Beatrice Cenci

nobildonna italiana, giustiziata per parricidio
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Beatrice Cenci (Roma, 6 febbraio 1577Roma, 11 settembre 1599) è stata una nobildonna italiana giustiziata per parricidio e poi assurta al ruolo di eroina popolare, per essersi difesa dal padre violento e depravato.

Presunto ritratto di Beatrice attribuito a Ginevra Cantofoli, 1599

Biografia modifica

 
Stemma della famiglia dei Cenci

Beatrice nacque in una importante e ricca famiglia, figlia del conte Francesco Cenci e di Ersilia Santacroce, i quali nei ventuno anni di matrimonio, ebbero dodici figli[1]. Il padre Francesco era un uomo violento e dissoluto, ma «legittimato», e quindi erede, di un monsignore (Cristoforo Cenci), tesoriere della Camera Apostolica. Dopo la morte della madre, insieme alla sorella maggiore Antonina fu affidata nel giugno del 1584, all’età di sette anni, alle monache francescane del monastero di Santa Croce a Montecitorio.[2] Ritornata in famiglia all'età di quindici anni, vi trovò un ambiente quanto mai difficile e fu costretta a subire le angherie e le insidie del padre che, poco dopo, nel 1593, sposò in seconde nozze la vedova Lucrezia Petroni, dalla quale però non ebbe figli.

L'esilio a Petrella Salto modifica

Il padre era famoso a Roma per l’avarizia, la violenza e per i molti vizi, che piano piano prosciugavano l’eredità familiare. Mise al mondo dodici figli, anche se solo sette arrivarono a diventare grandi e la moglie morì nel 1584 mettendo al mondo l’ultimo bambino. Il figlio più grande, Giacomo, scappò dal padre, mentre altri due, Cristoforo e Rocco, morirono entrambi durante delle risse.

Beatrice, straziata dai continui maltrattamenti, scrisse una lettera a papa Clemente VIII, nella quale descrisse la difficile situazione in cui versava la famiglia e lo implorò di trovarle un marito o di farla entrare in convento. Il papa conosceva Francesco, visto che nel corso degli anni era stato più volte a processo, non solo per il suo carattere ma anche per «colpe nefandissime», ovvero per sodomia, per cui si rischiava la pena di morte. L’uomo fu ritenuto colpevole diverse volte ma, essendo nobile, se la cavò sempre con il pagamento di multe molto elevate, che contribuirono a prosciugare il suo patrimonio.

Clemente VIII combinò un matrimonio con un giovane nobile di bell’aspetto, ordinando al padre di provvedere a una dote[3] piuttosto alta. Francesco, oberato dai debiti, incarcerato e processato,[4] pur di non pagare la dote di Beatrice volle impedirle di sposarsi. Egli però, intanto, si era risposato con un’avvenente vedova, Lucrezia Petroni. Così, nel 1595, la diciottenne Beatrice e la matrigna Lucrezia si trovarono segregate a Petrella Salto, in un piccolo castello del Cicolano, chiamato la Rocca, nel territorio del Regno di Napoli, di proprietà della famiglia Colonna. In quella forzata prigionia nel castello, dove ebbero praticamente contatti solo con l’amministratore Olimpio Calvetti e con un paio di servitori, crebbe il risentimento di Beatrice verso il padre.

Francesco Cenci alternava periodi a Roma con altri a Rocca ma le sue malefatte continuarono; addirittura, durante una battuta di caccia a Petrella Salto, tentò di abusare del figliastro: in quell’occasione la moglie ebbe un impeto di ribellione nei confronti del marito ma finì con il viso sfregiato.

La giovane Beatrice cercò l’aiuto di uno dei servi del padre, Marzio da Fioran detto il Catalano, al quale chiese un aiuto per tentare la fuga; l’uomo però non acconsentì sapendo a cosa sarebbe andato incontro, ma accettò di portare a Roma e consegnare ai fratelli e a uno zio materno delle lettere, nelle quali la ragazza chiese nuovamente di trovarle un marito o un convento dove rifugiarsi. Uno di quei messaggi finì sfortunatamente nelle mani del padre, che nonostante la neve e il difficile viaggio da Roma, si precipitò a Petrella, picchiò con la consueta violenza la figlia e fece trasferire le due donne dal piano nobile della Rocca a quello più alto, dove erano completamente isolate.

