Intenzionalità: differenze tra le versioni

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==Origine ed evoluzione del termine==
Il concetto di intenzionalità era stato elaborato originariamente dalla [[filosofia scolastica]], e fu reintrodotto nella [[filosofia contemporanea]] dal [[Filosofia|filosofo]] e [[Psicologia|psicologo]] [[Franz Brentano]] nella sua opera ''Psychologie vom Empirischen Standpunkte'' (''[[Psicologia dal punto di vista empirico]]''). Con l'intenzionalità della [[Coscienza (filosofia)|coscienza]] o della [[mente]] egli intendeva appunto l'idea che la coscienza sia sempre diretta ad un [[Oggetto (filosofia)|oggetto]], che abbia sempre un contenuto, andando oltre se stessa. Brentano definì l'intenzionalità come la caratteristica principale dei ''fenomeni psichici'' (o mentali), tramite cui essi possono essere distinti dai ''fenomeni fisici''. Ogni fenomeno mentale, ogni atto psicologico infatti ha un contenuto, è diretto a qualcosa (l'«oggetto intenzionale»). Ogni credere, desiderare, etcecc. ha un oggetto: il creduto, il desiderato.
 
===Husserl===
[[Edmund Husserl]] riprese la nozione da Brentano, ma introducendo alcune significative distinzioni. All'interno di ogni vissuto intenzionale si possono individuare due aspetti: uno soggettivo, che cioè prende in considerazione l'atto intenzionale, e uno obiettivo, che invece considera l'oggetto inteso in quanto tale. Husserl chiama ''noesi'' l'aspetto soggettivo dell'atto intenzionale (ad esempio il pensare), e ''noema'' l'elemento oggettivo (il pensato), da non confondere con l'oggetto esterno, la cui esistenza al di fuori dell'esperienza è per il filosofo moravo una questione metafisica. L'oggetto inteso dalla coscienza però non è un oggetto intra-mentale, bensì l'oggetto reale. L'oggetto inteso è quindi per Husserl [[trascendenza|trascendente]], in quanto, nel rapportarsi al suo oggetto, il [[pensiero]] è rivolto verso altro da sé, e tuttavia a qualcosa che fa parte dell'esperienza.
 
===Ulteriori sviluppi===