Storia di Torregrotta

Voce principale: Torregrotta.

La storia di Torregrotta ha inizio in età romana con la formazione dei primi latifondi[1] e comprende le vicende storiche e sociali che si sono succedute fino ai nostri giorni nell'ambito del territorio comunale e ad esso strettamente collegate. Sin dal medioevo e per tutta l'età moderna l'area fu soggetta alla giurisdizione del feudo di Santa Maria della Scala e, in misura minore, di quello di Rocca[2]. La popolazione, prevalentemente contadina, si concentrò nel Casale del feudo Scala, abbandonandolo a partire dal XIV secolo[3]. L'odierno centro abitato nacque soltanto all'inizio del 1500 quando il Casale fu riedificato per volere dell'imperatore Carlo V e si sviluppo nel corso dei secoli successivi[4][5]. Con il dissolvimento dei feudi in seguito alle riforme amministrative dei Borbone, il Casale, chiamato Torre, e i suoi possedimenti passarono sotto il controllo del Comune di Roccavaldina[5]. A partire dalla seconda metà dell'ottocento, lo sviluppo sociale ed economico di Torre, ormai divenuta Torregrotta, causò una serie di contrasti con Roccavaldina, dapprima in ambito religioso e poi in quello civile, che culminarono nella scissione amministrativa delle due comunità nel 1923[6].

Panorama di Torregrotta nella seconda metà degli anni quaranta del novecento

Età Antica modifica

Ipotesi sui primi insediamenti modifica

In territorio torrese non sono mai stati ufficialmente scoperti reperti archeologici che possano attestare l'esistenza di gruppi umani stanziali durante l'età antica[23]. Tuttavia nei primi anni novanta, furono riportate insistenti voci circa il ritrovamento di diversi oggetti di probabile origine greca, forse appartenuti ad un corredo funerario, rinvenuti durante uno scavo di fondazione[23] e poi misteriosamente scomparsi[24]. L'ipotesi degli storiografi è che già in epoca preellenica sul territorio vi fosse una frequentazione umana[25]. Ciò potrebbe essere testimoniato da resti di tombe sicane[25]: era difatti in uso presso questa popolazione seppellire i cadaveri in grotte ricavate nella roccia, simili a quelle presenti nella porzione di versante collinare compreso tra Torregrotta e la frazione Cardà del comune di Roccavaldina[26]. Analoghi anfratti si ritrovano anche nei confinanti comuni di Monforte San Giorgio e San Pier Niceto[27]. Ai Sicani si sostituirono i Siculi[28] e successivamente i Greci[29].

Durante il periodo greco-siceliota è concordemente accettata l'idea secondo cui nel territorio della piana di Torregrotta, lungo tutto il corso del torrente Niceto[30] e sul suolo torrese stesso[23], vi fossero dei piccoli insediamenti rurali di contadini. Ne costituisce indizio una scoperta archeologica avvenuta nel 1949 nella contrada Annunziata del limitrofo comune di Monforte San Giorgio dove furono ritrovate diverse monete d'argento e di bronzo risalenti indicativamente al 339 a.C. e oggi conservate presso il museo archeologico di Siracusa[31]. Inoltre è stato provato che già prima del 396 a.C. al porto di Messina arrivavano grandi quantità di prodotti agricoli e che questi provenivano dall'entroterra nord-orientale della Sicilia[23]. L'attività agricola della zona trova anche giustificazione nel fatto che i suoli della valle erano particolarmente fertili grazie all'abbondanza d'acqua garantita dal Niceto[30].

I latifondi romani modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Nauloco e Battaglia di Nauloco.

Con la conquista romana, avvenuta nel 260 a.C. dopo la battaglia di Milazzo[32], la parte costiera subì un processo di bonifica e disboscamento dovuto principalmente a scopi militari[33]. Nel 210 a.C. infatti furono avviati i lavori per la realizzazione della Via Valeria[34] che, ricalcando all'incirca l'attuale tracciato della Strada Statale 113[35][36], consentiva il transito di grossi carri e macchine da guerra[33]. Dopo la seconda guerra punica nel territorio dell'odierno comune si formarono dei latifondi[1] con la creazione molto probabile di un insediamento abitativo permanente[1]. L'intera zona, comprendente sia il suolo torrese che quello di altri attuali comuni limitrofi, fu denominata Lavina[37] dal nome del corso d'acqua, oggi soltanto un piccolo ruscello, che scorre ai margini di Torregrotta e che, secondo le ipotesi degli storici, fu per lungo tempo tra i più importanti del circondario soprattutto dal punto di vista economico[24]. Proseguì inoltre l'opera di disboscamento con l'introduzione di colture di cereali, viti, ulivi e alberi da frutto[38]. Per facilitare i trasferimenti della mano d'opera impegnata nei lavori[38], fu fondato un pagus, ovvero un piccolo accampamento, su una collina circostante, forse non molto lontano dall'attuale Roccavaldina[37]. Delle antiche strade utilizzate come itinerario tra la via Valeria, i latifondi e il pagus rimane oggi un breve tratto dell'odierna via San Vito che, a parere degli studiosi, «potrebbe farsi risalire proprio al periodo della dominazione romana»[34]. Non è chiaro chi fossero i proprietari dei latifondi. Secondo alcuni, ed è il caso dello storico Francesco Ioli[39], la porzione di suolo circostante il torrente Lavina fu assegnata ad un tribuno poiché era prassi ripartire i territori conquistati tra i capi militari che durante la guerra avevano dato dimostrazione del proprio valore[24]. Lo storico e scrittore Angelo Coco[1], riprendendo quando sostenuto dal prof. John Wacher[40], ritiene invece che le terre andarono in affitto ad alcuni ricchi romani che avevano offerto denaro per sovvenzionare le spese della guerra Annibalica[1].

Due secoli dopo, nel 36 a.C., nelle acque antistanti Torregrotta si svolse la famosa battaglia di Nauloco, decisiva nella guerra civile fra Cesare Ottaviano e Sesto Pompeo[41]. Prima della battaglia, le 300 navi di Pompeo di rifugiarono presso Nauloco[42], un'antica città scomparsa sulla quale sono state formulate diverse ipotesi per l'individuazione della sua esatta posizione[43].