Le violenze subite e la reclusione sempre più rigida contribuirono a ingigantire in Beatrice l’odio verso il padre e probabilmente la spinsero fra le braccia dell’amministratore, Olimpio Calvetti, che condivise i piani della ragazza: l’unico modo per uscire da quella situazione era l’assassinio di Francesco.

A Roma, Francesco era in continua lotta con il figlio Cristoforo che intendeva sottrarre alla sua influenza i fratelli minori, Bernardo e Paolo; Francesco rinchiuse anche loro alla Rocca.

Nel 1597 Francesco, malato di rogna e di gotta, anche per fuggire alle richieste pressanti dei creditori, si ritirò a Petrella e, con la sua presenza, le condizioni di vita delle due donne divennero ancora peggiori.[5]

Il parricidio modifica

Esasperata dalle violenze e dagli abusi sessuali paterni, si dice che Beatrice giungesse alla decisione di organizzare l'omicidio di Francesco con la complicità della matrigna Lucrezia, dei fratelli Giacomo e Bernardo, del castellano Olimpio Calvetti[6] e del maniscalco Marzio da Fioran, detto il Catalano.

Per due volte il tentativo fallì: la prima volta si cercò di sopprimerlo con il veleno ma l’uomo, assai diffidente, fece assaggiare cibo e bevande alla figlia prima di consumarle così questa proposta fu scartata; la seconda con un'imboscata di briganti locali che però, scoperte le possibili conseguenze, si rifiutarono. La terza volta Francesco, stordito dall'oppio fornito da Giacomo e mescolato a una bevanda, fu assalito nel sonno: Marzio gli spezzò le gambe con un matterello, Olimpio lo finì colpendolo al cranio e alla gola con un chiodo e un martello.

Per mascherare l’omicidio, Olimpio cercò di rompere il pavimento di un balcone per far precipitare il cadavere al suolo, ma non ci riuscì. Così demolì il ballatoio per tentare quindi d'infilarci il cadavere ma la cosa era impossibile: il foro era troppo piccolo. Decisero allora di gettare il corpo dalla balaustra della Rocca, sperando che tutti credessero al cedimento della struttura. Il 9 settembre 1598, Francesco fu trovato in un orto ai piedi della Rocca. Dopo le esequie il conte fu sepolto in fretta nella locale chiesa di Santa Maria. I familiari, che non parteciparono alle cerimonie funebri, lasciarono il castello e tornarono a Roma nella dimora di famiglia, palazzo Cenci, nei pressi del Ghetto.

 
Beatrice Cenci in prigione. Quadro di Achille Leonardi, XIX secolo

Le indagini modifica

Inizialmente non furono svolte indagini, ma voci e sospetti, alimentati dalla fama sinistra del conte e dagli odi che aveva suscitato nei suoi congiunti, indussero le autorità a indagare sul reale svolgimento dei fatti.

Dopo le prime due inchieste, la prima voluta dal feudatario di Petrella, duca Marzio Colonna e la seconda ordinata dal viceré del Regno di Napoli don Enrico di Gusman, conte di Olivares, lo stesso pontefice Clemente VIII volle intervenire nella vicenda.

La salma fu riesumata e le ferite furono attentamente esaminate da un medico e due chirurghi che esclusero la caduta come possibile causa delle lesioni. Fu anche interrogata una lavandaia alla quale Beatrice aveva chiesto di lavare lenzuola intrise di sangue dicendole che le macchie erano dovute alle sue mestruazioni ma la giustificazione, dichiarò la donna, non le sembrò verosimile. Gli inquirenti furono insospettiti, inoltre, dall'assenza di sangue nel luogo ove il cadavere era stato rinvenuto.

