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=== Egloga VI ===
La VI ecloga è una mirabile poesia sia nell'insieme che nelle parti. Si tratta di una dedica ad [[Alfeno Varo]], il quale desiderava da Virgilio un'epopea che lo onorasse e di conseguenza narrasse le guerre civili. Tutto ciò, più che un racconto autobiografico, può sembrare una ''recusatio'' per sfuggire alle insistenze dell'amico Varo<ref>''Enciclopedia Virgiliana'', vol. I, p. 562.</ref>. Varo deve ora accontentarsi di questa sostituzione. In verità l'ecloga è per Gallo, ma la pagina porta scritto in cima il nome di Varo: "a Febo non è pagina più cara di quella che ha di Varo il nome in fronte".<ref>''Le Bucoliche'', p. </ref>.
Dopo l'ammonimento di [[Apollo]], dio della poesia e della musica, nei confronti di Titiro (Virgilio stesso), segue il canto di [[Sileno]], capo dei satiri, trovato addormentato per il vino bevuto il giorno innanzi da Cromide e Mnasillo insieme alla ninfa naide Egle, che tinge con succo di more la fronte e le tempie di Sileno. Tutta la natura gode del canto di questo vecchio satiro<ref>''Enciclopedia Virgiliana'', vol. I, p. 562: "la sua cosmogonia spiega come gli embrioni della terra, dell'aria, dell'acqua e del fuoco si siano amalgamati nell'immenso vuoto".</ref>.
 
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=== Egloga VII ===
Di nuovo una gara di canto, dopo le ecloghe III e IV. Il modello è [[Teocrito]], dalle ''Talisie''; ma al posto dell'ambientazione di [[Coo|Cos]], si trovano, qui, i cenacoli romani degli amici e nemici virgiliani. Melibeo, Coridone e Dafni, anche se ''nomina ficta'', rimangono sostanzialmente uguali a se stessi: Coridone continua ad amare Alessi<ref>V. 55.</ref> come nella ecloga II; Dafni ad essere il principe dei pastori, maestro e giudice di gare come nella V (dove si parla della sua morte e [[apoteosi]]) e Melibeo continua a dilettarsi, come nella I, nella poesia.
 
Più volte nel corso dell'opera troviamo un ''[[Hysteron Proteron|hysteron proteron]]'', dove si anticipano avvenimenti che dovrebbero essere invece posposti e se ne posticipano altri avvenuti prima: questo è il rapporto tra la VII e la I egloga. I contendenti non sono così ingiuriosi come Menalca e Dameta, svolgono ognuno il proprio canto in strofe alterne di quattro esametri: Coridone, che cantava lamenti d'amore sui monti e nelle selve, ora sostiene una parte più raffinata; invece Tirsi, indulgendo nelle volgarità, sarà dichiarato perdente perché non considerato al pari di Coridone<ref>"Questo ricordo, e che Tirsi vinto gareggiava inutilmente. Da allora Coridone è per noi Coridone": vv.69-70, trad. F. Della Corte.</ref>.
 
Una differenza importante fra i due riguarda l'ambito religioso: Coridone nomina gli alberi sacri ad [[Ercole]], a [[Bacco]], a [[Venere (divinità)|Venere]] e a [[Apollo|Febo]]<ref>"Carissimo è il pioppo ad Alcide, la vite a Bacco, il mirto alla bella Venere, a Febo il suo alloro; Filli ama i nocciòli; fin tanto che li amerà Filli, né il mirto né l'alloro di Febo vinceranno i nocciòli": vv.61-64, trad. F. Della Corte.</ref>; Tirsi invece dice di preferire i pastori arcadi, così che lo adornino di edera, in quanto è un poeta esordiente; con queste parole si dimostra poco devoto agli déi. L'unica divinità che incontri le sue simpatia è [[Priapo]]. C'è un forte contrasto di tono, pacato quello di Coridone, aggressivo e volgare quello di Tirsi. Coridone, infatti, invoca le [[Ninfe]] affinché gli concedano un canto al pari di quello di Coro, poi come Micone cacciatore, consacra a [[Diana]] la testa di cinghiale e le corna di un cervo. Dopo aver celebrato la caccia, invoca la sua amata [[Galatea (Nereide)|Galatea]], dicendole di raggiungerlo, se lo ama davvero. La sua modestia fa sì che l'invito non appaia come un'imposizione, anzi al contrario mostra tutta la sua dedizione.
 
=== Egloga VIII ===
Come le altre egloghe di numero pari, l'egloga VIII reca una premessa in cui il poeta introduce il ''canto a gara'' tra Damone e Alfesibeo. Probabilmente l'egloga celebra la fama poetica di [[Gaio Asinio Pollione|Asinio Pollione]], che anche se non viene nominato è sicuramente identificabile dai fatti<ref> A. Cucchiarelli, ''Introduzione e commento'', in Virgilio, Bucoliche, Roma 2012, p. 405.</ref>.
 
