Nell'ordinamento italiano, il Codice penale all'art. 43, 1° comma, definisce un reato come preterintenzionale, o alternativamente oltre l'intenzione, "quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente".[1]

Il codice penale non dà la definizione del concetto di "preterintenzione", ma la indica nel descrivere lo schema del "delitto preterintenzionale": un trattamento diverso rispetto a quello riservato ai criteri del dolo, della colpa e della responsabilità oggettiva, a testimonianza del fatto che non esesite un atteggiamento psicologico "preterintenzionale".[2]

L'ordinamento italiano riconosce solamente una fattispecie preterintenzionale e nominativamente indica come tale solamente il delitto di omicidio preterintenzionale di cui all'art. 584 c.p.[3] La dottrina, tuttavia, ritiene che ulteriori fattispecie delittuose, pur non rubricate come preterintenzionali, possano ricondursi nell'ambito della preterintenzione. Si tratta, in particolare, di taluni delitti rientranti nella categoria di derivazione dogmatica dei "reati aggravati dall'evento".

Il criterio tripartito di imputazione modifica

L'art. 42 c.p. individua tre criteri di imputazione soggettiva: il dolo, la preterintenzione e la colpa; il comma 2 di tale articolo recita "nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o delitto colposo espressamente preveduti dalla legge". Sembra così delinearsi un criterio tripartito di imputazione, al vertice del quale sta il dolo, criterio soggettivo per eccellenza, la cui sussistenza importa la punibilità per ogni reato, cui seguono ulteriori e distinti criteri di preterintenzione e colpa, la cui punibilità è possibile per reati che siano tipizzati come punibili in presenza di tali coefficienti soggettivi. Tale supposta tripartizione, tuttavia, è negata da parte della dottrina, che ritiene che solo due siano i coefficienti soggettivi fondamentali, il dolo e la colpa, tertium non datur, e che quindi la responsabilità preterintenzionale non goda di autonomia, a queste, tale da potersi atteggiare a terzo e autonomo criterio soggettivo di imputazione.

Struttura e giurisprudenza modifica

L'enunciazione normativa offerta dall'art. 43, comma 2 c.p. pone in evidenza il rapporto sussistente fra una condotta umana tipica, un evento voluto ed un evento di maggiore forza lesiva (o di messa in pericolo). Si tratta dunque di una fattispecie complessa, che la dottrina sceglie di ricostruire come la sovrapposizione di un reato di base, caratterizzato da dolo, ed un successivo evento non voluto, causalmente riconducibile all'azione o all'omissione dell'agente, e di cui si stabilisce la rimproverabilità a quest'ultimo. Il titolo in base al quale tale evento ulteriore è ritenuto imputabile e rimproverabile all'agente è il problema centrale che caratterizza l'analisi dogmatica del fenomeno della preterintenzione.

La tesi storicamente maggioritaria, facendo leva sul fatto che nella definizione legislativa manca una descrizione della partecipazione psicologica del soggetto agente alla causazione dell'evento più grave rispetto al fatto di reato di base voluto ed oggetto di rappresentazione, ha ritenuto che per il verificarsi di una fattispecie di natura preterintenzionale fosse sufficiente la semplice sussistenza del nesso di causalità materiale. In questo modo, il delitto preterintenzionale viene riassorbito all'interno delle ipotesi di responsabilità oggettiva

La tesi del dolo misto a responsabilità oggettiva, maggioritaria in dottrina, ha trovato anche conferma anche nella giurisprudenza maggioritaria. Si collocano in questa linea interpretativa:

  • la sentenza Cassazione penale, sez. V, 13 febbraio 2002, n. 13114[4], caso Izzo: "l'elemento psicologico dell'omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo misto a colpa, ma unicamente dalla volontà di infliggere percosse o provocare lesioni, a condizione che la morte dell'aggredito sia causalmente conseguente alla condotta dell'agente, il quale dunque risponde per fatto proprio, sia pure in relazione ad un evento diverso da quello effettivamente voluto, che, per esplicita previsione legislativa, aggrava il trattamento sanzionatorio";
  • la sentenza Cassazione penale, sez. V, 2 ottobre 1996, n. 9197[5], caso Paletti, "la corretta interpretazione dell'art. 584 c.p. impone di ritenere che per integrare in tutti i suoi estremi il delitto di omicidio preterintenzionale è sufficiente il rapporto di causalità tra la condotta di aggressione (atti diretti a percuotere o ledere) e l'evento morte non essendo necessaria la prevedibilità di quest'ultimo, e che quindi l'art. 584 c.p. prevede un caso di dolo misto a responsabilità oggettiva";
  • la sentenza Cassazione penale, sez. V, 20 novembre 1988[6], caso Zeni, "per la sussistenza del delitto di omicidio preterintenzionale è sufficiente che esista un rapporto di causa ad effetto tra gli atti diretti (anche nella forma del tentativo o semplicemente di atteggiamento aggressivo o minaccioso) a percuotere o a ledere e la morte, indipendentemente da ogni indagine sulla volontarietà, sulla colpa o sulla prevedibilità dell'evento più grave";
  • la sentenza Cassazione penale, sez. I, 30 giugno 1986[7], caso De Nunzio: "l'omicidio preterintenzionale richiede che l'autore della aggressione abbia commesso atti diretti a percuotere o ledere e che esista un rapporto di causa ad effetto tra i predetti atti e l'evento letale senza la necessità che la serie causale che ha prodotto la morte, rappresenti lo sviluppo dello stesso evento di percosse o lesioni volute dall'agente. E ciò senza prescindere, tuttavia, dall'elemento psicologico che si concreta nella volontà e previsione di un evento meno grave di quello verificatosi in concreto poiché si tratta, pur sempre, di un reato doloso in cui si introduce una componente fortuita che prescinde da ogni indagine di volontarietà, colpa o di prevedibilità dell'evento più grave".

In tutta questa giurisprudenza, si afferma che accertata la sussistenza di tutti i requisiti del reato base, sarà sufficiente la mera presenza del nesso di causalità fra la condotta del reato posto in essere e il più grave reato verificatosi, perché di questo possa rispondersi a titolo di preterintenzione.

Tuttavia, la tesi contrapposta (antica e largamente diffusa) della preterintenzione come dolo misto a colpa è preferibile, sia perché essa sola è capace di spiegare l'intenzione del legislatore nel prevedere una figura intermedia tra il dolo e la colpa (inserendola materialmente tra l'uno e l'altra), sia perché non è in contrasto con l'art. 27 della Costituzione, dal quale sembra imposta tale visione.

Sotto un punto di vista sistematico, sussiste il problema che, la presenza nel Codice penale italiano di ipotesi di responsabilità oggettiva, è stata tradizionalmente giustificata con la presenza del 3° comma dell'art. 42 c.p., ove si prevede che, oltre alle ipotesi di dolo, preterintenzionalità e colpa (indicate nel precedente comma 2°), sussistano una serie di casi determinati dalla legge in via esclusiva "nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente come conseguenza della sua azione od omissione". Secondo la lettura tradizionale, tali altre ipotesi, sono appunto le ipotesi di responsabilità oggettiva. Nella sistematica dell'art. 43, queste ipotesi sono altre, anche rispetto alla preterintenzione, posta nel comma precedente come autonomo coefficiente soggettivo, accanto al dolo e alla colpa.

Con sentenza del 13 maggio 2004, n.43524, Sez. V, la Suprema Corte, ha specificato che ai fini della sussistenza dell'ipotesi criminosa dell'omicidio preterintenzionale, è necessario e sufficiente che l'autore della aggressione abbia realizzato una condotta dolosa diretta a ledere o percuotere e che sussista un rapporto di causa ed effetto tra gli atti compiuti e la morte della vittima, prescindendo da ogni indagine sulla prevedibilità dell'evento (morte) più grave cagionato. Per il giudice di legittimità la preterintenzione non si sostanzia in una combinazione di dolo per l'evento minore e di colpa per quello più grave, essendo invero a suo dire un dolo misto alla responsabilità oggettiva. Tale ragionamento logico giuridico, ha condotto il moderno orientamento della Suprema Corte, a riconoscere la responsabilità per omicidio preterintenzionale anche nell'ipotesi di una semplice spinta. Ad avviso dei giudicanti, è sufficiente che l'autore dell'aggressione abbia commesso atti diretti a percuotere o ledere e che esista un rapporto di causa ed effetto tra i predetti atti e l'evento morte. Infatti, nell'art. 581 c.p., il termine "percuotere" non è utilizzato solo nel significato di battere, colpire o picchiare, ma anche in un significato più ampio, comprensivo di ogni violenta manomissione della altrui persona fisica. Anche la spinta integra un'azione violenta, estrinsecandosi in un'energia fisica, più o meno rilevante, esercitata direttamente nei confronti della persona; tale condotta, ove consapevole e volontaria, rivela la sussistenza del dolo di percosse o di lesioni, per cui quando da essa derivi la morte, dà luogo a responsabilità a titolo di omicidio preterintenzionale.[8]

Note modifica

Collegamenti esterni modifica

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