I congiurati furono scoperti e imprigionati. Calvetti, minacciato di tormenti, rivelò il complotto. Riuscito a fuggire, fu poi fatto uccidere da un conoscente dei Cenci, monsignor Mario Guerra,[senza fonte] per impedirne ulteriori testimonianze. Anche Marzio da Fioran, sottoposto a tortura, confessò ma, messo a confronto con Beatrice, ritrattò e morì poco dopo per le ferite subite. Giacomo e Bernardo confessarono anch'essi. Beatrice inizialmente negò ostinatamente ogni coinvolgimento indicando Olimpio come unico colpevole, ma la tortura[7] della corda[8] ne vinse ogni resistenza ed ella finì per ammettere il delitto.

Acquisite le prove, i due fratelli Bernardo e Giacomo furono rinchiusi nel carcere di Tordinona,[9] Beatrice e Lucrezia in quello di Corte Savella.[10]

 
Prospero Farinacci, difensore di Beatrice. Da Crasso, Ritratti d'huomini letterati, 1666

Il processo modifica

Il processo fu affidato al giudice Ulisse Moscato ed ebbe un grande seguito pubblico. Nel dibattimento si affrontarono due tra i più grandi avvocati dell'epoca: l'alatrense Pompeo Molella per l'accusa e Prospero Farinacci per la difesa. Farinacci, nel tentativo di alleggerire la posizione della giovane, accusò Francesco di aver stuprato la figlia, ma Beatrice, nelle sue deposizioni, non volle mai confermare l'affermazione del difensore. Alla fine prevalsero le tesi accusatorie di Molella e gli imputati superstiti vennero tutti giudicati colpevoli e condannati a morte.

Cardinali e difensori inoltrarono richieste di clemenza al pontefice ma Clemente VIII, preoccupato per i numerosi e ripetuti episodi di violenza verificatisi nel territorio dello Stato, volle dare un severo ammonimento[11] e le respinse: Beatrice e Lucrezia furono condannate alla decapitazione, Giacomo allo squartamento. Solo per Bernardo il pontefice acconsentì alla commutazione della pena: di soli diciotto anni, non aveva partecipato attivamente all'omicidio, venendo condannato unicamente per non aver denunciato il complotto; per la sua giovane età ebbe risparmiata la vita, ma gli fu imposta la pena dei remi perpetui, cioè remare per tutta la vita sulle galere pontificie, e fu obbligato, inoltre, ad assistere all'esecuzione dei congiunti legato a una sedia. In aggiunta, la notizia della commutazione della pena gli fu deliberatamente nascosta e comunicata solo poche ore prima della scampata esecuzione. Solo alcuni anni più tardi, dopo il pagamento di una grossa somma di denaro, riottenne la libertà.

 
Castel Sant'Angelo: luogo dell'esecuzione

L'esecuzione modifica

L'esecuzione di Beatrice, della matrigna e del fratello maggiore avvenne la mattina dell'11 settembre 1599 nella piazza di Castel Sant'Angelo gremita di folla. Tra i presenti anche tre artisti: Caravaggio, Orazio Gentileschi e la figlia di costui, la futura pittrice Artemisia. La giornata molto afosa causò il decesso di alcuni spettatori per insolazione (che risultò fatale anche al giovane romano Ubaldino Ubaldini, famoso per la sua grande bellezza, come ricorda Stendhal nelle sue Cronache italiane); altri rimasero uccisi nella calca e qualcuno invece scivolò nel Tevere, morendo annegato.

La decapitazione delle due donne fu eseguita con la spada[12][13]. La prima a essere uccisa fu Lucrezia, seguì poi Beatrice e infine Giacomo, che fu seviziato durante il tragitto con tenaglie roventi, mazzolato e infine squartato.