Età Medievale modifica

Dal Casale del Conte a Rachal Elmelum modifica

Alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente il territorio chiamato Lavina, di cui l'odierno comune faceva parte, cadde prima in mano degli Ostrogoti, che nel 476 avevano occupato la Sicilia, e poi dei Bizantini[37][38]. L'area attorno al torrente Lavina fu quindi concessa ad un tribuno e nominata Casale del Conte[38] (Casale Comitis)[44] in onore del nuovo possidente che fu anche un cortigiano di palazzo dell'imperatore Giustiniano I[38]. Il casale era un piccolo centro abitato circondato da una vasta estensione di terreno agricolo in cui vivevano dei villani dediti alla coltivazione della terra[45]. Sotto l'impero bizantino vi furono diversi secoli di pace e stabilita[38] fino all'827 quando iniziò l'invasione della Sicilia da parte dei Saraceni[46] che raggiunsero il Casale del Conte soltanto intorno all'anno 870[37]. Gli Arabi, che importarono gli usi e costumi del loro luogo di origine[44], rasero al suolo il Casale[38] e si insediarono nell'odierna contrada torrese di Radali, sulla cima di una collina da cui si domina l'odierna città, poiché preferivano le basse alture vicino ai fiumi[44]. L'intera zona fu rinominata Rachal Elmelum o più probabilmente Rahl el Melum, locuzione strettamente collegata a Radali che è una chiara evoluzione linguistica dell'originario Rahl, termine con il quale si indicavano piccole località abitate, trasformatosi poi in Rachal, Racchal, Ragali e infine nell'attuale vocabolo[44]. Il villaggio di Radali fu costituito da piccole case fatte di pietra, fango e paglia, spesso formate da un unico ambiente promiscuo per uomini e animali[44] mentre nei campi e nei frutteti circostanti venne largamente utilizzata l'irrigazione[44][47] e, secondo la tradizione, vennero per la prima volta coltivate le sbergie[48].

Il feudo di Santa Maria della Scala modifica

La dominazione islamica durò fino al 1061 quando i Normanni guidati da Ruggero d’Altavilla diedero avvio alla conquista della Sicilia[49][50]. I nuovi governanti, di fede Cristiana, per facilitare la conversione religiosa della popolazione, agevolarono la nascita dei monasteri ai quali dispensarono anche ampie porzioni rurali di territorio[50]. Ragione per cui, nel marzo del 1168, il Re normanno di Sicilia Guglielmo II, ancora quindicenne, e la madre Regina Margherita di Navarra concedettero e donarono al monastero benedettino di Santa Maria della Scala di Messina l'antico Casale bizantino[51][52]:

(LA)

«[…] Casale quod dicitur Comitis et Saracenie vocatur Rachal Elmelum, situm in plano Milatii inter Montefortem et Ramet versus mare […]»

(IT)

«[…] Casale detto del Conte, chiamato dai Saraceni Rachal Elmelum, sito nella piana di Milazzo tra Monforte e Rometta verso il mare […]»

La donazione, riconfermata in seguito anche dall'imperatore Enrico VI[53], rappresentò la nascita del feudo di Santa Maria della Scala, o semplicemente feudo Scala, al quale tuttavia fu attribuita questa denominazione soltanto nei secoli successivi[54]. Il feudo comprendeva le attuali frazioni Fondachello e Tracoccia del Comune di Valdina e la gran parte del territorio torrese, dalla costa fino all'incirca l'odierna via Libertà, ovvero nei pressi del palazzo ex Asilo Infantile[55]. Da quest'ultima via, verso sud, si estendeva il demanio reale di Rametta (odierna Rometta) che includeva tutti i territori compresi tra il torrente Gallo e il torrente Muto[56]. Nei territori del Casale, grazie alla «manodopera professionale» che qui abitava sin dalle epoche precedenti[57] ma di cui è ignota la reale entità numerica[54], fu avviata prontamente la produzione agricola senza l'investimento di ingenti somme di denaro[57]. Le religiose benedettine furono anche esentate dal pagamento dei tributi, che di solito erano obbligatori per coloro che ricevevano donazioni da parte del sovrano[58]. Il 13 gennaio 1196[59], la Regina Costanza per scongiurare che il Casale venisse sottratto alle monache[53] riconfermò la donazione fatta dai suoi due predecessori estendendo i confini alla vasta tenuta di Niceta[60]. Quest'ultima si trovava nell'odierno comune di Monforte San Giorgio e fu portata in dote al monastero da una suora di nome Maria[61]. Anche Federico II, primo Re di Sicilia della dinastia Sveva e figlio di Costanza[62], confermò le precedenti donazioni nell'agosto del 1209, quando era ancora minorenne[61]. Lo stesso Federico, ormai raggiunta la maggiore età, durante un'assise tenutasi a Capua nel 1220, ordinò la revoca di tutti i privilegi da lui concessi fino a quel momento poiché molti di questi erano stati estorti con mistificazioni e inganni[4]. Sicché l'11 luglio 1221, dopo aver ricevuto le suore Margherita e Caterina e preso visione dei documenti inviati dalla badessa Barbara[61], riconfermò per la seconda volta l'elargizione del Casale Comitis alle monache di Santa Maria della Scala[61]. In seguito, nel periodo in cui i rapporti tra il papato e Federico II furono apertamente ostili a causa della scomunica di quest'ultimo[5], il sovrano lasciò che i beni della chiesa fossero razziati[63]; così un giudice messinese, Afranione de Porta, approfittando della situazione si impadronì del feudo Scala[4][5], la cui proprietà passò poi al figlio Bartolomeo[64]. Alla morte dell'imperatore il Casale fu occupato da un gruppo di messinesi[4] finché il 10 giugno 1267, il legato pontificio in Sicilia, Cardinale Rodolfo de Chevrières[5], mandato sull'isola per reintegrare i beni ecclesiastici derubati dai feudatari laici[64], emise una sentenza in cui stabilì la restituzione del feudo alle legittime proprietarie[4]. Frattanto l'insediamento del nuovo Re Carlo I d'Angiò, avvenuto nel 1266, aveva aperto il breve periodo Angioino[62] nel corso del quale le religiose del monastero di Santa Maria della Scala non riuscirono a tornare in possesso del Casale[65]: il sovrano, infatti, simulava di approvare le sentenze ma non ne ordinava l'effettiva attuazione[66]. Nell'incertezza, il casale fu nuovamente usurpato dal nipote del giudice Afranione de Porta[5].

