Utente:PrincipeRoby/Opere nella chiesa dei Santi Faustino e Giovita

L'interno della chiesa

Le opere nella chiesa dei Santi Faustino e Giovita a Brescia sono un'importante testimonianza dell'arte bresciana di inizio Seicento in campo decorativo, pittorico e scultoreo. Ad esse si affiancano altri lavori più tardi, soprattutto settecenteschi, di notevole valore artistico.

Affreschi modifica

Gli affreschi delle navate modifica

 
L'affresco della volta centrale, opera di Tommaso Sandrino. Il riquadro centrale è stato invece dipinto da Antonio e Bernardino Gandino

Tutti i soffitti dell'aula, sia della volta centrale che delle volte laterali, sono completamente affrescati con le architetture illusionistiche e le scene di Tommaso Sandrino[1]. L'esteso affresco sulla navata maggiore è composto da una balaustrata continua, sorretta da mensoloni, sulla quale poggiano possenti colonne tortili con capitello composito, sorreggenti una trabeazione a dentelli e un soffitto aperto sul cielo nel riquadro centrale. Quest'ultimo è inoltre evidenziato da una finta modanatura mistilinea. La balaustra di base non è lineare, ma segue un continuo sali-scendi di finte scale che scavalcano le finestre a lunetta aperte alla base della volta. Il tutto è infine largamente arricchito da vari decori e motivi architettonici. Opera di Antonio Gandino e suo figlio Bernardino è invece il grande riquadro centrale della navata maggiore, con la Gloria dei santi martiri Faustino e Giovita[1]. Nell'affresco sono raffigurati i due santi mentre salgono al cielo al cospetto della Trinità: il Padre e il Figlio siedono sulle nubi, mentre lo Spirito Santo irrompe dall'alto contornato da una grande e luminosissima raggiera, molto ben resa[1]. La scena si svolge fra un tripudio di angeli musicanti, collocati su tre distinti livelli: il più basso, in primo piano, è molto fitto e centrato sulla figura di un angelo che suona un organetto; il secondo accompagna i due santi nella salita, fra le nuvole; l'ultimo è un'affollata corona di angeli ai piedi della Trinità, resi eterei dalla forte luce proveniente da questa. I due santi in ascesa indossano candide vesti trasparenti e svolazzanti e portano la stola alla maniera sacerdotale Faustino e diaconale Giovita, in modo da rendere specifica l'identità di ciascuno secondo i dati della tradizione[1].

Opera di Camillo Rama[2], invece, sono i quattro grandi riquadri a monocromo grigio posti sulla parete della navata centrale al di sopra delle colonne binate del colonnato a serliane. Raffigurano Episodi del leggendario viaggio dei santi Faustino e Giovita: il riquadro con la scritta "BRIXIAE" li mostra confortati da Gesù durante la loro prigionia, salvati dagli angeli nei riquadri con la scritta "MEDIOLANI" E "NEAPOLI" e sottratti alle belve del Colosseo in quello con la scritta "ROMAE". Le quattro scene sono abilmente trattate dalla mano del pittore che, nonostante la ripetitività del soggetto, trovano sicurezza ed effetto nelle solide linee di fondo e nella forte monumentalità dei personaggi rappresentati[2].

Come detto, anche i soffitti delle navate laterali, coperte da volte a crociera in successione, sono affrescati da Tommaso Sandrino, il quale, pur con minore spettacolarità, riesce comunque a predisporre spazi ben calibrati[3] dove poter inserire i riquadri narrativi, opera invece di diversi autori. Le cornici del Sandrino sono sempre a tema architettonico e abbastanza unitarie nella rappresentazione: vi sono comunque piccole variazioni, limitate a decori e modanature[3]. La prima volta a destra reca un volo di Angeli in gloria con incensieri, opera di incerta attribuzione fra Camillo Rama e Antonio Gandino[3]. Il secondo riquadro è il Martirio al cavalletto dei santi patroni, assegnabile al Rama per via della forte drammaticità e monumentalità delle figure[3], mentre il terzo e ultimo, un gruppo di Angeli musicanti, è ancora di incerta attribuzione fra i due pittori prima citati[3]. La lunetta sulla contro-facciata raffigura San Michele arcangelo che scaccia Lucifero dal paradiso, opera di Ottavio Amigoni, allievo del Gandino[4], mentre la lunetta di fondo è il Battesimo di sant'Afra, nuovamente di incerta attribuzione fra i due pittori[4]. La navata sinistra è decorata da analoghe cornici del Sandrino e da altri tre riquadri sulle volte a crociera, anche in questo caso di difficile attribuzione: il primo, partendo dalla contro-facciata, è una Assunzione di Maria opera probabilmente di Ottavio Viviani, mentre gli altri due, l'Ascensione di Gesù al centro e San Benedetto in gloria, possono essere ascritti ancora a Camillo Rama o ad Antonio Gandino[4]. La lunetta di fondo è stata realizzata nel 1925 da Vittorio Trainini[4], che vi ha raffigurato il Transito della Vergine Maria ridipingendo il sottostante affresco, dal medesimo soggetto, di Pietro Ricchi[4].

Di Ottavio Amigoni sono le due grandi figure di San Gregorio Magno e Sant'Onorio affrescate sulla parete di contro-facciata, ai lati dell'ingresso principale[4].

L'opera di Giandomenico Tiepolo modifica

 
Vista dell'affresco dalla navata centrale
 
Uno degli affreschi laterali

Dopo l'incendio che distrusse la zona presbiterale della chiesa nel 1743, causando la perdita dei dipinti di Lattanzio Gambara, la volta e le pareti richiesero una nuova decorazione, evidentemente all'altezza di quella andata perduta. Il giovane ma ormai formato Giandomenico Tiepolo viene chiamato ad assumere l'incarico una decina di anni dopo e, fra il 1754 e il 1755, affresca la volta e le pareti del presbiterio realizzando un'opera di altissimo valore artistico. Ancora oggi, sostanzialmente, i dipinti del Tiepolo sono fra le maggiori opere custodite nella chiesa, se non la più importante[5].