Il primo canto è quello di Damone, che dà voce ai pensieri di un infelice amante, anonimo, disperato perché la fanciulla che ama, Nisa, ha preferito Mopso e per questo egli ha intenzione di suicidarsi ("Comincia con me, mio flauto, i versi menalii. Tutto diventi alto mare. addio, boschi! Mi getterò giù dalla vetta di un aereo monte nei flutti: sia questo il mio ultimo dono per te, la mia morte.")<ref>A. Cucchiarelli, ''Introduzione e commento'', in Virgilio, Bucoliche, Roma 2012, p. 121, vv. 57-60</ref>. Nel secondo canto troviamo Alfesibeo, il quale racconta di una donna, anch'essa innominata che, con l'aiuto dell'ancella Amarillide, compie un rito magico per far sì che l'amato Dafni ritorni ("Riportatemi dalla città, miei incantesimi, riportatemi Dafni. Intreccia in tre nodi, Amarillide, i tre colori, intrecciali presto, Amarillide...")<ref>A. Cucchiarelli, ''Introduzione e commento'', in Viriglio, Bucoliche, Roma 2012,p. 123, vv.76-78</ref> Ci sono delle descrizioni pittoresche che sono prese dall'esperienza teocritea; in generale tutta la scena ricorda l'autore greco: l'atrio della casa, l'ancella che porta gli ingredienti, il cane sulla soglia, il fuoco,la cenere e gli altari; ancora Dafni che è fuggito in città. La maga a poco a poco cessa di essere irreale, sovraumana, fittizia e diventa sempre più donna; il suo dolore è profondo e universale, è il dramma dell'amore infelice<ref> ''Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII'', p.565. </ref>. L'obiettivo della donna è di far impazzire d'amore Dafni, poichèpoiché essendo in città, la sta trascurando. L'incantatrice immagina di rivolgersi al pastore che viene nominato nel ritornello, in quanto ne ha il ritratto innanzi a sé. Cinge la sua immagine tre volte con tre fili di colore diverso, per un totale di nove: tre per ciascuna volta e per ciascun colore. Il rituale termina con lo spargimento delle ceneri nel ruscello vicino l'abitazione della donna, subito dopo sente dei passi sulla soglia: è Dafni, l'incantesimo è riuscito<ref> ''Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII'', p. 566.</ref>.
 
Damone canta in prima persona, ma la sua disperazione è diversa da quella espressa da Coridone nella II, piuttosto si avvicina a quella di [[Pasifae]] nella VI e di [[Gaio Cornelio Gallo|Gallo]] nella X; Coridone nella II si consola cercando un nuovo Alessi ("Coridone, Coridone, quale follia ti ha preso! Hai lasciato sull’olmo frondoso le viti potate a metà. Perché almeno non prepari qualcosa che occorre,non intrecci vimini e giunchi flessuosi? Se questo non ti vuole, troverai un altro Alessi.”<ref> Virgilio, ''Bucoliche, Egloga II'', vv. 69-73.</ref> Damone invece arriva alle estreme conseguenze, ossia la morte, come detto prima (vv. 57-60). Quando giunge la notte, il pastore comincia a cantare il suo infelice amore per Nisa: constata di essere stato crudelmente ingannato e si lamenta del fatto che nonostante li abbia invocati, gli déi non lo abbiano aiutato, per questo si appresta a morire. Nisa, che un tempo era legata a Damone, adesso lo disprezza, odia la sua zampogna, le sue caprette e anche la sua lunga barba. Eppure egli ricorda il loro primo incontro quando lei era ancora una bambina: vederla fu amarla, ma questo amore, definito folle, lo ha rovinato. Ora Damone ha capito chi sia Amore: un dio generato sulle pietre dure dei monti o in deserte e selvagge regioni; proprio l'essere nato in un luogo pietroso ha indurito il suo animo. Infatti fu lui a spingere Medea a macchiarsi le mani del sangue dei propri figli. Amore è definito malvagio, così come la madre [[Venere (divinità)|Venere]]; inoltre il pastore annuncia che d'ora in poi l'intero ordine della natura sarà sovvertito e accadranno le cose più assurde (''[[Adynaton|adynata]]''): il lupo fuggirà dalla pecora, i gufi gareggeranno con i cigni... Le sue ultime parole sono dedicate ancora all'amata, dice infatti che la sua morte sarà come l'ultimo dono dell'infelice innamorato<ref> ''Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII'' p. 566.</ref>. Il canto dei due pastori è tale da attirare l'attenzione delle giovenche immemori dell'erba, le linci e i fiumi che arrestano il proprio corso; questo passaggio è suggerito dal mito di [[Orfeo]], il cui canto attira le fiere che, come essere umani, sentono l'effetto magico della musica e condividono con il poeta il suo dolore; inoltre le linci fanno parte della fauna cara a [[Bacco]] (vv. 1-5)<ref> ''Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII'' p. 565.</ref>.
 