Dopo i Vespri Siciliani del 1282, il trono di Sicilia fu avocato da Pietro III, inaugurando la stagione della dinastia Aragonese[67]. Il 3 aprile 1289, durante il regno di Giacomo II d'Aragona[66], i giudici di Monforte, Bonsignorino de Neapoli e Joannes de Peretti[4], riconsegnarono il Casale alle suore di Santa Maria della Scala, in conseguenza di una sentenza della Magna Regia Curia[4] e a distanza di 22 anni da quella del Cardinale de Chevrières[66].

Il feudo di Rocca e la storica divisione modifica

Agli inizi del XIV secolo[68], il nuovo re di Sicilia Federico III concesse parte del demanio occidentale di Rometta al cavaliere pisano Giovanni La Rocca e al genovese Giovanni Mauro, entrambi suoi convinti assertori[38]. I due feudatari costituirono due nuovi feudi a al loro interno edificarono dei Casali ai quali fu attribuito il nome dei rispettivi proprietari: Rocca (odierna Roccavaldina)[69] e Maurojanni (odierna Valdina)[38]. Quest'ultimo fu successivamente aggregato al primo formando un unico feudo[38]. Il feudo di Rocca comprendeva l'estrema porzione meridionale dell'attuale territorio di Torregrotta[5] che, a partire dal XIV secolo, vide quindi la presenza di due distinte proprietà: da un lato il già menzionato Casale del Conte, amministrato dal monastero messinese di Santa Maria della Scala, dall'altro la terra di Rocca[69]. L'esatto confine divisorio tra i due possedimenti è alquanto incerto[70]: gli storici hanno ipotizzato che fosse la via Bucceri (odierna via Mezzasalma)[70] oppure si trovasse all'altezza del palazzo ex Asilo Infantile[5]. Nel centro storico torrese esistono comunque due zone adiacenti denominate Barone e Badessa, testimonianza della storica divisione[70]. Durante il periodo Aragonese il feudo di Rocca fu amministrato da vari feudatari: a Giovanni La Rocca si sostituirono infatti Nicolò Castagna e poi la famiglia Pollicino[5]. Il feudo di Santa Maria della Scala conobbe invece un periodo di spopolamento e di abbandono che, secondo le ipotesi degli storici, fu determinato da una serie di cause[3]: la peste nera del 1347, l'annullamento, nel 1421, delle donazioni feudali ai monasteri in seguito all'entrata in vigore della Regia Costituzione di Alfonso V d'Aragona, e per ultime le incursioni dei pirati musulmani che a partire dalla metà del XV secolo depredarono le coste siciliane.

Età Moderna modifica

La rinascita del Casale modifica

 
L’unica torre superstite del Castrum cinquecentesco si trova in via Trieste, incorporata in abitazioni di epoche successive[24]

Il XVI secolo, mentre era ancora regnante la dinastia Aragonese, si aprì con un forte terremoto, avvenuto nel 1505, che arrecò parecchi danni e distrusse numerose abitazioni[38]. Il signore del Casale di Rocca, Gilberto Pollicino, cercò di risollevare le sorti del feudo ma a causa di ristrettezze economiche[38], il 15 giugno 1509[69], fu costretto a vendere le terre di Rocca e Maurojanni al nobile spagnolo Andrea Valdina, che diverrà in seguito, durante il periodo spagnolo della Sicilia, Maestro Notaro della gran Corte e Capitano d'armi[38]. Nel 1516, infatti, con l'ascesa al trono di Carlo V l'isola fu incorporata alla corona di Castiglia.

Frattanto il Casale del Conte si trovava in rovina[5], ma il 9 ottobre 1526 l'imperatore Carlo V emanò una Licentia populandi nella quale, accogliendo la richiesta inviatagli dalle monache del monastero di Santa Maria della Scala[71], si autorizzava la riedificazione e il ripopolamento dell'antico Casale nel feudo Scala[4]. Il documento, redatto e approvato nella città spagnola di Granada, fu prima registrato a Palermo il 6 maggio 1527 e poi a Rometta dai Giurati il 12 agosto dello stesso anno[71]. Al fine di proteggere i nuovi abitanti soprattutto dalle azioni dei pirati turchi[3], la licenza prevedeva anche la costruzione di opere difensive, ovvero di un Castrum o di una torre[5], e concedeva alle monache la possibilità di tassare a propria discrezione la popolazione del feudo[71]. L'aspettativa di poter migliorare le proprie condizioni di vita favorì l'immigrazione di persone indigenti provenienti dal circondario[72] che stabilendosi nella rinnovata realtà crearono in breve tempo una comunità dotata di propria identità[73]. La rinascita del Casale rappresentò, difatti, l'origine dell'odierna città il cui sopradescritto nucleo cinquecentesco si ingrandì e si sviluppò nel corso dei secoli, chiamandosi dapprima Torre e poi Torregrotta[5][71]. Per gestire al meglio le attività agricole ed economiche[73], le suore affidarono l'amministrazione dell'intero feudo ad un procuratore laico (conduttor) che, al pari dei nobili feudatari, divenne una figura di notevole potere poiché era l'unico fiduciario e rappresentante del monastero[72]. La carica fu ricoperta per la prima volta da un abitante di Maurojanni, Don Sebastiano Barnava, e successivamente dal figlio Francesco che subentrò nel ruolo alla morte del padre, avvenuta nel 1587[5][72].

