Battaglia del monte Ortigara: differenze tra le versioni

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La giustificazione addotta da Cadorna già allora non persuase gli stessi comandi italiani; infatti con maggior sincerità e intelligenza critica il generale Gatti individuava i limiti della direzione tattica italiana: «sull'Ortigara si disegnavano due sistemi, quello austriaco e quello italiano, di azione tattica. Per gli austriaci gli uomini mancano: non è quindi il caso di impiegarli come al principio della guerra per contrastare fino alla distruzione una posizione qualunque. No, si resiste fino a quando si può: si fa premere sulla molla dal nemico, fino a che la pressione finisce, ecco, allora la molla austriaca ritorna pian piano a posto. Oggi recupera questa posizione, domani quella: poca gente, scelta, ardita, un colpetto mentre noi non siamo più tanto in guardia, e basta. E il colpetto portato nei nostri più deboli funziona.»<ref>{{Cita libro|nome=Angelo|cognome=Gatti|titolo=Caporetto|città=Bologna|editore=Il Mulino|anno=1997|pagina=141}}</ref>. Gatti è critico sull'atteggiamento italiano di continuare a inviare truppe per mantenere le posizioni conquistate anche se non favorevoli, ammassando le linee di uomini e creando confusione e alte perdite. Secondo il generale sarebbe stato meglio ritornare ai punti di partenza per ripetere gli attacchi con massima energia e preparazione, senza lasciare al nemico la possibilità di preparare i contrattacchi, che inevitabilmente ricacciavano indietro i pochi italiani stremati che avevano l'ordine di mantenere le posizioni conquistate ad ogni costo<ref>{{Cita|Oliva 2001|p. 139}}.</ref>. Simili considerazioni furono formulate dal generale [[Aldo Cabiati]] che scrisse nel 1933: «[...] l'italiano saturava di forze le linee e le immediate retrovie [...] l'austriaco cercava di raggiungere i suoi obiettivi col minimo impiego di truppe e con accentuato scaglionamento in profondità»<ref>{{cita libro|nome=Aldo|cognome=Cabiati|titolo=Ortigara|editore=Edizioni 10° reggimento Alpini|città=Roma|anno=1933|pagina=128}}</ref>. Le conclusioni tratte dal Comando supremo non considerarono neanche gli insegnamenti che l'ecatombe sull'Ortigara poteva dare. Lo stesso Gatti criticò l'atteggiamento degli alti comandi i quali, secondo lui, erano colpevoli di non essere in grado di formare una nuova dottrina tattica adatta mano a mano che le condizioni di guerra mutavano, continuando a condurre le azioni in modo errato e rigidamente legato a vecchie tattiche. In questo modo poi si contribuiva allo sfinimento fisico e al logorio morale del soldato, il quale non vedeva soluzione ai sanguinosi e vani assalti<ref>{{Cita|Oliva 2001|p. 140}}.</ref>.
 
Certamente la fallimentare offensiva italiana sull'Altopiano non fu riconducibile a errori ben individuabili, bensì a una serie di errori di valutazioni e incertezze che, nel rapido susseguirsi degli eventi, non permisero alle truppe italiane di avere la meglio sugli avversari. Fin dai preparativi ci furono grosse lacune organizzative e strategiche; prima di tutto la mancata segretezza che avrebbe dovuto caratterizzare la "Difensiva ipotesi uno" della quale, probabilmente già nell'inverno 1916-1917, gli austro-ungarici vennero a conoscenza. Da come riporta lo storico [[Gianni Pieropan]], grosse mancanze ci furono anche durante la preparazione del piano: la dispersione di forze lungo un fronte di svariati chilometri, la poca riservatezza della stampa italiana sull'imminente battaglia e la sfiducia che pervadeva alcuni comandanti. Il generale Di Giorgio osservò ben prima della battaglia che l'artiglieria si sarebbe dovuta concentrare al settore nord Campigoletti-Ortigara, ossia il settore determinante che permetteva l'avanzata verso l'importante cima Portule, che presentava margini di manovra migliori rispetto al settore sud, dove le trincee fortificate austro-ungariche sorgevano a pochi metri da quelle italiane ed erano state ulteriormente rinforzate durante l'inverno<ref name="Pieropan 2009 300"/>. Qui fu grave l'errore delle artiglierie che cannoneggiarono con precisione la Brigata "Sassari", un fatto peraltro nascosto nelle pubblicazioni ufficiali dell'esercito, dove la verità si deduce solo perché l'assalto a cui dovevano partecipare sei battaglioni in effetti fu attuato da quattro compagnie<ref>{{cita|Silvestri 2006|pp. 104-105}}.</ref>. La sfiducia nelle narrazioni storiche ufficiai è accentuata dallo scrittore [[Mario Silvestri]], che pone seri dubbi sull'autenticità degli ordini dati in piena azione, secondo lui redatti a posteriori<ref>{{cita|Silvestri 2006|p. 104}}.</ref>. L'autore Sergio Volpato tratta in modo particolareggiato i rapporti tra il Comando supremo e la stampa che, tramite l'Ufficio Stampa e Propaganda, era a conoscenza di particolari sull'imminente battaglia che lasciò incautamente trapelare al pubblico<ref>{{Cita|Volpato 2014|p. 127}}.</ref>.
 
I comandi italiani erano poi discordanti sulle possibilità di successo e in alcuni casi non avevano neppure un buon ascendente sulle truppe. I generali Como Dagna e Montuori, venuti a conoscenza della dilatazione del fronte verso sud e delle previsioni meteorologiche, si dissero pessimisti circa l'esito dell'azione e, nonostante la fiducia che Cadorna riponeva in Mambretti, questi non era a conoscenza di un fatto in apparenza banale che lo riguardava e che preoccupava i soldati: si era diffusa la credenza che il comandante della 6ª Armata fosse uno iettatore e che ogni azione sotto il suo comando si sarebbe risolta nel peggiore dei modi<ref>{{Cita|Pieropan 2009|p. 294}}.</ref>. Il giornalista de [[Il Messaggero]] Rino Alessi, in una lettera del 23 luglio 1917 inviata al suo direttore per informarlo del siluramento di Mambretti, a tal proposito scrisse riportando pari pari quanto disse Cadorna<ref>{{Cita|Volpato 2014|p. 155}}.</ref>: «Era rimasto inspiegabile perché, durante il primo tentativo fatto sugli altipiani, dopo la preparazione dell'artiglieria, la fanteria non si mosse all'attacco. [...] i comandanti in sottordine avevano interpretato l'irrompere improvviso del temporale [del 10 giugno] con un segno indiscutibile dell'avversa sorte che perseguita il Mambretti, in ogni suo atto. Così dal pregiudizio della jettatura si è determinato una specie di fenomeno psicologico collettivo d'improvvisa sfiducia nel condottiero»<ref>{{cita libro|nome=Rino|cognome=Alessi|titolo=Dall'Isonzo al Piave, lettere clandestine di un corrispondente di guerra|editore=Mondadori Editore|città=Milano|anno=1966|pagina=25}}</ref>.