L'affresco, raffigurante l'Apoteosi dei Santi Faustino, Giovita, Benedetto e Scolastica, copre l'intera volta del presbiterio della chiesa ed è ben visibile soprattutto dai gradini alla base di quest'ultimo, sebbene gran parte dell'opera appaia già all'inizio della navata. I quattro santi sono disposti lungo una linea comune che, dal basso, sale man mano verso l'alto seguendo una leggera curvatura nel tratto finale, culminando poi nei pressi del cielo, raffigurato al centro mediante uno sfondato prospettico. Per primo si trova san Faustino, seguito da san Giovita, titolari della chiesa e patroni della città. La terza figura è san Benedetto, mentre santa Scolastica chiude la sequenza. Ogni santo è condotto al cielo da un intrico di angeli, nuvole e stendardi, ben evidenti attorno San Faustino, più labili man mano si sale, mentre altre figure celesti volano sparse attorno alla scena.

La figurazione, anziché essere risolta nel finto sfondato prospettivo della volta a vela di copertura, dove è posto il cielo, fuoriesce mediante una sapiente e ben organizzata soluzione[6], dove le nuvole del cielo, sulle quali volteggiano gli angeli, "coprono" con abile illusione prospettica un'estesa area della finta architettura circostante, cioè il cassettonato dell'intradosso dell'arcone che sostiene la volta, parte della trabeazione e delle cimase che fanno da coronamento perimetrale allo sfondato prospettico centrale e anche una delle statue, finte a loro volta, che decorano i pennacchi. A contorno della scena centrale sono appunto queste prime decorazioni perimetrali e le quattro finte statue, in cui sono rappresentati a monocromo i quattro Padri della Chiesa Latina: san Gregorio Magno, sant'Agostino, sant'Ambrogio e san Girolamo. La figura di quest'ultimo è quella coperta dalla "nuvola" che discende dal centro della volta ed è riconoscibile solamente attraverso il leone, simbolo del santo, che si intravede alla base del piedistallo fittizio.

In particolare nel corso del Novecento, nel mondo della critica artistica è nato e si è sviluppato un fitto dibattito circa la datazione dell'opera e, soprattutto, riguardo alla corretta attribuzione degli affreschi, difficilmente ascrivibili alla sola mano di Giandomenico. I numerosi studi succedutisi fino all'ultimo decennio del secolo hanno portato alla conclusione, oggi pressoché unanime, che numerose idee di fondo, così come accorgimenti prospettici e compositivi, siano da ricondurre al padre Giambattista Tiepolo, mentre la pura esecuzione dell'opera sia senza dubbio di Giandomenico[6]. Il problema della datazione, invece, è stato risolto con maggiore sicurezza dopo la scoperta di alcuni documenti che indicavano con chiarezza il periodo di esecuzione dei dipinti[7].

L'opera di Giandomenico Tiepolo, oltre alla volta del presbiterio, comprende anche i due muri perimetrali sottostanti, dove il pittore pone due grandi affreschi incentrati su scene fondamentali del culto dei santi titolari: il Martirio dei Santi Faustino e Giovita e l'Intervento dei santi patroni in difesa di Brescia assediata da Nicolò Piccinino. Il primo raffigura, appunto, l'istante in cui i due santi furono martirizzati, poco fuori dalle mura cittadine: nella parte sinistra dell'affresco è raccolto un gruppo di uomini che assiste all'imminente decapitazione di uno dei due santi, probabilmente Giovita, mentre a destra si nota l'altro santo, forse Faustino, in atteggiamento di preghiera. Il secondo affresco raffigura invece l'apparizione dei due santi sugli spalti del Roverotto durante l'assedio del 1438, che mise in fuga l'esercito milanese guidato da Niccolò Piccinino. Le figure dei patroni sono a sinistra, vestite in abito da milite romano e circondate da un'aura lucente. Piccinino si trova invece all'estrema destra, su un cavallo bianco, in atteggiamento di "dietro-front". Fra i due si pone la tumultuosa battaglia fra gli eserciti.

La qualità artistica e compositiva dei due affreschi[8], relativamente alla sovrastante Apoteosi e soprattutto nel Martirio, è abbastanza mediocre, il che ha portato la critica del Novecento ad ipotizzare un aiuto del padre Giambattista nell'organizzazione dell'affresco della volta[9]. Con la scoperta di alcuni modelletti preparatori, comunque, si è oggi giunti alla conclusione che, anche per questi due affreschi, Giandomenico si ispirò all'opera paterna[6][10].

Gli affreschi del Colonna modifica

 
Un dettaglio degli affreschi di Girolamo Mingozzi

Le decorazioni ad affresco delle pareti e del soffitto del coro della chiesa, concluso da un'abside piatta, sono opera di Girolamo Mingozzi detto il Colonna[6], realizzati molto probabilmente negli stessi anni in cui il Tiepolo lavorava sui muri adiacenti, dunque fra il 1754 e il 1755. L'ipotesi viene dedotta dal fatto che il finto cassettonato coperto dalle nuvole del Tiepolo è opera sua, quindi è verosimile che i due affreschi siano stati realizzati nello stesso momento[6]. Gli altri dipinti del Mingozzi sono la finta cupola sorretta da colonne dipinta sulla volta a vela absidale, i quattro medaglioni con i simboli degli evangelisti nei finti pennacchi e l'elegantissima[6] decorazione delle due pareti laterali, dove il pittore pone delle finte tribune munite di ringhiera e ante semiaperte, dalle quali si affacciano alcune figure. Il tutto è dipinto con scioltezza e realismo ed è incorniciato da un ordine architettonico arricchito di simboli contrapposti, che rimandano a significati simbolici dell'Antico e del Nuovo Testamento[6]. Sono anche presenti nuvole di consistenza tridimensionale, dotate di una propria ombra e con angeli svolazzanti, che circondano i vari elementi e fuoriescono dalle cornici, chiaro rimando alla grande decorazione illusoria del Tiepolo che si apre a pochi metri.

Opera del Colonna[6] è anche la decorazione delle pareti sotto le cantorie, dove dipinge realistiche nicchie contenenti finti cartigli in marmo recanti la figura di san Benedetto a sinistra e di santa Scolastica a destra, il tutto accompagnato ai lati da motivi geometrici e floreali.

