Inferno - Canto tredicesimo: differenze tra le versioni

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Il tronco, adescato dalle dolci parole, non può tacere e spera di non annoiarli se li "invischierà" un po' con i suoi discorsi: si notino due verbi tipicamente mutuati dalla pratica venatoria, passatempo tipico della corte di [[Federico II di Svevia]], come ''adescare'', prendere con l'esca, e ''invischiare'', afferrare con vischio. Il tono della conversazione si alza e diventa ricercato e artificioso, con rime difficili, discorsi intricati e ricchi di figure retoriche come [[ripetizione|ripetizioni]], [[allitterazione|allitterazioni]], [[metafora|metafore]], [[similitudine (figura retorica)|similitudini]], [[ossimoro|ossimori]], ecc.
 
L'anima finalmente si presenta: egli è colui che tenne entrambe le chiavi del cuore di [[Federico II di Svevia|Federico II]] (quella dell'aprire e del chiudere, ovvero del sì e del no, immagine presente anche in [[Isaia]] a proposito di [[Davide|Re Davide]]), e che le girò aprendo e chiudendo così soavemente da diventare l'unico partecipe dei segreti del sovrano; compì il suo incarico glorioso con fedeltà, perdendo prima il sonno suca

e poi la vita; ma quella meretrice che non manca mai nelle corti imperiali (dall'"ospizio di Cesare"), cioè l'[[invidia]], mise gli occhi su di lui e infiammò contro di lui tutti gli animi; e questi infiammati infiammarono a loro volta l'Imperatore (si noti la ripetizione di ''infiammò, 'nfiammati, infiammar''), che mutò gli onori in lutti. Il suo animo allora, per spirito di sdegno, credendo di sfuggire lo sdegno del sovrano con la morte (''disdegnoso/disdegno'', altra ripetizione), fece contro di sé ingiustizia sebbene fosse nel giusto (''ingiusto/giusto'', terza ripetizione). Ma giurando sulle nuove radici del suo legno (la sua morte non è avvenuta da molto), egli proclama la sua innocenza, e se qualcuno di loro (dei due poeti) tornasse nel mondo dei vivi, il tronco prega di confortare lassù la sua memoria, ancora abbattuta del colpo che le diede l'invidia.
 
In tutta questa lunga perifrasi il dannato non ha mai pronunciato il suo nome, ma ha lasciato elementi sufficienti per la sua identificazione: si tratta di [[Pier della Vigna]], ministro di Federico II che ebbe una brillante carriera nella corte imperiale, almeno fino al culmine nel [[1246]], quando fu nominato [[protonotaro]] e [[logoteta]] del [[Regno di Sicilia]] ed era di fatto il consigliere più potente e vicino al sovrano. Nel [[1248]], dopo la sconfitta di [[Vittoria (Italia)|Vittoria]], l'Imperatore cominciò a perdere fiducia nel suo consigliere e un anno dopo, forse a causa di un sospetto di complotto, venne arrestato a [[Cremona]] e incarcerato a [[San Miniato al Tedesco]] (o a [[Pisa]]), dove venne accecato con un ferro arroventato; dopodiché si suicidò pare fracassandosi la testa contro il muro della cella. La sua vicenda atroce destò molto scandalo all'epoca e molte storie circa suoi presunti complotti, spesso frutto di voci non vere. In ogni caso la storiografia moderna ha trovato a suo carico un colloquio sospetto con [[Papa Innocenzo IV]] a [[Lione]] e alcuni rilevanti abusi di potere.