Giacomo Leopardi: differenze tra le versioni

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{{Citazione|Vaghe stelle dell'orsa, io non credea<br />tornare ancor per uso a contemplarvi|''[[Le ricordanze]]'', vv.1-2}}
 
Il periodo di benessere era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il [[contratto]] con Stella<ref>Cfr. lettera di G. Leopardi (Recanati) a Pietro Colletta (Livorno), 16 gennaio 1829, in cui dichiara di aver percepito ''venti scudi romani (diciannove fiorentini) al mese''.</ref> e già durante l'estate del '[[1828|28]] si recò a [[Firenze]] nella speranza di riuscire a vivere in modo indipendente. Chiese aiuto ad alcuni amici: Tommasini gli propose una cattedra di [[Mineralogia]] e [[Zoologia]] a [[Milano]], ma il compenso era troppo basso e la materia poco consona alle conoscenze di Leopardi; Bunsen gli offrì la possibilità di una cattedra a [[Bonn]] o [[Berlino]], ma il poeta dovette subito declinare l'invito, poiché il clima tedesco era troppo rigido e freddo per la sua salute malferma. Leopardi allora progettò di mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni di [[salute]] non gli permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a [[Recanati]], dove rimase fino al [[1830]]. In questi «sedici mesi di notte orribile»<ref>Lettera a P. Colletta del 2 aprile 1830, come citato in Marco Moneta, ''L'officina delle aporie: Leopardi e la riflessione sul male negli anni dello Zibaldone'', FrancoAngeli, Milano, 2006, [http://books.google.it/books?id=btTx_gG5WPkC&pg=PA253 pag. 253].</ref> Leopardi si dedicò nuovamente alla poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra cui ''[[Le ricordanze]]'' (la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese morta poco prima, Maria Belardinelli, da Leopardi chiamata Nerina), ''[[La quiete dopo la tempesta]]'', ''[[Il sabato del villaggio]]'', ''[[Il passero solitario]]'' (forse su un abbozzo giovanile) e il ''[[Canto notturno di un pastore errante dell'Asia]]''.<ref>{{cita|Citati|p. 310-327; 328-334}}</ref> Queste poesie, a lungo denominate dai critici "[[Canti (Giacomo Leopardi)|grandi idilli]]" o anche "secondi idilli", sono ora conosciute, insieme ad ''[[A Silvia]]'' anche come "[[Canti pisano-recanatesi]]".<ref>Luperini, Cataldi, Marchiani, ''La scrittura e l'interpretazione'', Palermo, Palumbo, 1997, vol. 4/2, p. 1152.</ref> In questo periodo l'insofferenza per la sua città natale, da lui definita "natio borgo selvaggio"<ref>''Le ricordanze'', v. 30.</ref>, aumenta, proporzionalmente all'avversione per i recanatesi (''gente zotica, vil''), che lo ritenevano un intellettuale superbo<ref>''[gente] che m'odia e fugge, / per invidia non già, che non mi tiene / maggior di sé, ma perché tale estima / ch'io mi tenga in cor mio'', in ''Le ricordanze'', vv. 33-36.</ref>, tanto che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, cantavano in sua presenza canzoncine denigranti del tipo: "Gobbus esto / fammi un canestro, / fammelo cupo / gobbo fottuto".<ref>Camillo Antona-Traversi, ''I genitori di Giacomo Leopardi: scaramucce e battaglie'', 2 voll., Recanati, A. Simboli, 1887-91: [http://books.google.it/books?ei=DSBNVO6vDIHbPIWFgfgF&hl=it&id=MM09AAAAIAAJ&dq=Gobbus+esto+fammi+un+canestro&focus=searchwithinvolume&q=gobbo+fottuto vol. 1, pag. 180].</ref>
 
=== A Firenze dal 1830 al 1833 ===