Alcuni dettagli relativi ai momenti cruciali dell'esecuzione sono contenuti nelle Memorie romanzate di Giambattista Bugatti detto Mastro Titta, boia dello Stato Pontificio dal 1796 al 1864. Nel testo si fa riferimento a una non meglio precisata Relazione del supplizio dei Cenci, dalla quale emergerebbe che, con riferimento a Lucrezia Petroni, «Non sapendo come dovesse accomodarsi domandò ad Alessandro primo boia cosa avesse da fare, e dicendole che cavalcasse la tavoletta del ceppo e si stendesse sopra di quella, nel che fare per la mole del corpo, ma più per la vergogna durò grandissima fatica, ma molto maggiore fu quella di accomodarsi con il collo sotto la mannaia, perché aveva il petto tanto rilevato che non poteva arrivare a porre la gola sopra quel legnetto in cui cade il ferro della mannaia, a cagione che, non essendo la tavoletta più larga di un palmo, non era capace per l'appoggio delle mammelle».

Con riferimento agli ultimi attimi di vita di Beatrice, un altro testo ottocentesco, in conformità a quanto risulta dalla fonte citata in precedenza (probabilmente attingendo al resoconto contenuto nella Relazione), riporta gli episodi successivi all'esecuzione di Lucrezia Petroni, inseriti nel rituale che accompagna Beatrice Cenci verso il palco dell'esecuzione. Vi furono vari tentativi di alterare il corso degli eventi mediante tumulti e risse, segno di una profonda disapprovazione popolare nei confronti della sentenza di morte ratificata dal papa Clemente VIII.

 
Papa Clemente VIII

«Vennero frattanto altre soldatesche dal lato di Castel S. Angiolo, ed aumentata la forza armata intorno al patibolo, si proseguì il corso della giustizia, quando si vide un poco calmato il tumulto della folla. Beatrice genuflessa nella cappella era talmente assorta nella sua preghiera che non fece attenzione al rumore ed alle grida; soltanto si riscosse quando lo stendardo entrò nella cappella per precederla al supplizio. Si alzò, e con la vivacità di una sorpresa domandò: — La mia signora madre è veramente morta? — Le fu risposto affermativamente, ed ella gettatasi ai piedi del Crocifisso pregò con fervore per l'anima di lei. Poi parlò ad alta voce e lunga pezza col Crocifisso dicendo cose troppo non connesse, e finì con esclamare: — Signore tu mi chiami ed io di buona voglia ti seguo, perché so di meritare la tua misericordia. Si accostò al fratello, lo baciò in fronte, e con un sorriso d'amore gli disse: — Non ti accorare per me, saremo felici in cielo, poiché ti ho perdonato. Giacomo svenne. La sorella, volgendosi agli sgherri: - andiamo - disse, e franca si avanzava alla porta, ma il carnefice le si fece avanti con una corda, e pareva che temesse di avvolgere con essa quel corpo. [...] Appena lo stendardo uscì dalla cappella, e che la meschina accompagnata da due cappuccini arrivò al pié del palco, un subito silenzio fece credere deserto quel luogo per lo avanti sì rumoroso. Tutti volevano sentire se articolava qualche parola, e con gli occhi a lei rivolti, e con bocche aperte pareva che pendesse dalle di lei labbra la loro esistenza. Beatrice al pie' del palco, baciò il Crocifisso, fu benedetta dal frate; e lasciate le pianelle, salita destramente la scala, lentissima arrivò al fatale ceppo, niuno si avvide della pronta mossa che gli fece scavalcare la panca che aveva cagionato tanto ribrezzo alla Petroni; si collocò perfettamente da se inibendo con uno sguardo fiero al carnefice di toccarla per levarle il velo dal collo, che da se stessa gettò sul tavolato. Ad alta voce invocava Gesù e Maria attendendo il colpo fatale, passò però in questa orribile situazione alcuni istanti, perché il carnefice intimorito si trovò impacciato a vibrarle la mannaia. Un grido universale lo imprecava, ma frattanto il capo della vergine fu mostrato staccato dal busto, ed il corpo s'agitò con violenza. Il misero Bernardo Cenci costretto ad esser testimone del supplizio di sua sorella cadde svenuto, e per lunga mezz'ora non poté essere richiamato ai sensi. La testa di Beatrice fu involta in un velo come quella della matrigna, e posta in lato del palco; il corpo nel calarlo cadde in terra con gran colpo, perché si sciolse dalla corda [...].»

