La banalità del male: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
Riga 16:
Alla lettera «Eichmann a Gerusalemme: resoconto sulla banalità del male», il libro è sostanzialmente il diario dell'autrice, inviata del settimanale ''[[The New Yorker|New Yorker]]'', sulle sedute del processo ad [[Adolf Eichmann]]. Questi, gerarca [[Nazionalsocialismo|nazista]] rifugiato nel 1945 in [[Argentina]], fu ivi prelevato dagli [[israele|israeliani]] nel 1960, processato per genocidio nel 1961 a [[Gerusalemme]] e condannato a morte per [[impiccagione]]. La sentenza fu eseguita il 31 maggio 1962<ref>pp.&nbsp;257–258</ref>.
 
All'epoca il processo ad Eichmann suscitò varie polemiche: in primo luogo perché Eichmann non venne mai legalmente arrestato, ma rapito dai servizi segreti israeliani in territorio argentino, dove godeva dell'asilo politico. Eichmann fu rapito e fatto passare clandestinamente in Israele, contro la volontà dell'Argentina. In secondo luogo perché Eichmann, nonostante fosse accusato di crimini contro l'umanità, venne giudicato dallo Stato di Israele, il quale non poteva costituirsi parte civile, giacché non ancora esistente all'epoca dei fatti contestati ad Eichmann. Inoltre, datodal momento che i crimini contro l'umanità commessi da Eichmann venivano considerati crimini contro gli ebrei, dale momentoche cheegli veniva giudicato in Israele, risultava contrario a qualunque diritto penale che le vittime (gli israeliani) giudicassero il carnefice, e non fosse un giudice imparziale a farlo.
 
Il titolo originale dell'opera è "''Eichmann in Jerusalem - A Report on the Banality of Evil''". Non senza ragione, l'editore italiano ritenne opportuno invertire l'ordine del titolo. Dal dibattimento in aula, infatti, la Arendt ricaverà l'idea che il male perpetrato da Eichmann - come dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili della [[Shoah]] - fosse dovuto non ad un'indole maligna, ben radicata nell'anima (come sostenne nel suo ''[[Le origini del totalitarismo]]'') quanto piuttosto ad una completa inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni.