Francesco Berni: differenze tra le versioni

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== Opere ==
La più antica opera databile del Berni è ''La Catrina'' (1516), una farsa rusticale in ottave costruita sul modello delle farse senesi, che a quell'epoca veniva esportato a Roma da [[Niccolò Campani]] detto lo Strascino. Peraltro la prima attestazione del testo è tarda<ref>''La Catrina'', Firenze, per Valente Panizzi, 1567. Nella lettera dedicatoria di Alessandro Ceccarelli a madonna Fiammetta Soderini si dice che fu «composta da lui [Berni] nella sua più tenera età».</ref> e l'attribuzione desta sospetti, al pari del ''Mogliazzo'' e della ''Caccia d'Amore'', tardivamente attribuiti al Berni e sicuramente apocrifi.<ref>Vedi Virgili 1881, pp. 42-48, 516, 522.</ref>
 
Ma tralasciando le cose minori, la poesia che tradizionalmente si riconosce come "bernesca" si inaugura con un ciclo di capitoli ternari (ovvero in terza rima) composti negli anni 1521-1522, con l'ibrida avanguardia del ''Capitolo del Cornacchino o Lamento di Nardino''. Sono degli encomi in versi, che peraltro assumono come oggetto della lode soggetti inopinati e incongrui: ''Ghiozzi'', ''Anguille'', ''Cardi'', ''Pesche'', ''Orinale'', ''Gelatina'', ''Ago''. Da questo punto di vista l'autore mostra di guardare al modello classico ed umanistico dell'encomio paradossale (in prosa), che aveva trovato il suo esempio più recente e più illustre nell'<nowiki/>[[Elogio della follia]]'' di [[Erasmo da Rotterdam]]''.<ref>Vedi Maria Cristina Figorilli, ''Meglio ignorante che dotto. L'elogio paradossale in prosa nel Cinquecento'', Napoli, Liguori Editore («Critica e letteratura», 77), 2008.</ref> Nello stesso tempo però, quei soggetti incongrui si rivelano metafore di organi ed operazioni sessuali (di preferenza omosessuali), denunciando un'evidente filiazione dal canto carnascialesco fiorentino, nella variante della ''mascherata'', ovvero il canto delle professioni e delle condizioni umane, nel quale le profferte dei figuranti alle donne si traducevano in un gioco di equivoci osceni.
 
Questa produzione, connessa ai liberi costumi di un ambiente spregiudicato, si arresta all'avvento di papa Adriano VI (contro il quale il Berni scagliò un rabbioso capitolo ternario) e all'esilio in Abruzzo, per dileguare affatto dopo il passaggio al servizio del Giberti. In quest'epoca fiorisce invece il sonetto di polemica politica (è celebre ''Un papato composto di rispetti'', contro l'inettitudine di papa Clemente VII) o letteraria (è celebre ''Chiome d'argento fino'', parodia della poesia petrarchesca dettata dal Bembo). Ma è anche l'epoca del ''Dialogo contra i poeti'', che liquida la vacuità e l'empietà della poesia umanistica alla luce della dottrina cristiana, reclamando concretezza e rettitudine. Tuttavia il Berni non resiste a riesumare un episodio della passata attività pubblicando nel 1526 il ''Commento alla Primiera'', nel quale tace completamente della componente oscena dei versi, ma si lascia sfuggire frecciate polemiche contro gli "scrupolosi" (i rigoristi), tra i quali è da annoverare - è ovvio - il suo austero padrone.
 
Dopo il sacco del 1527 e il sonetto di vituperio contro Pietro Aretino (''Tu ne dirai e farai tante e tante''), la sua attività letteraria sembra concentrarsi nel rifacimento dell'''Orlando innamorato'' di Matteo Maria Boiardo, per il quale chiedeva i privilegi di stampa nel 1531, ma che sarà pubblicato soltanto postumo. Si tratta di un poema toscanizzato ma anche "moralizzato",<ref>Vedi Danilo Romei, ''L'"Orlando" moralizzato dal Berni'', in Id., ''Da Leone X a Clemente VII. Scrittori toscani nella Roma dei papati medicei (1513-1534)'', Manziana (Roma), Vecchiarelli editore («Cinquecento» - Studi, 21), 2007, pp. 181-201.</ref> che invita a leggere le vicende narrate in funzione dei proemi premessi a ogni canto e degli insegnamenti morali che vi si espongono. L'operazione non risulta molto convincente.
 
Dopo l'esperimento del capitolo epistolare, inaugurato nel 1528 con il ''Capitolo a messer Francesco milanese'', e di quello narrativo con il ''Capitolo del prete da Povigliano'' (1532), il Berni tornava al capitolo paradossale negli ultimi mesi del servizio con il Giberti (1532), votando le sue lodi alla ''Peste'', ad ''Aristotele'', al ''Debito''. In questi casi il paradosso non implicava più, almeno per principio, l'equivoco osceno, ma prendeva di mira bersagli ideologici: la convinzione che la natura sia necessariamente buona perché creata da Dio, l'aristotelismo che si andava affermando, le convenzioni sociali.
 
Tornato a Roma, vi trovava una frotta di ammiratori e imitatori ([[Giovanni Della Casa]], [[Francesco Maria Molza]], Giovan Francesco Bini, [[Agnolo Firenzuola]], Mattio Franzesi ecc.), raccolti nella cosiddetta Accademia dei Vignaiuoli.<ref>Vedi Danilo Romei, ''Roma 1532-1537: accademia per burla e poesia "tolta in gioco"'', in Id., ''Berni e berneschi del Cinquecento'', Firenze, Centro 2 P, 1984, pp. 49-135; poi in Id., ''Da Leone X a Clemente VII'', cit., pp. 205-266. Vedi anche Silvia Longhi, ''Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento'', Padova, Antenore («Miscellanea erudita», XXXVIII), 1983.</ref> Da qui si diffonde il genere della poesia bernesca. Fra le sue ultime prove va citato almeno il ''Capitolo a fra Bastian dal Piombo'', per la sua esaltazione della poesia di [[Michelangelo Buonarroti|Michelangelo]] contrapposta alla vanità della poesia dei petrarchisti: «tacete ''unquanco'', ''pallide viole'' / e ''liquidi cristalli'' e ''fiere snelle'': / e' dice cose e voi dite parole» (vv. 29-31).
 
La sua vita e la sua opera sono arruffate e contraddittorie. In una delle sue ultime lettere affermava con amarezza: «non ho fatto mai alli dì miei cosa buona».<ref>Lettera a Luigi Priuli, da Fiorenza, senza data, in ''Francesco Berni'' 1999, p. 507.</ref>