Altari e cappelle laterali modifica

La chiesa ospita, come già detto, sei altari laterali: cinque sono nelle navate, il sesto è nella cappella di fondo della navata sinistra. La cappella speculare, in testata alla navata destra, fa invece da battistero. Fra gli altari, due (San Benedetto e Crocifisso) risalgono alla prima metà del Seicento e, pertanto, al grande cantiere di ricostruzione della chiesa, due (Natività e Santissimo Sacramento) alla seconda metà del secolo, uno (Santa Maria in Silva) al Settecento e l'ultimo (Santa Croce) all'Ottocento.

Altare della Santa Croce modifica

 
Altare della Santa Croce
 
Cappella del Crocifisso
 
Altare di San Benedetto

Il primo altare destro è dedicato al culto della Santa Croce. In origine, almeno dal Seicento in poi, in questa posizione era situato un altare dedicato a san Michele arcangelo e a Sant'Antonio di Padova[11], come si può leggere in varie guide antiche[12]. L'altare attuale viene costruito nel 1828 per accogliere la reliquia della Vera Croce ceduta alla parrocchia nel 1826. Non è noto l'autore e l'attribuzione a Rodolfo Vantini non è supportata da fonti archivistiche, anche se è verosimile che, per un altare di ruolo così importante, sia stato chiamato il principale architetto bresciano dell'epoca[13].

L'altare è impostato su linee marcatamente neoclassiche, con mensa dell'altare in breccia rosata coperta da un ripiano in marmo di Carrara e ancona retrostante decorata da due gruppi di colonne ioniche binate in breccia rosata ornate da basi e capitelli dorati. Concludono la composizione una trabeazione e un frontone triangolare. Sul fregio, a grandi lettere classiche dorate è posta l'iscrizione "DOMINVS REGNAVIT A LIGNO", a significare che la Croce è il trono di Cristo[13]. L'eleganza della composizione, già notevole per l'alternanza di breccia rosata e marmo bianco, è rafforzata da numerosi inserti dorati, che completano l'alta raffinatezza dell'altare[13].

Sopra la cornice del frontone, a coronamento, sono posizionate tre statue: due angeli laterali inginocchiati e la figura del Cristo risorto centrale, opera di Gaetano Matteo Monti e caratterizzate da un forte rigore accademico neoclassico[14]. Il centro dell'ancona, invece, è occupato da una nicchia incorniciata da lesene e conclusa da un arco a tutto sesto con prominente chiave di volta, il tutto decorato da raffinati motivi decorativi in oro quali candelabre, racemi e nastri svolazzanti. Un'inferriata dorata, con motivi ornamentali molto fitti, chiude la nicchia, all'interno della quale è posizionato il grande reliquiario a forma di crocifisso contenente la reliquia. Quest'ultimo, fra l'altro, non è l'originale ma è stato fabbricato ex-novo per l'altare: il reliquiario originale, risalente alla fine del Quattrocento, è oggi conservato nel tesoro della chiesa[14].

Altare della Natività modifica

Il secondo altare destro, oltre la bussola lignea dell'ingresso laterale, è dedicato alla nascita di Gesù ed è quindi detto della Natività. L'altare è costituito da un grande apparato scenografico barocco, completamente assegnato alla mano di Santo Calegari il Vecchio[15]. È molto imponente, dinamico ed elegante sia per le soluzioni architettoniche adottate, sia per la profusione di marmi policromi[15]. È composto da due coppie di colonne di breccia grigia e rosata, impostate su alti piedistalli adornati di marmi intarsiati, completate da capitelli compositi e sorreggenti un'articolata trabeazione, sulla quale poggia un frontone "a capanna", cioè sopraelevato mediante elaborate mensole in modo da lasciare libero uno spazio centrale. La cornice del frontone segue poi un profilo ad arco ribassato.

Nello spazio centrale citato è collocato uno scudo in marmo bianco molto frastagliato e denso d'ornamentazione, con testine d'angeli, racemi ed encarpi, contornante la colomba dello Spirito Santo che irrompe dall'alto. Lo sfondo dove è posta la colomba, fra l'altro, è posizionato in modo da raccogliere la luce che proviene dalla grande finestra retrostante l'altare: la luce dalla quale sembra scendere la colomba, pertanto, è proprio luce solare. Ai lati del grande frontone sono posti, inginocchiati sulla trabeazione, due angeli in contemplazione, mentre un altro angelo più piccolo è seduto in sommità alla cornice e reca un lungo nastro svolazzante con l'iscrizione dedicatoria.

La mensa dell'altare, alla sua base, è decorata ai lati da due putti in marmo e contiene, dietro un'inferriata, l'urna funeraria di sant'Antigio, con incisa la dedica "S. ANTIGY / EP."[16]. La pala dell'altare è invece la grande Natività di Gesù di Lattanzio Gambara, generalmente considerata il suo capolavoro[17].

Il battistero modifica

La cappella in testata alla navata destra è oggi il battistero della chiesa, ottenuto ricostruendo nel 1949 la precedente cappella dedicata a sant'Onorio[18]. La sistemazione attuale, pertanto, non è quella originale seicentesca, bensì quella assunta dopo il rifacimento. La cappella, di pianta quadrata, è coperta da una cupola raccordata in basso mediante pennacchi. Gli angoli del locale, così come l'accesso, sono decorati da lesene di ordine tuscanico molto semplici. Anche il resto della cappella presenta semplicissime decorazioni: l'intradosso della cupola è decorato con un mosaico di sole tessere dorate, mentre il pavimento presenta un motivo geometrico a cerchi concentrici. Al centro è collocato il fonte battesimale, realizzato nel 1952 dallo scultore Claudio Botta[18]. Si tratta di una vasca cilindrica fasciata da un fregio continuo ad altorilievo, centrata sulla figura di Cristo che risorge dal sepolcro, la cui pietra è sollevata da quattro angeli. L'esecuzione appare ben definita e curata, con diverse e ripetute articolazioni[19]. Interessante anche il tema scelto nella rappresentazione, che vede il battesimo in relazione al concetto teologico della risurrezione di Gesù[19].