=== Egloga IX ===
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Nella '''sesta egloga''' Virgilio tenta di comporre un'opera che sia in onore di Alfeno Varo e narrare le guerre civili alle quali Varo aveva partecipato ma, dissuaso da Apollo, ritorna alla bucolica. Più che un racconto autobiografico si può considerare una recusatio a causa delle continue insistenze di  Varo che esigeva da lui un poema celebrativo. Con l'ammonimento di Apollo, l'autore cerca di rendere l'omaggio dovuto a Varo: l'egloga è per Gallo, ma la pagina porta il nome di Varo.
 
La '''settima egloga''', ancora una volta una gara di canto, ha come modello Teocrito. I contendenti, Coridone e Tirsi, svolgono ognuno il proprio canto in strofe di quattro esametri,il primo risultando ben più raffinato, il secondo, ricorrendo alle volgarità verrà poi dichiarato perdente e, a giudizio di Dafni, non riesce,seppur abile, pari a Coridone. Giudizi più etici e non alttrettanto oggettivi sono quelli formulati dallo stesso Melibeo, cronista dell'intera gara, il quale 'privilegia colui che meglio riesce ad esprimersi nei canti d'amore' <ref>S.V.F. Waite, <nowiki>''</nowiki>The Contest in Virgil's Seventh Eclogue<nowiki>''</nowiki>, in "CPh" n. 67 (1972), pp. 121-23.</ref>. L'egloga, confrontabile con la terza, nella quale i due personaggi erano posti alla pari, vede la svalutazione di Tirsi, 'poeta di vecchio stile'<ref>P.Wuelfing von Martitz, <nowiki>''</nowiki>Zum Wettgesang der Hirten in der siebenten Ekloge Vergils<nowiki>''</nowiki>, in "Hermes", n. 98 (1970), pp. 380-82.</ref> qui, Virgilio 'fa vincere Coridone'<ref>L. A. MacKay, <nowiki>''</nowiki>on two Eclogues of Virgil<nowiki>''</nowiki>, in "Phoenix", n. 15 (1961), pp. 157-58; M. Bettini, <nowiki>''</nowiki>Corydon, Corydon<nowiki>''</nowiki> in "SCO", n. 21 (1972), pp. 261-76. </ref>.
 
L' '''ottava egloga,''' pur essendo una gara di canto, si avvicina più alla quinta che alla terza o alle settima egloga anche per la divisione dei monologhi dei due protagonisti.L'azione si sperde nei rituali magici ma non mancano descrizioni pittoresche dal modello teocriteo. Tutta la scena, infatti, ricorda Teocrito, dall'atrio della casa all'ancella o al cane sulla soglia. Pollione, benchèbenché non sia espressamente nominato, è identificabile dai fatti (l'egloga si pensa recasse probabilmente il nome di Pollione, in testa, come dedica. Virgilio gli attribuisce il merito di averlo indotto a scrivere poesie stil-novistiche. L'esordio,carico di solennità, ha  sollevato dubbi di autenticità<ref>P.Levi,<nowiki>''</nowiki>The Dedication to Pollio in Virgil's Eighth Eclogue<nowiki>''</nowiki>, in "Hermes", n. 94 (1966), pp. 73-79.</ref>.
 
La '''nona egloga''' lascia scorgere i veri gesti dei personaggi: il racconto pastorale si volge al termine. Su Menalca si è abbattuta la catastrofe; egli ora incarna il personaggio di Melibeo ma al contrario di quest'ultimo,che accettava l'esilio rinunciando ai suoi possedimenti, Menalca, invece, rimane. I pastori spariscono dalla scena bucolica e solo la funzione del canto potrà richiamarli alla vita; l'uomo diventa mito e il mito si attua in poesia : da una parte il desiderio di Licida, dall'altra il canto di Menalca. (G. Stegen, La neuvième Bucolique de Virgile, ivi 21,1953,331-42)
 
La '''decima egloga''', che Stegen<ref>G. Stegen, ''Etude sur cinq bttcoliques de Virgile'', Namur 1955.</ref> divide in tre parti, consta di un proemio, un racconto e un congedo. L' egloga, dedicata a Gallo, trova in quest'ultimo il suo protagonista di cui Virgilio ne canta gli affanni d'amore. La vicenda ha un fondo di verità: Gallo in quegli anni era innamorato della liberta Volumnia nota anche come Citeride ma alla quale il poeta applicò il nome di Licoride. La ragazza tuttavia non ricambiò Gallo dello stesso amor, bensì fuggì per seguire un militare sul Reno. Questa fuga sarà il motivo del dolore di Gallo. Tutto il passo ha come modello Teocrito per la scomparsa di Dafni.