 
San Pietro in Montorio in una stampa di Giovanni Battista Falda, 1670 circa

Il corpo della giovane, come lei stessa aveva richiesto prima di morire, fu sepolto in un loculo davanti all'altare maggiore di San Pietro in Montorio, sotto una lapide priva di nome, secondo le norme previste per i giustiziati.

La confisca dei beni modifica

Dopo l'esecuzione, le proprietà della famiglia Cenci furono confiscate dalla Camera Apostolica e vendute all'asta per 91 000 scudi, cifra assolutamente inferiore al loro valore reale. La maggior parte dei beni, tra i quali la grande tenuta di Torrenova, settemila ettari e un castello nell'Agro Romano, fu acquistata da Gian Francesco Aldobrandini, nipote del papa.

Il procedimento innescò una lunga serie di cause legali promosse dai superstiti della famiglia con parziali restituzioni di beni. La confisca, inoltre, rese vane le disposizioni testamentarie di Beatrice che aveva deciso consistenti lasciti in favore di varie istituzioni religiose.

La profanazione della tomba modifica

 
Vincenzo Camuccini, testimone della profanazione

Nel 1798, durante la Prima Repubblica Romana, i soldati francesi, che avevano occupato la città al comando del generale Berthier, si abbandonarono a razzie e requisizioni: anche le tombe furono violate per impossessarsi del piombo delle casse. Secondo la testimonianza del pittore Vincenzo Camuccini,[14] che assistette all'episodio mentre lavorava al restauro della Trasfigurazione di Raffaello, alcuni soldati, guidati da uno scultore loro connazionale, entrati nella chiesa di San Pietro in Montorio, iniziarono a spaccare le lastre dei sepolcri poste sul pavimento. Uno di loro aprì la cassa di Beatrice e s'impossessò del vassoio d'argento sul quale era stata deposta la testa della giovane. Lo scultore, preso il teschio, incurante delle proteste di Camuccini, si allontanò lanciandolo in aria per gioco.

Influenza culturale modifica

Il ricordo nell'arte modifica

 
Statua di Beatrice Cenci di Harriet Goodhue Hosmer, 1857
 
Rappresentazione di Beatrice Cenci in una fotografia di Julia Margaret Cameron

Le vicende della famiglia Cenci, e di Beatrice in particolare, non potevano non suscitare interesse, sentimenti di partecipazione sincera e commozione, ma anche curiosità morbosa, sia tra gli strati popolari sia tra gli artisti. Gli ingredienti c'erano tutti: la bellezza e giovinezza di Beatrice, il cupo ambiente familiare, le passioni torbide del padre, l'incesto, la vendetta dei fratelli, l'espiazione e il supplizio finale.

Per tali motivi, gli artisti delle arti figurative come di quelle letterarie, particolarmente in epoca romantica, trovarono numerosi elementi di ispirazione per le loro opere[15]. Un presunto ritratto di Beatrice[16], attribuito a Guido Reni o ai suoi allievi[17], forse Elisabetta Sirani, è conservato nella Galleria nazionale d'arte antica di Palazzo Barberini, in Roma.

Letteratura modifica

Tra le opere letterarie possiamo citare:

Un'ampia trattazione della vicenda trova inoltre spazio ne Il fauno di marmo di Nathaniel Hawthorne.

Musica modifica

Tra le opere musicali ricordiamo:

  • Beatrice Cenci, opera in tre atti del compositore triestino Giuseppe Rota su libretto di Davide Rabbeno. Prima esecuzione il 14 febbraio 1863 al Teatro Regio di Parma.
  • Beatrice Cenci. Tragedia in tre atti di Guido Pannain. Libretto di Vittorio Viviani. Riduzione per canto e pianoforte di Renato Parodi. Milano, Suvini Zerboni, 1942.
  • Beatrice Cenci, opera in tre atti del compositore novarese Luigi Sante Colonna. Prima Esecuzione 1948.
  • The Cenci, dramma musicale in otto scene del compositore inglese Havergal Brian del 1951-52, derivato dalla tragedia di Shelley.
  • Beatrix Cenci, opera in due atti del compositore argentino Alberto Ginastera, su libretto di William Shand ed Alberto Girri. Prima esecuzione il 10 settembre 1971 al Kennedy Center di Washington.
  • Beatrice Cenci, opera in tre atti del compositore tedesco Berthold Goldschmidt, su libretto di Martin Esslin. Prima esecuzione il 30 agosto 1994 alla Philharmonie di Berlino.
  • Beatrice Chancy, opera da camera in due atti del 1999, composta dal musicista canadese James Rolfe, su libretto di George Elliot Clarke. La vicenda, ispirata alla tragedia di Shelley, è ambientata nella Nuova Scozia del XIX secolo, negli ultimi giorni della schiavitù.
  • Beatrice Cenci, dramma originale in musica in due atti di Alessandro Londei e Brunella Caronti. Prima esecuzione a Roma in occasione dell'Estate romana 2006.
  • Beatrice Cenci, opera drammatica in musica (musical) di Simone Martino e Giuseppe Cartellà, regia di Davide Lepore. VIncitrice del concorso "Forse domani Broadway". In cartellone per la stagione 2014-2015 del Teatro Greco in Roma.

Cinema modifica

Nel Novecento è l'arte cinematografica, arte popolare per eccellenza, ad interessarsi della figura di Beatrice con numerose trasposizioni cinematografiche:

Televisione modifica

Tradizioni popolari modifica

Note modifica

  1. ^ Dizionario biografico degli italiani, voce «Cenci». Sette raggiunsero l'età adulta, cinque maschi e due femmine: Giacomo (nato nel 1568), Cristoforo (1572), Antonina (1573), Rocco (1576), Beatrice (1577), Bernardo (1581), Paolo (1583).
  2. ^ Mariano Armellini, Le chiese di Roma Dalle loro origini sino al secolo XVI, Roma, Tipografia Editrice Romana, 1887, p. 214.
  3. ^ Suo malgrado Francesco, per esplicito intervento papale, era già stato costretto a pagare una cospicua dote per l'altra figlia Antonina, sorella maggiore di Beatrice, sposata nel 1594, grazie ai buoni uffici di papa Clemente VIII], con Carlo Gabrielli, un nobile di Gubbio.
  4. ^ Processato nel 1594 per sodomia nei confronti di un ragazzo, fu condannato al pagamento di centomila scudi. La rilevanza della somma può essere meglio apprezzata considerando che, dopo l'esecuzione capitale dei Cenci, il patrimonio familiare fu venduto all'asta per una cifra inferiore.
  5. ^ Annalisa Lo Monaco, Beatrice Cenci: “Vittima esemplare di una Giustizia ingiusta” – Vanilla Magazine, su vanillamagazine.it. URL consultato il 18 novembre 2021.
  6. ^ Olimpio Calvetti, sposato con Plautilla Gasparini e padre di Prospero e Vittoria, era l'uomo di fiducia della famiglia Colonna per i feudi della Valle del Salto. Alto e prestante, divenne confidente e probabilmente amante di Beatrice.
  7. ^ I nobili non erano di regola sottoposti a tortura. Clemente VIII volle privare i Cenci di tale privilegio e dispose, con il motu proprio "Quemadmodum paterna clementia" del 15 agosto 1599, che anch'essi fossero torturati al pari degli altri accusati.
  8. ^ La tortura della corda consisteva nel sollevare l'imputato per le mani, precedentemente legate dietro la schiena, con una fune fatta passare per una carrucola appesa al soffitto (vedi Grazia Ambrosio: L'acqua e il fuoco prove della verità in Storia Illustrata, numero 232, marzo 1977, pagina 28, Editore Arnoldo Mondadori). L'infelice rimaneva sospeso a mezz'aria per il tempo necessario a recitare un'orazione. Il dolore era pressoché insostenibile e tale da indurre a rapide confessioni anche i più ostinati.
  9. ^ Il carcere di Tordinona (toponimo derivato dalla corruzione di Torre d'Annona), di cui non rimangono tracce, si trovava nei pressi di Ponte Sant'Angelo, Rione V - Ponte. L'edificio fu trasformato nell'omonimo teatro, nel 1669, con il permesso di papa Clemente IX (vedi Sergio Delli, Le strade di Roma, Newton Compton Editori, III edizione, 1988, pag. 910 e seguenti).
  10. ^ Del carcere di Corte Savella, ormai demolito, rimane qualche manufatto, incorporato in un edificio del XVIII secolo, in via di Monserrato, allo sbocco con piazza di Santa Caterina della Rota, Rione VII - Regola (vedi Touring Club Italiano, Guida di Roma, VIII edizione, 1993, pag 368). Sull'altro lato della medesima via, sulle mura del Venerabile Collegio Inglese, una lapide posta dal Comune nel 1999, quarto centenario della morte, ricorda che in quel luogo si ergeva Corte Savella onde fu prelevata per l'esecuzione Beatrice, definita "vittima esemplare di una giustizia ingiusta". Altri resti, alcune finestrelle con inferriate, si troverebbero anche nell'adiacente via dei Cappellari, all'interno di un cortiletto, peraltro di difficile accesso (vedi Georgina Masson, Guida di Roma, edizione Oscar Mondadori, 1973, pag. 148). È necessario ricordare che ambedue gli edifici, Tordinona e Corte Savella, vennero sostituiti dalle Carceri nuove di via Giulia, volute da papa Innocenzo X e terminate di costruire nel 1655.
  11. ^ Qualche mese dopo, il 17 febbraio 1600, lo stesso pontefice Clemente VIII condannò al rogo, in Campo de' Fiori a Roma, il filosofo Giordano Bruno quale "eretico impenitente".
  12. ^ Alla fine dell'Ottocento, durante i lavori di scavo per la costruzione degli argini del Tevere, sul greto del fiume, in corrispondenza del palco delle esecuzioni, fu rinvenuta una "spada di giustizia" del XVI secolo. L'arma è ora custodita nel Museo criminologico di Roma. Secondo quanto è riportato nel sito del museo, l'arma potrebbe essere quella utilizzata per decapitare le due donne. Vedi La spada di giustizia in Collegamenti esterni.
  13. ^ Costantino Maes (1839-1910), nel suo Curiosità romane, Parte Terza, Roma, Edizioni del Pasquino, 1983 (copia anastatica dell'edizione del 1885 pubblicata dall'editore Edoardo Perino) a pag. 111, nel capitolo I giornalisti a morte, scrive: "i Francesi, benemeritissimi di tante cose, debbono rinunziare però al triste vanto di aver inventato quel leggiadro arnese, che si chiama la ghigliottina, la quale (possiamo andarne superbi!) funzionava da noi qui in Roma un gran pezzo avanti di loro: ed in altra occasione vi svelerò pure che la testa angelica della povera Beatrice Cenci [...] fu troncata con una macchinetta somigliante appunto assai alla ghigliottina [...]". Nel testo non ci sono altri riferimenti.
  14. ^ Fonte: Gustavo Brigante Colonna ed Emilio Chiorandi, opera citata in Bibliografia.
  15. ^ (EN) American Sculptors in Italy, in Cosmopolitan Art Journal, vol. 2, n. 2/3, marzo-giugno 1858, p. 142.
  16. ^ "Sarebbe stato eseguito nel carcere poco prima dell’esecuzione, su incarico del cardinale Ascanio Colonna": Beatrice Cenci, la giovane ribelle, su Golem informazione, 25 maggio 2012 (archiviato dall'url originale il 5 febbraio 2018).
  17. ^ (EN) E. Castelot, Guido Reni and the So-Called Portrait of Beatrice Cenci, in The American Art Review, vol. 1, n. 4, febbraio 1880, pp. 165-166.
  18. ^ (EN) Melvin R. Watson, Shelley and Tragedy: The Case of Beatrice Cenci, in Keats-Shelley Journal, vol. 7, inverno 1958, pp. 13-21.

Bibliografia modifica

Testi disponibili online modifica

Voci correlate modifica

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Collegamenti esterni modifica

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