Le tre pareti laterali erano state pensate per essere ricoperte da affreschi, infine mai realizzati[19]. La parete sinistra ospita oggi un dipinto di Amedeo Bocchi raffigurante Il battesimo di Gesù al Giordano, eseguito con buona tecnica mediante pennellate molto mosse che conferiscono continue mobilità e increspature[19]. Sulla parete di fondo, invece, è appesa la pala dell'originario altare smontato nel 1949, opera di Bernardino Gandino e realizzata dopo il 1646[20], raffigurante sant'Onorio fra le nubi circondato da angeli, al cospetto del quale sono inginocchiati membri della famiglia Calini, che aveva sostenuto economicamente il rifacimento della cappella nel Seicento[20]. Davanti alla cappella, difatti, si trova ancora la lapide pavimentale del cardinale Lodovico Calini, principale finanziatore della ricostruzione. La lapide è riccamente intarsiata con marmi policromi, mentre l'iscrizione celebrativa è a caratteri in bronzo. Nella cappella, dopo il 1601 e per circa un ventennio, rimase anche il trittico di Sant'Onorio[20], l'antica pala dell'altare già nella cripta sotto il presbiterio, poi sostituita da quella del Gandino. L'opera, fortunatamente, non fu mai venduta né smembrata e trovò infine collocazione stabile al museo di Santa Giulia, dove si trova tuttora.

Cappella del Crocifisso modifica

La cappella in testata alla navata sinistra è dedicata al Crocifisso. L'ambiente assume le caratteristiche ancora oggi visibili durante i rifacimenti seicenteschi, rimanendo sostanzialmente immutato da allora[21]. L'altare, abbastanza semplice e contenuto, riassume le linee generali del vicino altare di san Benedetto, anche dal punto di vista cromatico. Dalla mensa dell'altare si elevano in posizione laterale due colonne di ordine ionico poggianti su piedistalli e reggenti un frammento di trabeazione, sui quali si imposta un frontone ad arco ribassato. Nel grande spazio centrale trova posto un crocifisso ligneo seicentesco, di intaglio piuttosto sommario, curato nei particolari anatomici ma di concezione piuttosto mediocre[22]. Aggiunta ottocentesca è invece lo sfondo a mosaico di tessere dorate con le figure di san Rocco e sant'Antonio di Padova[22]. L'altare sottostante reca come paliotto un'urna funeraria contenente reliquie di martiri non identificati provenienti dai vari altari che occupavano l'antica chiesa, almeno dieci stando ai resoconti delle visite pastorali, e raccolte in unica sepoltura durante la ricostruzione seicentesca[22]. Sopra la mensa, invece, è collocata l'urna con i resti di sant'Onorio, qui spostata nel 1949 dalla cappella opposta che veniva trasformata in battistero[22]. Nella cappella sono infine conservate altre due reliquie, tratte dai resti dei santi patroni Faustino e Giovita e custodite in un elaborato reliquiario fatto costruire appositamente nel 1925 e collocato in un vano incassato nella parete destra della cappella. Ogni anno, il 15 febbraio, alla festività dei due santi, il reliquiario viene estratto e posizionato al centro della navata centrale[22].

Le pareti della cappella sono decorate da numerosi riquadri ad affresco con scene narrative legate alla vita di Gesù. Gli autori sarebbero nuovamente Tommaso Sandrino per le finte cornici architettoniche e Antonio Gandino e Camillo Rama per le scene raffigurate[21]. Tutti i dipinti, comunque, sono stati restaurati e completati da Vittorio Trainini e dal figlio Giuseppe tra il 1923 e il 1930[21]. Le figurazioni sono così distribuite: sul lato sinistro, la Flagellazione di Gesù in alto e, ai lati della porta di servizio, Santa Dorotea e sinistra e Sgherro della strage degli innocenti a destra[21]. Analogamente, sulla parete destra si ha la Coronazione di spine in alto e, ai lati del vano dove è posto il reliquiario, altri due Sgherri[23]. La breve volta a botte di copertura è divisa in tre settori: nel sinistro si ha il Compianto sul Cristo deposto dalla croce, nel destro la Riposizione di Gesù nel seplocro. Il settore centrale, invece, presenta una finta cupoletta sfondata sul cielo dove è raffigurata l'Ascensione di Gesù[23].

L'altare della cappella è al centro di un'inconsueta tradizione popolare: siccome il teschio di sant'Onorio presenta una frattura verticale, per tradizione si vuole che la sua devozione porti sollievo al mal di testa. È quindi consuetudine, soprattutto durante la festività dei santi patroni, che i fedeli preghino all'altare infilando la testa in una delle due nicchie che si aprono sui fianchi dell'altare, a quanto pare da sempre utilizzate per questo scopo[24].

Altare di San Benedetto modifica

Il terzo altare sinistro è dedicato a San Benedetto. L'apparato viene costruito nel 1649[25] con il proposito di potervi trasferire la reliquia del braccio del santo, portata a Brescia secoli prima dall'abbazia di Montecassino in cambio di identica reliquia prelevata dal corpo di san Faustino[25]. La reliquia, custodita nel Duomo nuovo, in realtà non verrà mai traslata nell'altare a causa della morte, avvenuta l'anno successivo, dell'abate Orazio Barbisoni, principale promotore dell'iniziativa (aveva anche sovvenzionato la costruzione dell'altare) e delle trattative con il Capitolo del Duomo, che non verranno riprese dai successori[25]. L'altare pertanto, viene destinato ad accogliere reliquie di altri santi benedettini, fra cui la mascella di San Placido[25]. L'altare, molto scenografico, è opera dello scultore Giovanni Carra[25], figlio di Giovanni Antonio Carra, una delle principali figure nel panorama artistico della chiesa all'epoca della grande ricostruzione seicentesca. Il Carra realizza le parti propriamente scultoree ma, probabilmente, si occupa anche della cornice architettonica, poiché nella sua firma, sul basamento della statua centrale, si legge chiaramente "IOAN CARRA / CIVIS BRIXIAE / INVENTOR / ET SCVLPTOR", che sembrerebbe quindi alludere all'esecuzione dell'intero apparato[25].