L'economia del feudo nei secoli XVI e XVII modifica

A partire dalla seconda metà del XVI secolo, all'interno dei possedimenti del feudo Scala furono create diverse strutture commerciali e artigianali. Lungo il Dromo (attuale Strada statale 113), nei pressi dell'odierna piazza Santa Maria della Scala fu attivo il fondaco della Scala[74][75][76], un edificio simile ai moderni motel in cui mercanti e viandanti effettuavano brevi soste per ristorarsi o per pernottare durante i loro viaggi[77]. Il fondaco ebbe anche una funzione difensiva poiché era munito di una torre di avvistamento[74][75]. Nella odierna contrada Maddalena, invece, nacque e si sviluppò un insediamento rurale che fu un centro religioso dedito al culto di Santa Maria Maddalena[78] ma anche un nucleo produttivo in cui, grazie al terreno argilloso, si realizzavano laterizi[79], soprattutto mattoni e tegole[75]. Non meno importante fu l'attività agricola con abbondanti produzioni di olio e vino[73]. L'agricoltura costituì, infatti, la principale fonte economica di tutto il feudo nel corso del XVI e XVII secolo, periodo durante il quale ai tradizionali frutteti ed alle coltivazioni vallive di frumento e maggese si sostituirono ampie estensioni di vigna[72][73]. Gli oliveti, diffusi nei terreni argillosi delle colline, furono inoltre affiancati da alberi di gelso le cui foglie servivano per allevare i bachi da seta utilizzati nella produzione della seta[73]. Le zone in cui si concentrarono le maggiori estensioni di gelseti furono le contrade Maddalena nel feudo di Santa Maria della Scala[73] e la contrada Grotta che rientrava in parte nel feudo di Rocca e in parte in quello della Scala[72][80]. Un significativo incentivo alla lavorazione della seta fu dato dai Valdina, baroni di Rocca e brillanti imprenditori, che avviarono un fiorente e consistente commercio di prodotti serici[81].

 
Stemma della famiglia Valdina del XVI secolo[82] nel centro storico torrese

I Valdina modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Valdina (famiglia).

L'intero feudo di Rocca conobbe i maggiori fasti proprio sotto la guida della famiglia Valdina che durò fino alla prima metà del 1700[38]. Alla morte del capostipite Andrea, infatti, si sostituì, il 12 novembre 1578, Andrea Valdina Juniore che morì nel 1589[82]. Gli successe prima il figlio Maurizio, morto all'età di soli 22 anni, e poi il secondogenito Pietro che nel 1623 modificò il feudo chiamandolo Roccavaldina poiché aveva ricevuto dal sovrano l'autorizzazione ad associargli il nome della propria dinastia[37]. Gli fu inoltre conferito il titolo di Marchese e, nel 1642, quello di Principe del feudo di Maurojanni, divenuto nello stesso anno Principato di Valdina[37]. Nel 1660 le redini dei possedimenti passarono al nipote di Pietro, Giovanni Valdina Vignolo, che morì senza lasciare eredi nel 1692[37]. Segui un periodo di contrasti interni alla famiglia che terminò nel 1703 con la nomina ad erede del cugino Francesco Valdina[37]. Quest'ultimo vendette al Duca di Giampilieri, Giuseppe Papè, il titolo di Principe di Valdina dando iniziò alla decadenza del Casato che culminò nel 1764 quando il figlio, Giovanni Valdina Vhart, dovette vendere tutti i titoli nobiliari[37]. I successivi proprietari furono, nell'ordine, le famiglie Martino, Atanasio, De Spucches e infine Nastasi, tutte espressioni della borghesia ai quali i Valdina si erano apparentati dopo il declino[69].

La dissoluzione dei feudi modifica

Il feudo di Santa Maria della Scala continuò a essere amministrato da procuratori non subendo particolari sussulti fino al 1743, quando un'epidemia di peste sconvolse anche Roccavaldina e tutti i feudi circostanti[81]. Pochi anni prima, il Regno di Sicilia era stato conquistato da Carlo di Borbone, posteriormente alle brevi parentesi di dominio piemontese e austriaco avvenute tra il 1713 e il 1734[83]. I Borbone cercarono a più riprese di accaparrarsi e poi rivendere il patrimonio ecclesiastico attraverso enfiteusi[84]. Diversi tentativi di confische e alienazioni, che riguardarono anche il feudo Scala, avvennero a partire dal 1792 e fino al 1815 ma quasi tutte furono fallimentari[84].

Nel 1812, sotto la spinta di una parte della nobiltà, il re Ferdinando IV fu costretto a concedere una Costituzione che cambiò l'assetto burocratico del regno e abolì i privilegi feudali e quindi i feudi[85]. Con l'ulteriore rimaneggiamento amministrativo del 1816 l'ex feudo di Roccavaldina fu tramutato definitivamente in Comune inglobando anche l'ex feudo di Santa Maria della Scala[5]; il Casale, che già dai primi anni dell'Ottocento veniva chiamato Torre[24], divenne sottocomune di Rocca[86] assumendo il definitivo toponimo Torregrotta verso la metà del secolo[86]. La gran parte dei beni immobili continuarono comunque ad essere proprietà del monastero messinese, sebbene soggetti alla giurisdizione comunale.

Età Contemporanea modifica

La questione religiosa torrese modifica

 
Bassorilievo raffigurante San Paolino. Particolare dell’altare nella omonima chiesa di Torregrotta

Per quanto nelle epoche precedenti non siano mai state documentate rivalità tra le due comunità, nel corso dell’ottocento gli abitanti del sottocomune iniziarono a mal sopportare di dover essere subordinati a Roccavaldina percepita come una realtà estranea e distaccata da quella torrese. Il malcontento fu latente fino alla metà del secolo quando il desiderio di maggiore autonomia si manifestò in istanze di carattere religioso[87]. I torresi dovevano patire il disagio - se rapportato ai mezzi di trasporto dell'epoca - di recarsi nella chiesa madre della lontana Roccavaldina per poter ricevere i sacramenti poiché la chiesa di Maria SS. della Pietà, presente a Torre e dipendente dal clero roccese, fu relegata al ruolo di edificio rurale in cui poteva essere officiata soltanto la celebrazione eucaristica[88][89]. Incalzato dalle insistenti richieste dei Torresi, il Real Governo borbonico fu costretto ad autorizzare l'innalzamento a sacramentale della chiesa di Torre ma solo per i sacramenti di urgenza (battesimo ed estrema unzione) e a condizione che la popolazione si fosse fatta carico delle spese necessarie al mantenimento dell'istituzione[87]. L'esiguo contributo offerto dal Comune di Rocca, infatti, era insufficiente a raggiungere la somma occorrente[87]. A partire dal 10 settembre 1852, i Torresi insieme agli abitanti dei limitrofi villaggi di Cardà, Casino (odierna Monforte Marina) e del borgo del Benefizio avviarono una raccolta di fondi da ripetersi con cadenza annuale, a cui segui l'atto formale di elevazione, prodotto il 12 ottobre 1852 dall'arcivescovo di Messina, monsignor Francesco Di Paola[87][88]. Nello stesso documento, l'arcivescovo decise anche di modificare il titolare della chiesa, dedicandola a San Paolino Vescovo[88][90]. Tuttavia la religiosità dei Torresi risultava ancora sottomessa alle rigide imposizioni del clero roccese che limitando l'operato del primo sacerdote assegnato alla chiesa sacramentale, don Giuseppe Ordile, innescò una serie di contrasti e polemiche con quest'ultimo[90]. Motivo scatenante fu il tentativo di celebrare a Torregrotta due matrimoni, immediatamente bloccato dal vicario foraneo di Roccavaldina, ma anche la regola scritta che prescriveva ai Torresi di festeggiare la Pasqua nella chiesa principale di Rocca[91]. I sacerdoti roccesi iniziarono inoltre a contestare la quota che il Comune versava per il parziale sostentamento della chiesa di San Paolino, ritenuta sproporzionata rispetto a quella assegnata alla chiesa madre[91]. L'alterco religioso che si era acceso divenne apertamente ostile nel dicembre del 1865 mentre era cappellano di Torregrotta don Giuseppe Scibilia[92]. Quest'ultimo, facendosi interprete del sentimento comune, aveva assunto una condotta autonomistica, ricevendo l'ammonimento del Vicario Capitolare dell'Arcidiocesi di Messina e forti critiche da parte dei sacerdoti roccesi[93]:

