Yoga Sūtra: differenze tra le versioni

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Lo '''''Yoga Sūtra''''' ([[devanagari]]: '''योगसूत्र'''; "aforismi<ref>''Sūtra'' vuol dire "filo", "corda", termine che è stato spesso adoperato nei titoli di opere induiste formate da frasi brevi fra loro collegate secondo un voluto schema espositivo, quindi unite da un "filo". Per estensione, il termine è anche tradotto con "aforisma" (vedi ''[http://faculty.washington.edu/prem/mw/s.html Monier-Williams Sanskrit-English Dictionary]'').</ref> sullo [[Yoga]]") di [[Patañjali (filosofo)|Patañjali]] è un testo [[filosofia|filosofico]]<ref>Così lo storico delle religioni [[Mircea Eliade]]:<br />{{Citazione|Grazie a Patañjali lo Yoga, da tradizione "mistica", si è trasformato in "sistema filosofico".|Mircea Eliade, ''Lo Yoga. Immortalità e libertà'', ''Op. cit.''; p. 23}}</ref> [[india]]no risalente ai primi secoli<ref>Gavin Flood, ''L'induismo'', traduzione di Mimma Congedo, Einaudi, 2006; p. 131. Secondo l'accademico inglese, la stesura dei ''sūtra'' è avvenuta fra il I secolo BCE e il V secolo CE.</ref>, ritenuto fondamentale nello [[Yoga]] [[darśana]], uno dei sei sistemi ortodossi dell'[[induismo]].
 
==Generalità==
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{{Citazione|Lo Yoga classico comincia dove finisce il Sāṃkhya. Patañjali fa sua quasi integralmente la dialettica Sāṃkhya, ma non crede che la conoscenza metafisica possa, da sola, portare l'uomo alla liberazione suprema.|Mircea Eliade, ''Lo Yoga. Immortalità e libertà'', ''Op. cit.''; p. 47}}
 
Entrambi i sistemi, lo Yoga e il [[Sāṃkhya]] (un altro dei sei ''darśana'' dell'induismo), hanno infatti come fine quello di voler liberare l'uomo dalla [[sofferenza]] insita nella condizione umana e quindi dal ciclo delle rinascite. Il Sāṃkhya afferma che a tale scopo sia sufficiente la [[conoscenza]] [[metafisica]] (''gnosi''<ref name="M. Eliade, Op. cit., p. 48">M. Eliade, ''Op. cit.'', p. 48.</ref>), il riconoscere cioè che esistono due principi ultimi, la materia e lo spirito, e che questi sono in realtà distinti fra loro, essendo lo spirito spettatore puro e passivo delle dinamiche della materia, materia che è ciò di cui siamo fatti, mente e corpo.
{{vedi anche|Sāṃkhya}}
 
Patañjali ritiene invece insufficiente la sola conoscenza, e nei suoi ''Yoga Sūtra'' espone una tecnica psicofisiologica il cui fine è quello di superare gli stati ordinari della [[coscienza (psicologia)|coscienza]], per realizzare uno stato soggettivo che è sia extrarazionale sia sovrasensoriale (''samādhi''), grazie al quale ottenere la liberazione (''[[mokṣa]]'').<ref> name="M. Eliade, ''Op. cit.'', p. 48.<"/ref>
 
==''Samādhi Pāda''==
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Patañjali prosegue quindi descrivendo le quattro specie del ''samprajñāta samādhi'' (I.42-50): ''savitarka'' ("argomentativa": l'oggetto della meditazione è percepito con l'ausilio del [[ragionamento]] riflessivo); ''nirvitarka'' ("non argomentativa": l'oggetto della meditazione è percepito sgombro dalle contaminazioni della memoria, e le argomentazioni logiche cessano); ''saviśara'' ("riflessiva": la percezione oltrepassa l'aspetto esteriore dell'oggetto); ''nirviśara'' ("sovra-riflessiva": la percezione prosegue liberandosi delle categorie dello [[spazio (fisica)|spazio]] e del [[tempo]]).<ref>M. Eliade, ''Op. cit.'', pp. 87-90.</ref>
 