L'apparato prende corpo da un altare abbastanza semplice, composto da un parallelepipedo con mensa poco aggettante e affiancato da due elaborati angeli a cariatide, con capitelli ionici sul capo e reggenti la mensa. L'apparato si dilata poi maestosamente nell'ancona molto mossa e prospettica, incorniciata da due colonne seguite da semicolonne quadre e lesene sul fondo, poggianti su cospicui dadi. Il coronamento è molto elaborato, con un frontone spezzato ad arco ribassato e volute interne. Come coronamento è posto un grande stemma con incisa la scritta HUMILITAS. L'elegante cromia dell'altare è interamente impostata su una sapiente alternanza di marmo nero e bianco, che ne accresce la singolarità. Nel grande riquadro centrale, chiuso in sommità da un arco a tutto sesto, è posizionata la forse più singolare pala nella storia artistica cittadina[26][27]: una statua di San Benedetto inginocchiato e orante, con ai piedi il bastone pastorale, la mitria e un corvo che offre al santo un pane tenuto nel becco. Sul fondale della nicchia è posto un affresco raffigurante un volo d'angeli e l'abbazia di Montecassino, opera di Sante Cattaneo, il quale si sarebbe però limitato a ridipingere un identico tema già presente[28].

La statua di San Benedetto meraviglia immediatamente per l'estrema cura nei particolari della veste e del volto e, in verità, anche per "l'impressione piuttosto funerea che produce"[26]. Giulio Antonio Averoldi invita ad apprezzare in visione ravvicinata «... la minutezza, e delicatezza dell'onde, pieghe, crespe, e grinciature, o sia, come noi diciamo, stoccatura, con cui è condotta la maestosa Cocolla del Santo Patriarca Benedetto»[29]. Giovanni Vezzoli indica invece il volto del santo, «... improntato ad una dura severità, con fattezze però abbastanza vive e reali, da fare pensare a un ritratto»[30].

Il tabernacolo al centro della mensa, che avrebbe dovuto ospitare la reliquia del braccio di san Benedetto, ospita invece quelle di altri santi Benedettini. Ai lati dell'altare, sul muro di fondo della cappella, sono murate due lapidi celebrative in marmo nero con iscrizioni in oro: quella a destra ricorda la donazione dell'abate Orazio Barbisoni per la costruzione dell'altare, mentre quella a sinistra ricorda la traslazione delle reliquie di san Placido e altri santi benedettini avvenuta nel 1653[31]. Sulle pareti laterali della cappella, infine, sono affrescate numerose altre iscrizioni e figure di santi, alcune opera di Tommaso Sandrino e altre, eseguite alla metà del secolo in concomitanza con la costruzione dell'altare, di ignoto autore[32].

Cappella del Santissimo Sacramento modifica

Fra gli altari posti ai muri delle due navate laterali, escludendo quindi la cappella del Crocifisso, quello dedicato al Santissimo Sacramento, il secondo a sinistra, è l'unico ad essere inserito in una cappella propria, con gradini e balaustra d'accesso. La costruzione dell'altare, di competenza della Scuola del Santissimo Sacramento anticamente attiva nella chiesa, seguì un percorso molto lungo e ricco di vicende, durato quasi ottant'anni, dall'inizio agli ultimi anni del Seicento, dovuto soprattutto alle quattro, grandi colonne che lo adornano, colonne che, secondo i desideri della Scuola, sarebbero dovute essere blocchi monolitici[33]. Tutti gli obiettivi, alla fine, furono raggiunti e l'altare poté essere finalmente inaugurato nel 1696[33]. Alla costruzione dell'altare partecipò anche Giuseppe Cantone, l'architetto della facciata della chiesa[34].

L'apparato si presenta modestamente barocco, molto semplice, con un alto piedistallo sul quale poggiano le quattro colonne monolitiche in breccia grigia e rosata, reggenti una trabeazione e un frontone spezzato ad arco ribassato. La preziosità assente nell'ancona è però largamente recuperata nei finissimi intarsi a marmi multicolori del tabernacolo e del paliotto, dove sono utilizzate anche numerose gemme. Quest'ultimo si può annoverare fra gli interventi del Cantone nella cappella, compresa la ricca balaustra d'accesso, con marmi policromi intarsiati e festoni a motivo vegetale quasi cesellati[35]. Opera di Giovanni Carra e del fratello Carlo, invece, sono le due statuette raffiguranti i santi patroni a lato del paliotto prima descritto[35]. Le pareti laterali sono invece ricoperte da affreschi più tardi, eseguiti nel 1744, così come il soffitto della cappella, dove sono riprese le architetture illusorie utilizzate dal Sandrino nelle coperture della chiesa[35].

La pala dell'altare della cappella era originariamente il Compianto sul Cristo morto eseguito tra il 1520 e il 1530 dal Romanino[36]. Il dipinto, largamente lodato dalla letteratura artistica antica[37], viene requisito nel 1797[36], dopo la soppressione del monastero, e venduto a privati. Nel 1841 arriva al Kaiser Friedrich Museum di Berlino, dove andrà distrutto per eventi bellici nel 1945[36]. Al suo posto, nel 1808[38] viene commissionata una tela sostitutiva a Sante Cattaneo, che esegue la Deposizione di Cristo tuttora presente e collocabile fra le sue migliori opere[38]. Nella cappella, appeso sulla parete, trovava posto anche lo stendardo processionale del Santissimo Sacramento sempre del Romanino, che fortunatamente si salvò dalle requisizioni ed è ancora esposto nella chiesa (vedi dopo). Attualmente, alle pareti della cappella sono appese due tele ottagonali: a destra l'Incontro di Abramo con Melchisedek attribuito a Pietro Avogadro e, a sinistra, la Raccolta della manna di un pittore ignoto del Seicento[38].

Altare di Santa Maria in Silva modifica

Il primo altare sinistro è dedicato, piuttosto che alla sola Madonna, a Santa Maria in Silva, in omaggio all'intitolazione che la chiesa aveva alle sue origini. L'altare viene costruito durante la prima metà del Settecento in sostituzione a uno precedente, in legno, e completato nel 1726[39]. Si compone di un enorme apparato scenografico, estremamente ricco di dettagli e motivi decorativi, caratteristica tipica del barocco avanzato. Il materiale utilizzato è prevalentemente breccia rossa con incorniciature in marmo bianco. La mensa alla base ha un paliotto privo di decorazioni ma affiancato da due piccole edicole entro cui sono collocate due statuette in marmo raffiguranti i profeti Isaia e Osea. Le due statuette, fra l'altro, furono trafugate nel 1975 e vennero pertanto sostituite da copie. In seguito, gli originali furono fortunatamente recuperati, ma non più ricollocati: le statuette visibili sull'altare, quindi, sono ancora le due copie[40].