«Lo Scibilia osa elevarsi a Parroco assoluto. Si arroga il diritto di tenere a sé i registri provvisori annuali dei nati, dei morti e dei matrimoni, che dovrebbero far seguito a quella Chiesa Madre e con autentica baldanza fa uso di un suggello con la impronta di San Paolino, per eliminare onninamente l’idea della venerazione dovuta al Patrono Principale. Egli insomma, da semplice Cappellano d’una Chiesa Soccorsale, che questa è la istituzione, intende emanciparsi dalla soggiogazione che deve a questa Parrocchia, col pernicioso scandalo di far pure emancipare gli abitanti del Casale.»

È tesi storicamente accertata che ad alimentare le polemiche e l'oppressione da parte dei curati roccesi fu proprio il timore di un'emancipazione dei torresi piuttosto che una convinta intransigenza religiosa[94]. Sebbene nel concreto la condizione della chiesa di Torregrotta rimase immutata, l'intera vicenda fortificò il desiderio autonomistico e la devozione dei torresi attorno al tempio di San Paolino Vescovo[95].

La borghesia torrese e il rinnovamento agricolo del XIX secolo modifica

Durante l'ottocento Torregrotta conobbe un periodo di graduale crescita demografica ed espansione edilizia[96] determinate da movimenti migratori che sin da inizio secolo avevano interessato tutto il territorio dell'ex feudo Scala[97]. I nuovi residenti, provenienti sia dal circondario sia da altre zone della Sicilia, contribuirono al rinnovamento economico avviando diverse attività imprenditoriali che stimolarono la costruzione di infrastrutture di iniziativa privata[97]. Tra le maggiori opere realizzate a Torre nel XIX secolo[97] vanno menzionate: nel 1817 la manutenzione dell'intera via Maddalena (oggi non più esistente) con la pavimentazione del fondo stradale[98], nel 1833 la costruzione dell'acquedotto che dalla contrada Maddalena terminava a Torre[99] e nel 1840 le opere di contenimento idraulico del torrente Bagheria che nel corso dell'anno precedente aveva causato una disastrosa alluvione allagando tutti terreni della contrada Grotta[100].

I decenni successivi all'Unità d'Italia, dopo che la spedizione dei Mille del 1860 aveva posto fine al periodo Borbonico[101], furono caratterizzati da un significativo mutamento della società torrese. Determinante fu la legge n. 743, approvata dal neonato Parlamento Italiano il 10 agosto 1862, che imponeva la confisca dei terreni e degli immobili ecclesiastici in Sicilia e la successiva alienazione tramite aste pubbliche[84]. Anche le proprietà terriere del Monastero di Santa Maria della Scala nell'omonimo ex feudo subirono lo stesso trattamento: dopo la confisca furono suddivise in trenta lotti[102] che vennero alienati un po' alla volta fino al 21 gennaio 1867 quando furono venduti al pubblico incanto gli ultimi otto appezzamenti[103]. Il criterio di vendita delle aste pubbliche favorì le famiglie benestanti[102] che, riuscendo ad aggiudicarsi le grandi estensioni di terra dell'ex feudo Scala, formarono una ristretta e influente classe borghese[104].

I nuovi proprietari terrieri - tra i quali le famiglie Basile, Sfameni, Lo Mundo e Mezzasalma - riorganizzarono in breve tempo le attività agricole avviando lo sfruttamento intensivo delle campagne, al tempo costituite da grandi estensioni di vigna in pianura e da oliveti e gelseti sulle colline[89][96]. Le aree acquitrinose adiacenti alla costa furono bonificate con la realizzazione di canali di drenaggio (chiamati "saie" dalla popolazione locale) che, convogliando le acque, divennero dei veri e propri sistemi di irrigazione[89][96][105]. Con il risanamento della zona costiera si riuscì a coltivare la vite fin quasi sulla spiaggia[44]. Furono inoltre create nuove attività artigianali e commerciali e tornò in auge l'antica tradizione legata alla produzione e alla vendita della seta[96].

Nel rinnovato quadro economico, la condizione dei contadini e della classe operaia rimase ancora disagiata favorendo il diffondersi delle nuove idee socialiste grazie all'opera di propaganda del giovane avvocato torrese Salvatore Visalli[106]. Lo stesso, nel 1892, fondò a Torregrotta un fascio dei lavoratori aderente al movimento rivoluzionario dei Fasci siciliani[106][107] che si impose nel panorama politico torrese malgrado le opposizioni della locale consorteria e del parroco dell'epoca[108]. In seguito all'intervento repressivo del governo nazionale tutti i fasci siciliani vennero sciolti, compreso quello torrese, nel 1894[109]. Nello stesso anno si verificò il forte terremoto della Calabria meridionale, avvenuto nel pomeriggio del 16 novembre, che tuttavia non arrestò il fermento economico di fine secolo poiché i danni a Torregrotta furono limitati soltanto agli edifici più vecchi[110].

