Francesco Berni: differenze tra le versioni

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Il Giberti esigeva dai suoi collaboratori un'irreprensibile disciplina, alla quale il Berni si mostrò più volte riottoso, esprimendo nello stesso tempo un sostanziale scetticismo sui suoi disegni politici. Tuttavia la disciplina del Giberti non mancò di produrre effetti profondi sulla sua personalità e sulla sua attività letteraria. Nel 1526 pubblicava il ''Dialogo contra i poeti'', un crudo atto di accusa contro la degenerazione della cultura umanistica, nel quale dichiarava di volersi 'spoetare'. In effetti abbandonò sia la poesia latina che gli oscenissimi versi in volgare che aveva composto fino ad allora, limitandosi a scrivere qualche sonetto di natura polemica e satirica.
 
Alla prova della storia, i disegni politici del Giberti, ostacolati anche dalle incertezze e dalle indecisioni del papa, fallirono tragicamente. Il 6 maggio 1527 un'orda senza freno di milizie imperiali, rimaste senza guida e senza controllo, prese Roma al primo assalto e la sottopose a uno spaventoso saccheggio che rischiò di annientare la città. Il Berni, che vi rimase direttamente coinvolto, cercò di esprimere l'orrore dell'esecrando spettacolo a cui fu costretto ad assistere in una serie di ottave aggiunte al suo rifacimento dell'''[[Orlando innamorato]]'', ma non ci riuscì («Io vorrei dir, ma l'animo l'aborre...»).<ref>''Orlando innamorato'', I, xiv, 23-28.</ref>
 
Sopravvissuto ai massacri, alla fame, alla peste, riparò per qualche tempo in [[Mugello]], dove aveva delle proprietà; quindi raggiunse nel suo vescovado di Verona il padrone, che aveva abbandonato definitivamente la Curia per votarsi a un progetto di riforma ''in membris'', cioè che partisse dalla periferia per conquistare il centro e che in primo luogo comportasse per i vescovi l'obbligo di risiedere nella loro sede episcopale. Ma nonostante i propositi di buona volontà più volte manifestati, la convivenza con il Giberti, che a Verona aveva fondato un cenacolo di severo umanesimo cristiano, restò sempre difficile e conflittuale. Il Berni tentò una prima evasione dalla «suggezione in che stava in Verona»<ref>Si veda il titolo tradizionale del sonetto ''S'io posso un dì porti le mani addosso''.</ref> nel 1531, quando tentò di accasarsi con i tre giovani abati Cornaro, figli del [[Francesco Corner (1478-1543)|cardinale Francesco]], che dimoravano insieme a [[Padova]].<ref>Vedi Virgili 1881, pp. 251-257.</ref> Tornato poco dopo con il Giberti, riprese a scrivere versi paradossali, sintomo di un'inquietudine che avrebbe portato di lì a poco alla rottura definitiva.
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Questa produzione, connessa ai liberi costumi di un ambiente spregiudicato, si arresta all'avvento di papa Adriano VI (contro il quale il Berni scagliò un rabbioso capitolo ternario) e all'esilio in Abruzzo, per dileguare affatto dopo il passaggio al servizio del Giberti. In quest'epoca fiorisce invece il sonetto di polemica politica (è celebre ''Un papato composto di rispetti'', contro l'inettitudine di papa Clemente VII) o letteraria (è celebre ''Chiome d'argento fino'', parodia della poesia petrarchesca dettata dal [[Pietro Bembo|Bembo]]). Ma è anche l'epoca del ''Dialogo contra i poeti'', che liquida la vacuità e l'empietà della poesia umanistica alla luce della dottrina cristiana, reclamando concretezza e rettitudine. Tuttavia il Berni non resiste a riesumare un episodio della passata attività pubblicando nel 1526 il ''Commento alla Primiera'', nel quale tace completamente della componente oscena dei versi, ma si lascia sfuggire frecciate polemiche contro gli "scrupolosi" (i rigoristi), tra i quali è da annoverare - è ovvio - il suo austero padrone.
 
Dopo il sacco del 1527 e il sonetto di vituperio contro Pietro Aretino (''Tu ne dirai e farai tante e tante''), la sua attività letteraria sembra concentrarsi nel rifacimento dell'''Orlando innamorato'' di [[Matteo Maria Boiardo]], per il quale chiedeva i privilegi di stampa nel 1531, ma che sarà pubblicato soltanto postumo. Si tratta di un poema toscanizzato ma anche "moralizzato",<ref>Vedi Danilo Romei, ''L'"Orlando" moralizzato dal Berni'', in Id., ''Da Leone X a Clemente VII. Scrittori toscani nella Roma dei papati medicei (1513-1534)'', Manziana (Roma), Vecchiarelli editore («Cinquecento» - Studi, 21), 2007, pp. 181-201.</ref> che invita a leggere le vicende narrate in funzione dei proemi premessi a ogni canto e degli insegnamenti morali che vi si espongono. L'operazione non risulta molto convincente.
 
Dopo l'esperimento del capitolo epistolare, inaugurato nel 1528 con il ''Capitolo a messer Francesco milanese'', e di quello narrativo con il ''Capitolo del prete da Povigliano'' (1532), il Berni tornava al capitolo paradossale negli ultimi mesi del servizio con il Giberti (1532), votando le sue lodi alla ''Peste'', ad ''Aristotele'', al ''Debito''. In questi casi il paradosso non implicava più, almeno per principio, l'equivoco osceno, ma prendeva di mira bersagli ideologici: la convinzione che la natura sia necessariamente buona perché creata da Dio, l'aristotelismo che si andava affermando, le convenzioni sociali.