Sopra la mensa si innalza l'ancona con colonne binate di ordine composito, poggianti su alti piedistalli e reggenti un'articolata trabeazione, dalla quale si sviluppa un frontone subito interrotto e rimodellato in volute per lasciar posto a una grande edicola centrale, poggiante sulla trabeazione stessa. L'edicola è conclusa in sommità da un'elaborata cimasa con un cartiglio recante l'iscrizione dedicatoria, "AVXILIVM CRISTIANORVM", affiancata da due vasi con foglie di palma. Sulle due volute siedono due putti, mentre l'edicola contiene un dipinto raffigurante il Padre eterno con il globo del mondo sorretto da angeli, opera di Antonio Cifrondi. Al centro dell'ancona, in una nicchia, è collocata la statua in legno della Madonna. La nicchia, a sua volta, è incorniciata da una raffinata e dettagliata cornice con colonne tortili sempre in breccia rossa poggianti su mensoloni e reggenti una piccola trabeazione curvilinea, sulla quale sono posati due angeli che tengono una corona d'oro, il tutto arricchito da altri motivi decorativi. L'effetto cromatico complessivo è assolutamente notevole: alla scintillante lucentezza dei materiali lapidei si aggiunge la doratura della statua, dei pinnacoli, della corona e delle palme, oltre alle cromie della tela del Cifrondi[40]. Gli inserti scultorei più importanti dell'altare sono assegnabili alla mano di Antonio Calegari, mentre il resto è attribuibile alla sua bottega[40].

Di pregevolissima fattura e concezione è la statua della Madonna con il Bambino e San Giovanni Battista attorno alla quale ruota l'intero apparato, opera di Paolo Amatore, artista vissuto all'inizio del Seicento dalla biografia abbastanza vaga[41]. La statua, pertanto, non viene realizzata assieme all'altare, ma è precedente, mantenuta perché legata a una forte venerazione[41]. L'opera, in legno intagliato dorato e dipinto, raffigura la Madonna con una veste dorata e decorata da motivi vegetali verdi e rossi, sulla quale ricade una lunga stola rossa a motivi dorati. Il Bambino, che tiene in braccio, indossa il medesimo abito ma senza la stola. Ai piedi della statua è posto il diavolo, che la Madonna sta calpestando con assoluta indifferenza. A lato è invece posto San Giovanni Battista fanciullo, anch'egli con un piede sul demonio. Questo San Giovanni, però, sarebbe un'aggiunta ottocentesca[41]. L'opera ha sempre trovato ottimi giudizi nella critica secolare: Francesco Paglia, nel suo Giardino della Pittura, non cita nemmeno l'altare (non vede questo, ma il precedente in legno) e concentra il suo discorso sulla statua, facendo intervenire le personificazioni della Pittura e della Poesia in un dialogo colmo di lodi che coinvolgono anche l'autore "Paolo Amator, quale possedeva un talento particolare nelle Idee, e nella grazia con cui rendeva le sue figure ripiene di maestà, e di vaghezza"[42]. Anche Antonio Morassi, nel 1939, non esita a classificare l'Amatore come "uno dei migliori scultori bresciani del suo tempo"[43]. La qualità artistica della statua, composta e pacata nell'atteggiamento di calpestare un demonio inferocito e ribelle, è infatti altissima, ottimamente resa nella sua indifferenza e maestosità[41].

Quadri, sculture e altre opere modifica

L'arca dei Santi Faustino e Giovita modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Arca dei santi Faustino e Giovita.
 
L'arca sepolcrale dei santi patroni in una vista frontale

Il grande sepolcro, che fa da altare maggiore alla chiesa, è opera dello scultore Giovanni Antonio Carra, che la realizzò fra il 1617 e il 1622 in sostituzione alla precedente. Ancora oggi, l'arca contiene i resti dei santi Faustino e Giovita, titolari della chiesa e patroni della città. Il gusto decorativo del sepolcro è pienamente barocco e la sua elevata qualità artistica e compositiva ne fanno un'opera d'arte assolutamente pregevole. L'arca, data la sua funzione di custodia delle reliquie dei due santi patroni di Brescia, possiede in aggiunta un forte significato religioso. È principalmente in marmo di Carrara variamente intarsiato con marmo nero e altre pietre multicolori. Sull'estrema sommità reca le figure in bronzo dei santi patroni sovrastati da una croce a doppia traversa, su modello della reliquia della Santissima Croce conservata nel tesoro delle Sante Croci del Duomo vecchio. Sul coperchio siedono invece due figure allegoriche femminili in marmo di Carrara, non identificate da attributi connotativi, ma che dovrebbero raffigurare, a quanto emerge dai documenti, la Fortezza e la Fede[44]. Giovanni Vezzoli[45] ipotizza invece che si tratti delle raffigurazioni simboliche di Brescia e Venezia, poiché la figura di destra è rivestita da una corazza e tiene sulle ginocchia un piccolo leone, simbologia adatta a definire Brescia. La statua opposta, però, non mostrerebbe alcunché per poterla identificare con Venezia[46].

Al centro dell'arca, sia sul fronte sia sul retro, sono posti due tondi in marmo nero circondati da un fregio, sui quali spiccano, a caratteri d'oro, le iscrizioni celebrative dei due santi martiri. Fanno poi da ali all'arca quattro statue originariamente concepite come sostegno del baldacchino che coronava la composizione, distrutto dall'incendio del 1743. Le due più esterne raffigurano la Fede a sinistra e la Speranza a destra, mentre le due interne, recanti solamente una corona d'alloro e una foglia di palma[46], possono essere identificate come Vittorie, a motivo delle palme e delle corone che reggono, il che sarebbe un'iconografia più adatta ad esaltare la gloria del martirio[46].

Il gallo di Ramperto modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Gallo di Ramperto.

Il gallo di Ramperto è un galletto segnavento realizzato nell'anno 820 o 830 per adornare la sommità del campanile della chiesa su commissione del vescovo Ramperto, da cui il nome, probabilmente come dono a quella comunità religiosa che già si stava formando attorno al culto dei patroni e che, circa vent'anni più tardi, formalizzerà fondando il monastero. Il gallo viene rimosso dalla sua postazione solo nel 1891, dopo più di mille anni, per essere restaurato e conservato nel museo cittadino, oggi Museo di Santa Giulia, dove ancora si trova.