I contrasti con Roccavaldina e la guerra delle sepolture modifica

 
L'antica stazione di Torregrotta nel 1912

Agli inizi del novecento, nonostante i danni causati dal forte terremoto di Messina del 1908, Torregrotta aveva economicamente sopravanzato Roccavaldina, divenendo il centro comunale delle attività produttive[89], anche grazie alla costruzione della ferrovia Palermo-Messina e della locale stazione ferroviaria[111][112]. Furono create e si svilupparono nuove iniziative imprenditoriali nel settore storico dell’agricoltura ma anche nel campo dell’artigianato – produzione di laterizi e fabbricazione di pipe - e del commercio[112]. La classe borghese torrese, composta dai pochi grandi proprietari terrieri, cercò di rafforzare la propria egemonia in seno alla comunità locale sfruttando sia il consistente potere economico sia l'insofferenza dei torresi nei confronti di Roccavaldina[113]. L'oppressione religiosa attuata dal clero roccese aveva infatti accresciuto il desiderio popolare che mirava alla autonomia di Torregrotta per ristabilire la separazione delle due realtà antecedente la riforma amministrativa dei Borbone[95][114]. I malumori covati per lungo tempo trovarono sfogo durante la prima guerra mondiale quando le ristrettezze economiche, la mancanza di generi di prima necessità e la carenza di servizi e infrastrutture spinsero la borghesia ad avviare le manovre di affrancamento da Roccavaldina e di conquista del potere politico e gestionale del territorio[115][114]. Difatti, nel 1917 si verificò un tentativo di tumulto dei torresi per protestare contro la ripartizione dei beni di prima necessità tra Roccavaldina e Torregrotta poiché ritenuta iniqua[116]. Inoltre, fu istituito il Comitato Torrese di Assistenza Civile che, sebbene avesse come scopo quello di aiutare le famiglie dei richiamati nella prima guerra mondiale, si trasformò in un «movimento di lotta politica e di antagonismo alla gestione amministrativa comunale di Roccavaldina»[116]. Nel contesto ostile che si era creato, i rappresentanti roccesi il 7 settembre 1919 disertarono la cerimonia di inaugurazione del monumento ai caduti[114], voluto dal sopracitato comitato e finanziato dai torresi con una raccolta di fondi[117][118]. Nel 1920 Torregrotta superò Roccavaldina anche per numero di abitanti[89] e nel 1921 fu ottenuta l'elevazione a parrocchia della chiesa di San Paolino[119]. Raggiunta l'indipendenza dai curati roccesi, il clima di tensione tra le due comunità sfociò infine in contesa e lotta popolare passata alla storia come guerra delle sepolture[89][120]. I torresi non sopportavano di dover seppellire i propri morti nel distante cimitero di Roccavaldina, dovendosi sobbarcare anche le spese per il trasporto[89][121]. Iniziarono quindi a riesumare furtivamente i cadaveri e a trasferirli durante la notte a Torregrotta, scatenando la reazione dei roccesi[121]. Furono quindi istituite delle ronde notturne di torresi per impedire che le salme venissero nuovamente spostate[121], sfiorando in più di un'occasione la colluttazione con i roccesi[122]. Nel contempo, nel gennaio 1922, fu deciso di avviare due raccolte fondi tra tutti i torresi[121] che servirono alla costruzione di uno steccato da adibire a cimitero e alla fine delle scorrerie tra le opposte fazioni[89].

L'autonomia amministrativa modifica

 
Il monumento ai caduti in una cartolina del 1923

A partire dal 3 agosto 1917, con le dimissioni del sindaco roccese Nicolò Anastasi Foca, si era aperto un periodo di crisi politico-amministrativa del governo comunale di Roccavadina, con l'alternanza di diversi commissari prefettizi fino al 1926[121][123]. Fu infatti impossibile ricomporre un nuova amministrazione sia a causa delle dimissioni di molti consiglieri comunali, sia per un apparato burocratico ridotto ai minimi termini dalla guerra mondiale[123]. Approfittando della situazione, l'ingegnere Pietro Mezzasalma, che guidò la rappresentanza delle famiglie borghesi e fu il principale artefice dell'autonomia di Torregrotta[124], ottenne l'appoggio di varie personalità politiche nella causa autonomista torrese[125]. Anche il commissario prefettizio di Roccavaldina, Giuseppe Attilio Muscolino, comunicò con una missiva al Prefetto che per superare i contrasti tra le due comunità l’unica soluzione possibile era la costituzione in comune autonomo della frazione Torregrotta[112]. Il 18 ottobre 1920, a firma di Luigi Fulci, fu presentato alla Camera Regia un primo progetto di legge per l'autonomia di Torregrotta[126]; lo stesso Fulci, insieme a Giuseppe Paratore, presentò un nuovo disegno di legge sulla stessa materia il 10 dicembre 1921 ma il documento fu deferito all'esame della commissione affari interni[127]. Seguirono un'ulteriore iniziativa parlamentare ad opera del futuro ministro Luigi Facta e l'8 giugno 1922 un ultimo disegno di legge, su proposta del deputato Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, anch'esso deferito all'esame della commissione interno[128]. L'autonomia di Torregrotta giunse il 21 ottobre 1923 quando il Re d’Italia, Vittorio Emanuele III, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri dell'epoca, decise di decretare la costituzione di Torregrotta in Comune autonomo con il Regio Decreto n.2333[86][129]. Negli anni seguenti, con un lungo iter burocratico, si procedette alla definizione dei confini divisori e alla separazione dei beni con Roccavaldina[89]. I rappresentanti di Torregrotta e il commissario prefettizio di Roccavaldina firmarono, il 17 giugno 1926[130], la mappa predisposta dall'ufficio del Genio Civile di Messina che, ufficialmente approvata dal Re d'Italia con il Regio Decreto n. 2142 del 25 novembre 1926[130], attribuiva l'area di territorio spettante a ciascun comune in base al numero di abitanti al censimento del 1921[89]. I torresi però, chiedendo un equo risarcimento, denunciarono irregolarità nella stima della popolazione evidenziando un'anomalia tra il rilevamento del 1920 e quello del 1921 in cui risultava un vistoso aumento degli abitanti roccesi[89]:

«La differenza tra i due accertamenti nasce dal fatto che, nel mentre le operazioni eseguite nel 1920 dall’inviato prefettizio furono correttamente e scrupolosamente condotte per lo accertamento della verità, quelle invece fatte nel 1921 furono dall’Autorità municipale del tempo, residente in Roccavaldina, imbastite ad uso e consumo dell’idea in quel paese preponderante - idea che può riassumersi in questo, ahi quanto sbagliato concetto!: “ingrandire nello appezzamento pubblico Roccavaldina, e deprimere Torregrotta”.»

