’Italia]]. Tutti quanti concordarono sul fatto che la mia analisi era esagerata e che non era possibile che il debito pubblico superasse il PIL, perché allora il sistema sarebbe saltato. E io dissi: “scusate, se il debito è un fondo e il PIL è un flusso, non c’è nessun problema! Se io oggi, per farvi un esempio, con 50mila euro di reddito della mia famiglia vado a chiedere un prestito di 200, 250mila euro alla banca, me lo danno. Quindi anche un rapporto di 4/5 volte rispetto al PIL è sostenibile. Se è sostenibile per una famiglia, che tutto sommato non ha la forza di uno Stato, perché uno Stato, se supera il 100% del PIL, dovrebbe vedere chissà quali catastrofi?”. Allora dissero che le preoccupazioni sulla disoccupazione giovanile erano esagerate… Insomma: litigammo, me ne andrai dall’amministrazione e andai a fare altri lavori.
 
Nel 1989 ebbi uno scambio con l’allora incaricato [[Presidente del Consiglio]] che era [[Giulio Andreotti]], il quale mi disse: “Dobbiamo cambiare l’[[economia italiana]] perché così non può andare avanti, ci dia una mano”. Io mi misi a disposizione e mi fecero incontrare con il suo braccio destro il quale, come è noto, mi chiese: “Che cosa devo fare per cambiare l’economia di questo Paese?”. Dissi: “Guardi, lei si faccia nominare dal prossimo [[Governo]] al Ministero del Bilancio e mi metta in mano tutta la struttura. Al resto ci penso io”. Poi me ne andai, pensando insomma che non sarebbe successo niente. E invece mi chiamò, dopo qualche settimana, e mi disse: “Guardi, sono Ministro del Bilancio” e mi mise a capo di tutta la struttura. Per cui io, nell’autunno del 1989 cominciai a cambiare l’economia di questo Paese. Nel senso perlomeno di rallentare il processo dell’Europa. Poi io ho avuto la buona scuola di Federico Caffè… non ero un euroscettico, però non ero neanche un euroestremista. Insomma, pensavo che l’Italia dovesse anche guardare all’Europa, ma con i suoi tempi, le sue caratteristiche, le sue peculiarità, per cercare di recuperare un po’ di sovranità monetaria etc.
 
In effetti io lì lavorai due o tre mesi e poi successe l’inferno. Arrivarono al [[Ministro del Tesoro]], [[Guido Carli]], telefonate dalla [[Banca d’Italia]], dalla [[Fondazione Agnelli]], dalla [[Confindustria]] e, nientedimeno, da un certo [[Helmut Kohl]], il quale era venuto a sapere che c’era questo oscuro funzionario del Ministero del Bilancio che stava cambiando le carte degli accordi. Nel frattempo, però, lo stesso Andreotti stava cambiando idea. Quando mi chiamò, nell’estate dell’89, volevano cambiare. Non volevano fare quello che poi fu fatto. Lui stesso andava in giro dicendo che le rivendicazioni della Germania erano una sciocchezza. Dopo qualche mese ci fu l’accordo tra Kohl e [[Mitterrand]] in cui Kohl, in cambio dell’appoggio di Mitterrand per la riunificazione tedesca, rinunciava al marco e quindi accettava la prospettiva dell’euro, accettava cioè di arrivare a una moneta comune che proteggesse la Francia. Ma quest’accordo prevedeva anche la deindustrializzazione dell’Italia. Perché se l’Italia si manteneva così forte dal punto di vista produttivo – industriale, quell’accordo tra Kohl e Mitterrand sarebbe rimasto un accordo così, per modo di dire.
 
C’erano fondamentalmente, contro la [[spesa pubblica]], contro la classe politica del tempo, contro la [[sovranità monetaria]] – per quello che comporta – due correnti. Una era interessata soprattutto ai grandi business delle [[privatizzazioni]] e delle [[liberalizzazioni]]. Hanno guadagnato distruggendo l’industria pubblica: c’erano aziende che venivano vendute al loro valore di magazzino, e quindi come andavano in borsa ovviamente alzavano la loro quotazione. Poi c’erano gli altri, che erano magari in buona fede, cioè avevano l’obiettivo di moralizzare il Paese. In entrambi i casi la contropartita è stata negativa: abbiamo perso quel’abbrivio strategico che avevamo nell’ambito della nostra industria. Quindi in sostanza la nostra classe dirigente ha accettato una prospettiva di deindustrializzazione del nostro Paese.
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== Bibliografia ==