Sul romanticismo è una lettera inviata da Alessandro Manzoni al marchese Cesare Tapparelli d'Azeglio nel 1823 e pubblicata senza il consenso dell'autore nel 1846[1]. Tale lettera è molto importante al fine di comprendere meglio le idee romantiche che si stavano diffondendo in Italia, in particolare in Italia settentrionale, negli anni '10 e '20 del XIX secolo.

Sul romanticismo
AutoreAlessandro Manzoni
1ª ed. originale1846
Generesaggio
Lingua originaleitaliano

Composizione e analisi modifica

Composizione modifica

La lettera, scritta nel 1823 ed indirizzata al nobile piemontese (e futuro suocero) Cesare d'Azeglio, fu successivamente rivista nel 1846 e nel 1870, quando la parte relativa alla funzione della letteratura secondo il romanticismo, che in questa sede si analizzerà, venne sempre più a scomparire[2]. La lettera - se si tiene conto della versione del 1823 - è composta in due momenti, essenzialmente: in una pars destruens, in cui si analizza la querelle tra classicisti e romantici sulla validità dell'uso della mitologia nella poesia con conseguente vittoria dei romantici; ed in una pars construens, in cui si evidenzia lo scopo civile della letteratura secondo il movimento romantico[3].

Analisi modifica

 
Alessandro Manzoni in un ritratto di Carlo Gerosa.

Il rifiuto della mitologia modifica

Manzoni ritiene assurdo l'uso della mitologia, massicciamente presente nella poesia neoclassica, perché crea una letteratura d'evasione, elaborata secondo l'imitazione acritica, pedissequa e anacronistica dei classici. Inoltre, egli ritiene che la mitologia esprima le idee del mondo pagano e la sua morale religiosa, basata sulla convinzione che i piaceri, i desideri e le cose terrene portino alla salvezza: non ha quindi senso parlare della mitologia se non si crede nelle idee che essa esprime[4]:


«Ma la ragione, per la quale io ritengo detestabile l’uso della mitologia, e utile quel sistema che tende ad escluderla è [...] che l’uso della favola è idolatria [...] E come fa questo la mitologia? Entrando, per quanto è possibile, nelle idee degli uomini, che vedevano un dio in ognuna di quelle cose; usando del loro linguaggio, tentando di fingere una credenza a ciò, che quelli credevano; ritenendo in somma dell’idolatria tutto ciò che è compatibile con la falsità riconosciuta di essa.»

Per questo motivo, inoltre, la mitologia mal si presta a coesistere con la religione Cristiana, che durante il Romanticismo aveva ritrovato l'appoggio spirituale dei letterati.

Il rifiuto dell'imitazione modifica

Inoltre, Manzoni critica fortemente l'imitazione dei classici, intesa non come studio per la cultura generale e per il tirocinio d'apprendistato della letteratura da parte delle nuove generazioni, quanto invece l'assolutizzazione del loro insegnamento nell'invenzione dei generi letterari, quasi come se tutta l'arte si fosse ridotta alle civilità greca e romana[2]:

«Quello che i Romantici combattevano, è il sistema d'imitazione, che consiste nell'adottare e nel tentare di riprodurre il concetto generale, il punto di vista dei classici, il sistema, che consiste nel ritenere in ciascun genere d'invenzione il modulo, ch'essi hanno adoprato, i caratteri che ci hanno impressi, la disposizione, e la relazione delle diverse parti; l'ordine e il progresso de' fatti, ecc. Questo sistema d'imitazione, dei quale ho appena toccati alcuni punti; questo sistema fondato sulla supposizione a priori, che i classici abbiano trovati tutti i generi d'invenzione, e il tipo di ciascheduno, esiste dal risorgimento delle lettere; forse non è stato mai ridotto in teoria perfetta, ma è stato ed è tuttavia applicato in mille casi, sottinteso in mille decisioni, e diffuso in tutta la letteratura»

L'utile, il vero ed il dilettevole romantico modifica

Davanti alla "monumentalità" dell'arte classica, trita sempre nelle stesse convinzioni, Manzoni contrappone invece la freschezza del romanticismo, il quale è un movimento inteso per il popolo che sente estranea la compagine classica dei miti e delle leggende[2]. Di conseguenza, ai lettori interessa che il diletto che ne consegue sia tratto da un vero che sia la realtà che le persone vivono ogni giorno:

«...il falso può bensì dilettare, ma questo diletto, questo interesse è distrutto dalla cognizione del vero; è quindi temporario e accidentale [...] Ma il vero storico e il vero morale generano pure un diletto; e questo diletto è tanto più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che lo gusta è avanzata nella cognizione del vero: questo diletto adunque debbe la poesia e la letteratura proporsi di far nascere.»

Conoscendo il vero, i lettori possono educarsi ad un'etica civile e morale (ecco la funzionalità dell'utile) che viene elaborata attraverso un'opera letteraria che sia capace di essere interessante e, di conseguenza, dilettevole grazie allo strumento dell'arte. Non rinunciando così alla componente civile e morale propria della tradizione lombarda (Giuseppe Parini e Cesare Beccaria), Manzoni formula quel concetto tripartito che sarà alla base de I promessi sposi[5] e che è alla base della poetica manzoniana in generale:

«Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso, mi sembra poter essere questo: che la poesia, e la letteratura in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto, e l'interessante per mezzo.»

Note modifica

  1. ^ Tellini, p. 160.
  2. ^ a b c Ferroni, p. 238.
  3. ^ Tellini, pp. 161-162.
  4. ^ Mancini.
  5. ^ Tellini, p. 163 e Mancini

Bibliografia modifica

  • Giulio Ferroni, Il Romanticismo e Manzoni: Restaurazione e Risorgimento (1815-1861), a cura di Giulio Ferroni, Andrea Cortellessa, Italo Pantani e Silvia Tatti, collana Storia della Letteratura Italiana, vol. 10, Milano, Mondadori, 2006, SBN IT\ICCU\CAG\1255837.
  • Gino Tellini, Manzoni, Roma, Salerno, 2007, ISBN 978-88-8402-572-2.

Voci correlate modifica

Altri progetti modifica

Collegamenti esterni modifica

  • Massimiliano Mancini, Sul Romanticismo, su internetculturale.it, InternetCulturale. URL consultato il 27 novembre 2019.
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