In tal modo il territorio assegnato a Torregrotta risultò essere più piccolo di circa km² rispetto a quello che sarebbe spettato di diritto[89]. Nel frattempo, nel 1926, fu nominato il primo podestà e la macchina amministrativa comunale iniziò ad operare[131]. Tuttavia lo scorporo del catasto tra Torregrotta e Roccavaldina fu realizzato soltanto il 20 aprile 1932[124] mentre per ottenere la completa divisione dei beni, diritti ed obblighi tra i due comuni si dovette attendere il 3 luglio 1936[132].

Il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale modifica

 
Attività ginniche degli studenti per il sabato fascista a Torregrotta (via XXI ottobre) nel 1938

Il regime fascista soffocò le libertà di opinione e manifestazione. Il governo comunale, espressione della borghesia terriera, dovette fare i conti con la scarsità di risorse finanziarie[133][134]. Furono realizzate pochissime opere pubbliche mentre i progetti più urgenti - approvvigionamento idrico, sistema fognario, realizzazione delle scuole - non riuscirono a trovare adeguata copertura economica[133][134].

Durante il governo del podestà Mezzasalma fu istituito per tre anni il pedaggio lungo la via rotabile (attuale via XXI ottobre) con un posto di sbarramento all’altezza della via Crocieri. Tale tassa, richiesta a tutti i veicoli in transito sulla predetta strada, servì per la pavimentazione dell’intera via la quale era diventata quasi intransitabile poiché non più manutenuta dal 1908[135]. Sotto la guida del podestà Aurelio Coppolino, nominato dal prefetto il 4 agosto del 1933[136], furono realizzati l’impianto di pubblica illuminazione e il palazzo comunale[137], la cui prima pietra era stata posata nel 1929[138]. Inoltre, per la prima volta, fu istituito il servizio farmacia[137]. Nel 1936 fu nominato il podestà Antonino Magno, riconfermato alla guida del Comune nel 1941, che tuttavia non riuscì a completare il proprio mandato a causa del crollo del regime fascista e dell’occupazione degli alleati. Questi ultimi, infatti, destituirono tutti i podestà e i funzionari[139].

Nel corso della seconda guerra mondiale Torregrotta fu risparmiata da bombardamenti[140] e nonostante le difficoltà si riuscì a terminare la costruzione della nuova chiesa di San Paolino che fu inaugurata il 29 giugno 1943[141]. Le truppe alleate, dirigendosi verso il continente, attraversarono la città nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1943 allestendo un accampamento nelle vicinanze del cimitero comunale durante tutto il periodo di occupazione militare[140]. L’economia torrese fu gravemente danneggiata dalla più generale crisi di quegli anni. Solo le attività agricole proseguirono mentre i settori dell’artigianato e dell’industria furono inattivi[140]. In effetti, terminata la guerra, si manifestò anche a Torregrotta il più ampio fenomeno meridionale dell’emigrazione verso il nord Italia e l’estero[142].

Nell’ottobre 1943 fu nominato Sindaco Gaetano Mezzasalma il quale intrattenne ottimi rapporti con l’amministrazione militare alleata dei territori occupati ma si dimise dopo soltanto un mese[143]. Gli successe Giuseppe Saladino, nominato dal prefetto il 7 dicembre 1943, che ebbe il compito di avviare il percorso verso la ripresa economica e sociale di Torregrotta[144].

Il secondo dopoguerra: la fine dell’egemonia della borghesia terriera modifica

Nell’ottobre del 1946 si tennero le prime elezioni democratiche per eleggere il consiglio Comunale che raccolse rappresentanti provenienti da tutti i ceti sociali poiché non vi era ancora un assetto politico ben delineato in partiti e schieramenti[142]. Il civico consesso elesse sindaco Giuseppe Saladino[142], personalità contigua alle famiglie borghesi torresi appartenenti alla cerchia dei grandi proprietari terrieri. Saladino fu riconfermato sindaco dopo la competizione elettorale del maggio 1952 la quale vide contrapposte la lista del PCI alla vincente lista dei restanti partiti dell’arco costituzionale[145].

 
La via XXI ottobre nel 1955 durante i lavori di ampliamento

Per implementare il sistema idrico fu costituito un consorzio sovracomunale tra Torregrotta ed altri cinque comuni del circondario che consentì di realizzare una nuova condotta idrica e risolvere il problema della penuria d’acqua[146][147]. Inoltre, fu istituito il servizio di pulizia delle strade e di nettezza urbana con sistema porta a porta[147]. Grande rilievo fu dato alla realizzazione di case per lavoratori e alla manutenzione delle strade che furono allargate in alcuni tratti[148]: è il caso della via XXI ottobre dove nel 1955 fu demolito il Riposto della Torre, edificio storico appartenuto al feudo di Santa Maria della Scala[149].

L’economia torrese iniziò una lenta ripresa che fu caratterizzata dal protagonismo dall’artigianato locale e da piccole attività industriali legate all’estrazione e lavorazione dell’argilla e di trasformazione dei prodotti agricoli[150]; infatti, grande rilievo continuarono ad avere le attività legate alla terra[150]. Negli anni cinquanta fu introdotta la coltivazione della patata primaticcia che divenne in breve tempo la più importante e più diffusa coltura torrese, destinata in larga parte al commercio estero[151].

 
Carri riempiti di patate presso lo scalo merci dell’antica stazione di Torregrotta negli anni sessanta del novecento

L’emergere di nuove categorie sociali produsse un acceso dibattito cittadino improntato all’unità della città e alla discontinuità con il recente passato dominato dalla borghesia terriera e per questo considerato “aristocratico”[150][152]. Espressione di questo cambiamento fu Giovanni Tripoli, eletto sindaco nel 1956, che capeggiò da indipendente le forze progressiste (PCI e PSDI) nelle elezioni amministrative svoltesi a maggio[153]. Lo stesso Tripoli, interpretando le dinamiche sociali e politiche nazionali, aderì alla Democrazia Cristiana e guidò la coalizione tra DC e PSDI che sconfisse la lista del PCI nelle elezioni comunali del novembre 1960[154].