Mircea Eliade mette in guardia dal confondere il ''samādhi'' con la [[trance (psicologia)|trance]] [[ipnosi|ipnotica]], stato psicologico invero già noto agli indiani, e descritto in diversi testi sacri e non.<ref>M. Eliade, ''Op. cit.'', pp. 85-86.</ref> Uno dei termini utilizzati dallo storico per tradurre ''samādhi'' è, come si è detto, "enstasi"<ref> name="M. Eliade, ''Op. cit.'', p. 48.<"/ref>, neologismo adoperato proprio per contrapporre l'esperienza del ''samādhi'' a quella dell'[[estasi]]. Mentre quest'ultima è, secondo l'etimologia (''ek-stasis'', "uscire fuori") e nelle descrizioni fornite da chi l'ha sperimentata, un estraniamento da sé e dal mondo volto alla congiunzione col divino, l'enstasi è, al contrario, un ricongiungersi con la propria coscienza più pura: nel ''samādhi'' lo yogin non è né rapito in un "volo estatico" né immerso in uno stato di [[autoipnosi]], "egli vi penetra con estrema lucità".<ref>M. Eliade, ''Op. cit.'', p. 103.</ref> Così anche l'indologo [[Jean Varenne]]:
{{Citazione|La traduzione 'estasi', che è talora stata proposta, è del tutto erronea. Lo yogi in stato di samadhi non 'esce' affatto da sé stesso, non è 'rapito' come lo sono i mistici; esattamente al contrario rientra completamente in sé stesso, si immobilizza totalmente per l'estinzione progressiva di tutto quanto causa il movimento: istinti, attività corporale e mentale, la stessa intelligenza.|Jean Varenne, ''Upanisads du Yoga'', Gallimard, 1971<ref>Citato in [[Massimo Introvigne]], ''[http://www.cesnur.org/2002/mi_verlinde.htm#Anchor-43793 Apologetica cattolica e nuova religiosità.]'', ''cesnur.org''.</ref>}}
{{vedi anche|Samādhi}}
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===''Vibhūti''===
A partire dal ''sūtra'' III.16 vengono esposti i "poteri miracolosi" (''[[vibhūti]]''; o anche ''[[siddhi]]'', che letteralmente vuol dire "perfezioni"<ref name="M. Eliade, Op. cit., p. 95">M. Eliade, ''Op. cit.'', p. 95.</ref>) come risultato della pratica del ''saṃyama'': concentrandosi su uno o più oggetti e quindi meditando su di essi e realizzando la congiunzione, lo ''yogin'' acquista poteri "occulti":
{{Citazione|Qualsiasi cosa lo yogin desideri conoscere, deve compiere il ''saṃyama'' in rapporto con l'oggetto in questione.|Vācaspati Miśra, ''Tattva-vaiśāradī'', glossa a III.30<ref>Citato in M. Eliade, ''Op. cit.'', p. 93.</ref>}}
 
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Questi poteri, però, non sono e non devono essere il fine dello Yoga, e Patañjali mette in guardia il lettore vincolando la liberazione proprio al superamento di questi:
{{Citazione|Quando poi si è liberi da attaccamento rispetto a tutti questi poteri, si distrugge il seme che imprigiona. A quel punto segue il ''kaivalya''.|Patañjali, ''Yoga Sūtra'', III.51}}
Vyāsa, nel commentare questo ''sūtra'', parla delle ''siddhi'' come di "miraggi magici", illusioni che tentano di distogliere lo ''yogin'' dal retto percorso.<ref> name="M. Eliade, ''Op. cit.'', p. 95.<"/ref>
 
==''Kaivalya Pāda''==
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{{q|Le azioni di uno yogi non sono né bianche né nere<ref>''Aśkula'' ("non bianco"), ''akṛṣṇaṁ'' ("non nero"): così nel testo. Altre traduzioni debbono pertanto considerarsi interpretazioni.</ref>. Le azioni degli altri sono di tre tipi: bianche, nere e grigie<ref>In realtà nel testo Patañjali scrive ''trividham'' ("triplice"), senza specificare i tre colori: così anche Vivekananda nella sua traduzione.</ref>.|''Yoga Sūtra'', IV.7<ref>Traduzione di B.K.S. Iyengar, ''Commento agli Yoga Sūtra di Patañjali'', ''Op. cit.'', p. 244.</ref>}}
 
Questa distinzione in tre parti del ''karma'' (le "azioni") ha una sua corrispondenza con le tre ''[[guṇa]]'', le tre componenti, o qualità, della ''prakṛti'' ("materia"): secondo il Sāṃkhya le trasformazioni che la materia subisce nel tempo (''pariṇāma'', "evoluzione") sono dovute all'avvicendarsi di queste tre componenti fondamentali: ''tamas'', ''rajas'', ''sattva''. Ai primordi del tempo, le tre ''guṇa'' giacciono in perfetto equilibrio fra loro: è lo stato della materia immanifesta, il tempo non esiste. Quando questo equilibrio si altera, la materia diventa manifesta, il tempo ha inizio.<ref>Per approfondire, vedi la voce [[Sāṃkhya]].</ref> Gli aspetti della materia non sono se non l'effetto della ''colorazione'' che viene dalle ''guṇa'', esseri viventi non esclusi. Anche le nostre azioni (''karma'') sono perciò ''colorate'' dalle ''guṇa'': nere (''tamas''), grigie (''rajas'') e bianche (''sattva'').<ref name="ReferenceA">B.K.S. Iyengar, ''Commento agli Yoga Sūtra di Patañjali'', ''Op. cit.'', commento a IV.7.</ref> Così non è per lo ''yogin'' che ha raggiunto la perfezione<ref>Vivekananda, ''Op. cit.'', commento a IV.7.</ref>: egli è al di là delle ''guṇa'', il che equivale a dire che il ''karma'', la legge di causa ed effetto, non lo vincola più, è libero. Nel commentare questo ''sūtra'', Iyengar afferma che è qui che viene evidenziato il vero significato del Kaivalya Pāda<ref>B.K.S. Iyengar, ''Commento agli Yoga Sūtra di Patañjali'', ''Op. cit.'', commento a IV.7.<name="ReferenceA"/ref>.
 
Il tema del libero agire ha una sua importanza centrale in un mondo che è dominato dalla legge del ''karma'', e l'affermazione di Patañjali non è dissimile da quella evidenziata in modo forse più incisivo da [[Kṛṣṇa|Krishna]] nella ''[[Bhagavadgītā]]'':