L'opera ha attraversato i secoli quasi indenne: solamente la piume della coda, in origine molto più folte, sono oggi poche e diradate, a causa dei danni provocati dai soldati francesi che, nella seconda metà dell'Ottocento, nel monastero ormai ridotto a caserma, si divertivano a sparare contro il gallo in cima al campanile[47]. Ciò, purtroppo, ha portato alla perdita dell'iscrizione dedicatoria fatta apporre da Ramperto proprio sulle piume, iscrizione che fortunatamente era già stata ricopiata più volte dal Quattrocento in poi[48]. Il manufatto è stato al centro di numerosi dibattiti, dal Settecento[49] in avanti, circa la sua autenticità, soprattutto a causa della data di fabbricazione che era riportata sull'iscrizione, l'anno 820, poiché l'elezione di Ramperto a vescovo di Brescia la si collocava proprio in quegli anni o addirittura oltre[50], mettendo in dubbio l'epigrafe.

Il recupero, nella seconda metà del Novecento, di alcuni documenti trasversali alla storia del galletto hanno però sminuito il problema, fissando con sicurezza la data dell'elezione di Ramperto all'815 e rendendo accettabile, pertanto, l'820 come anno di realizzazione dell'opera[47]. Risalendo all'inizio del IX secolo, il "gallo di Ramperto" può essere considerato il più antico galletto segnavento oggi esistente, con un'età di quasi 1200 anni[47][51].

Lo stendardo del Romanino modifica

  Lo stesso argomento in dettaglio: Stendardo processionale del Santissimo Sacramento.

Opera di pregevolissima qualità artistica è lo stendardo processionale del Santissimo Sacramento, realizzato dal Romanino probabilmente fra il 1535 e il 1540[52] per i membri della scuola del Santissimo Sacramento attiva nella chiesa, dove disponeva dell'omonimo altare, il secondo a sinistra. La tela è dipinta su entrambi i lati: su uno è raffigurata la scena della Risurrezione, sull'altro la Messa di Sant'Apollonio. Lo stendardo veniva issato su un'asta e portato annualmente in processione durante la festività del Corpus Domini[36]. Dopo essere stato custodito per secoli nella cappella del Santissimo Sacramento, dal 1965[52], terminato un accurato restauro, si trova appeso tramite sostegni fra due colonne della navata sinistra della chiesa, in modo che siano visibili entrambi i lati. Nella cappella, infatti, era semplicemente appeso alla parete, il che avrebbe sempre impedito la vista di una delle facce.

La tela di Grazio Cossali modifica

Sulla parete di controfacciata della navata destra è appesa l'Apparizione dei santi Faustino e Giovita durante l'assedio di Brescia da parte di Nicolò Piccinino, tela di Grazio Cossali datata 1603[53] che riprende nuovamente il tema del miracolo avvenuto nel 1438 sugli spalti del Roverotto, lo stesso riproposto da Giandomenico Tiepolo un secolo e mezzo più tardi nell'affresco sinistro del presbiterio. La scena del Cossali, comunque, è solitamente la più nota fra le due poiché tradizionalmente utilizzata per simboleggiare e richiamare l'evento[53]. La notevole fama del dipinto è dovuta soprattutto al fatto che, fino alla prima metà del Novecento, si era soliti appendere il dipinto sulla fiancata esterna meridionale della chiesa il 15 febbraio, in occasione della festività dei due santi patroni[53]. Ancora oggi la tradizione viene mantenuta, ma la tela esposta è solamente una copia[53]. Anzi, almeno fino al Settecento il quadro trovava esposizione stabile sul muro esterno della Disciplina abbattuta nel 1927, come segnalano tutte le antiche guide della città: sarà trasportato all'interno della chiesa dopo la soppressione della Disciplina nel 1797[53]. L'opera del Cossali si pone a un gradino un poco inferiore rispetto alle sue migliori, dove però ciò che è perso nelle forti sproporzioni e nell'effetto complessivo un poco mediocre è recuperato nell'attenta tecnica esecutiva e nell'ottima resa della scena di battaglia, con trombe, cannonieri, cavalieri alla carica, terrapieni e fumo di polveri[54].