Nel frattempo la città iniziava a crescere con la creazione di diverse nuove strade che richiesero un miglioramento dell’impianto di pubblica illuminazione e l'ampliamento del sistema idrico e fognario. Inoltre fu realizzato il mattatoio comunale e avviato l’iter per la costruzione della chiesa di Santa Maria della Scala[155].

L’11 ottobre 1964, poche settimane prima delle elezioni amministrative, il Sindaco Giovanni Tripoli fu colto da un improvviso malore e morì generando grande commozione in tutta la popolazione torrese[156]. La Democrazia Cristiana, proseguendo l’alleanza con il PSDI, si presentò agli elettori con una lista capeggiata da Anna Scalia, vedova del sindaco Tripoli e presidente dell’Ente comunale di assistenza (ECA), vincendo le elezioni del 22 novembre a svantaggio della lista delle opposizioni[157]. Tuttavia il mandato del sindaco Anna Scalia si concluse in anticipo poiché, come era stato fatto rilevare durante la campagna elettorale, il suo ruolo lavorativo di vertice all’interno dell’ECA la poneva in condizione di ineleggibilità[158]. Il tribunale di Messina ne dichiarò la decadenza nel marzo 1967 aprendo un periodo di ingovernabilità e stallo amministrativo causati da una accesa conflittualità in seno alla DC[158]. Tra aprile e dicembre 1967 si avvicendarono alla guida del comune Domenico Magliarditi e Andrea Nastasi senza riuscire a risolvere la crisi politica che portò allo scioglimento del Consiglio Comunale e al commissariamento del comune[159].

Gli anni settanta e ottanta del novecento modifica

 
Scorcio di piazza Unità d'Italia

Nelle elezioni comunali del novembre 1968 prevalse l’alleanza di centrosinistra tra la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Unficato[160] suggellata dal così detto “patto di ferro e di onore” tra il democristiano Domenico Magliarditi e il socialista Pietro Gangemi[161]. Fu una intesa politica ma soprattutto personale che nel bene e nel male dominò e influenzò la vita politico-amministrativa della città per circa sedici anni[162]. Magliarditi fu eletto sindaco con Gangemi vicesindaco e assessore anziano, la minoranza fu conquistata da una lista civica di cittadini mentre la lista del Partito Comunista Italiano per la prima volta non riuscì ad eleggere rappresentanti in consiglio comunale[160]. Nel 1973 il Partito Repubblicano Italiano si aggregò all’alleanza DC - PSI vincendo le elezioni di novembre a danno della lista unitaria tra PCI e PSDI a cui toccò la minoranza[163]. Magliarditi e Gangemi furono riconfermati nei rispettivi ruoli eppure nel 1974 fallì un tentativo di sostituire sindaco e giunta[163]: il 3 marzo vennero dapprima sfiduciati dal Consiglio Comunale e successivamente rieletti nella seduta dell’8 aprile poiché nel frattempo i rappresentanti del PCI si erano accordati con i due infrangendo la mozione di sfiducia firmata e votata[163]. L’alleanza DC - PSI con il duo Magliarditi - Gangemi perdurò nell’amministrazione di Torregrotta vincendo sia le elezioni del giugno 1979 che quelle del giugno 1984[164]. In entrambe le tornate la lista del PSDI ottenne la minoranza mentre il PCI arrivò terzo[164].

L’espansione della città, iniziata già negli anni sessanta, continuò secondo le previsioni urbanistiche contenute nel programma di fabbricazione il cui iter era stato avviato nel 1969 e concluso con l’approvazione definitiva nel 1974[165][166]. Diverse furono le infrastrutture programmate e realizzate: nuove strade e piazze tra cui il viale Europa, via R. Livatino e piazza Unità d’Italia, il campo di calcio e diverse scuole. Ancora, fu terminata la costruzione della chiesa di Santa Maria della Scala che venne inaugurata il 10 aprile 1976[167]. Di fatto tra gli anni settanta ed ottanta del novecento Torregrotta conobbe il periodo di maggiore sviluppo economico e sociale della propria storia. L’agricoltura torrese fu protagonista con le smergie ma soprattutto con la patata primaticcia che si consolidò nei mercati tedeschi[151]. Inoltre l’industria dei laterizi torrese visse il proprio periodo più florido[168]. Il nuovo sviluppo economico provocò la crescita demografica di Torregrotta che catalizzò cittadini provenienti dai borghi collinari dei peloritani[169]: il numero di abitanti raddoppiò passando dai 3127 del 1961 ai 6051 del 1991[170].

La scomparsa di Pietro Gangemi, il 2 novembre 1984, riaccese le mai sopite conflittualità interne alla DC ma soprattutto determinò l’indebolimento della storica alleanza DC - PSI fino ad arrivare allo scontro e alla rottura politica[171]. Il 23 luglio 1987 il consiglio comunale approvò la mozione di sfiducia nei confronti del Sindaco Domenico Magliarditi e della giunta[171]. Vani furono i tentativi di rinsaldare l’alleanza con il PSI pertanto la DC riuscì a concretizzare un accordo programmatico con il PSDI che fu formalizzato il 1 settembre 1987 con la rielezione di Domenico Magliarditi sindaco affiancato da una nuova giunta[171]. Quest’ultima però ebbe vita breve, infatti nel febbraio 1988 tutti i componenti si dimisero aprendo la strada ad una giunta esclusivamente democristiana con Magliarditi sindaco[171]. Nel 1989 la DC torrese riuscì a ricompattarsi con il PSI vincendo le elezioni di maggio a discapito di una aggregazione poliedrica promossa dall’on. Enzo Coco e composta da PSDI, PCI e da cittadini di varie estrazioni politiche[172].

Note modifica

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    «In quanto al frutto, è facile invece sentir parlare di un innesto sperimentato dagli arabi in quei secoli a cavallo dell'anno Mille, allorché fecero della Sicilia il più bel giardino del Mediterraneo, cantato dai poeti: il giardino di Hamdis.»
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Voci correlate modifica