Altri quadri modifica

 
Gesù scaccia i mercanti dal Tempio di Giuseppe Teosa
  • La lunetta di Giuseppe Teosa: la bussola lignea dell'ingresso laterale, fabbricata nel 1831, è arricchita da un dipinto di Giuseppe Teosa[55], un monocromo giallo a lunetta raffigurante l'episodio di Gesù che scaccia i mercanti dal Tempio. Il risultato ottenuto dal pittore, uno dei maggiori esponenti della cultura neoclassica bresciana di fine Settecento, è assolutamente pregevole[55]. Sul fondale si scorge la poderosa struttura interna del tempio, con massicce colonne ispirate alle numerosissime stampe di inizio Ottocento sulle rovine scoperte in Egitto[56]. In primo piano, invece, si svolge la scena: Gesù è a sinistra, in posizione minacciosa, con una frusta di cordicelle nella mano destra e la sinistra alzata in gesto imperioso. La sua immagine ripartisce in due l'ambiente, generando due distinte sezioni di personaggi fuggitivi. Il Teosa costruisce dettagliatamente ogni figura, generandone una fitta serie ben caratterizzata dalle linee neoclassiche[56], anche con tipologie direttamente estratte dall'arte romana, come nel caso di venditore di pecore in primo piano, sull'estrema destra[56]. Non mancano comunque le citazioni cinquecentesche, leggibili nelle posture concitate dei mercanti in fuga[56].
  • I quadri sopra i confessionali: sopra i quattro confessionali incassati nelle pareti laterali della chiesa, due per lato, sono appese, entro elaborate cornici di stucco a motivi antropomorfi e vegetali, quattro tele di pari ampiezza, raffiguranti santi e sante in atteggiamento penitenziale. Sulla parete di destra si trovano San Pietro di Gian Giacomo Barbelli[57] e San Girolamo di Andrea Terzi[57], mentre a sinistra sono pose Santa Maria Maddalena ancora del Barbelli[57] e Santa Maria Egiziaca di Bernardino Gandino[57]. La prima menzione storica dei quattro dipinti è nella guida del 1630 di Bernardino Faino, che ne fornisce già la corretta attribuzione[58]. È però l'unico: tutta la letteratura artistica successiva attribuirà il San Pietro al pittore bresciano Filippo Zaniberti[57], probabilmente a partire da un'errata annotazione che Leonardo Cozzanto fece, in merito, nel 1694[59]. L'errore si mantiene fino al 1946, quando il dipinto viene esposto nel Duomo vecchio consentendo di leggere chiaramente la firma del Barbelli[60]. Le quattro tele, tutte eseguite ai primi del Seicento, fanno evidentemente parte di un progetto decorativo comune, commissionato per abbellire gli spazi murari al di sopra dei confessionali, e sono tutte pregevoli opere d'arte pittorica[60].
  • La tela di controfacciata: sopra l'ingresso principale, sul muro di controfacciata, è appesa una grande tela di Giovanni Carobio raffigurante San Giovanni de Matha paga il riscatto per la liberazione degli schiavi[61]. L'opera rappresenta un episodio della vita di san Giovanni de Matha, quando il santo, in Marocco, paga al re il riscatto per la liberazione di un folto gruppo di schiavi, che poi ricondurrà a Marsiglia. San Giovanni è al tavolo dove siede il re, circondato dai dignitari di corte, e sta contando le monete versate, mentre gli schiavi, in primo piano, vengono liberati. Uno di essi, già libero, è sulla sinistra, inginocchiato davanti alla Madonna con il Bambino apparsa in cielo, alla quale mostra le catene sciolte. Sullo sfondo si vede il mare e una nave ancorata, sulla quale si imbarcheranno gli schiavi. Quella attuale non è la collocazione originale del dipinto[62], poiché le guide antiche attestano che si trovava sul muro di controfacciata della navata sinistra, dove oggi si trova il dipinto di Marco Richiedei. La prima fonte che lo indica nella posizione attuale è Francesco Maccarinelli, che lo vede nel 1747[63]. Anche l'attribuzione del dipinto è stata più volte riconsiderata nei secoli: l'assegnazione alla mano di Giovanni Carobio, ancora oggi accettata, la si deve a Giovanni Battista Carboni, che ne parla nel 1760[64]. Stesso discorso anche per il giudizio artistico: Carlo Marenzi, nel 1825, non esitava a definirlo "pittore di nessun merito"[65], mentre Antonio Morassi, nel 1939, esprimeva vivo apprezzamento per l'opera[66]. Il dipinto, in ogni caso, si colloca fra le prime opere note dell'autore e, di conseguenza, è molto importante per ricostruire il suo "iter" artistico[62]. La critica contemporanea, inoltre, è più propensa a rivalutare sia la qualità artistica della tela, sia la validità del pittore[62].
  • Il dipinto di Marco Richiedei: sulla parete di controfacciata della navata sinistra trova collocazione l'Incredulità di San Tommaso dipinta da Marco Richiedei. La tela era originariamente utilizzata come pala dell'altare maggiore dell'oratorio di San Tommaso[67], oggi in via Pulusella, dove è sempre stato descritto dalle antiche guide di Brescia, soffermandosi piuttosto sull'identità dell'autore, abbastanza vaga, anziché sul dipinto[67]. Dismesso l'oratorio all'inizio dell'Ottocento, la tela viene posizionata dove ancora oggi si trova[67]. Il dipinto raffigura una delle scene centrali del culto di san Tommaso, quando egli, al cospetto di Gesù risorto dal sepolcro, inizialmente dubita che ciò possa essere accaduto. Gesù lo invita quindi a toccare con le mani la ferita sul costato e questi, nel farlo, capisce di avere davvero davanti il Cristo risorto[68]. Marco Richiedei, artista formato nell'ambito della scuola del Moretto, segue molto bene la linea artistica del maestro, disponendo la scena fra vari contrasti di linee, forme e colori e lavorando con attenzione sulle varie pieghe delle vesti[67].

Altre opere non pittoriche modifica

 
Il crocifisso quattrocentesco
 
L'organo e l'ancona lignea
 
Un confessionale
  • Le cantorie: le due cantorie della chiesa sono posizionate sulle pareti laterali del presbiterio, sotto i due affreschi di Giandomenico Tiepolo. I due manufatti sono in legno dorato e riccamente intagliato, con parapetto decorato da lesene a telamoni che incorniciano numerose tele, sette per cantoria. Nell'intradosso di entrambe è incisa la data 1735[69], mentre i dipinti, di qualità molto buona[69], sono assegnabili al Seicento e, in particolare, ad Antonio Gandino, secondo la proposta avanzata da Antonio Morassi[70] e ancora oggi accettata[69]. Cantorie e tele, pertanto, sono state eseguite in due momenti diversi e comunque prima dell'incendio del 1743, che evidentemente non le danneggiò[71]. È inoltre improbabile che le tele siano state eseguite per altro scopo e poi riutilizzate a decoro delle cantorie, poiché è difficile ipotizzare una diversa collocazione per così tante, piccole tele tutte nel medesimo stile e di pari concezione[71]. Bisogna quindi concludere che, per motivi non noti, le precedenti cantorie sono state rifatte nel 1735 reinserendovi le tele già presenti[71]. Non è invece accettabile l'ipotesi, forse anche più verosimile, che le prime e uniche cantorie della chiesa siano state quelle del 1735, costruite molto in ritardo e adornate con le tele già approntate dal Gandino molti anni prima: Francesco Paglia, infatti, accenna alle cantorie e ai loro dipinti nel 1630[72]. La cantoria di destra ospita, da sinistra verso destra, le tele raffiguranti Santa Scolastica, Santa Giustina, Sant'Anfridio vescovo, San Michele arcangelo che trafigge il demonio, San Pietro vescovo, Santa Caterina d'Alessandria e San Benedetto[71]. La cantoria di sinistra, invece, sempre da sinistra verso destra, ospita Santa Gertrude, Sant'Agata, San Ramperto vescovo, L'Annunciazione, San Aldemanno, Sant'Agnese e San Placido[69]. Tutti i vari busti di sante, santi e vescovi sono raffigurati con impeccabile esecuzione pittorica, grande concentrazione spirituale e accesa devozione fissata nei loro gesti e atteggiamenti tipizzanti[73]. Anche i due riquadri centrali sono caratterizzati dalla stessa attenzione esecutiva e presentano come sfondo paesaggi prospettici di notevole ampiezza, molto luminosi, con eleganti inserti architettonici a contorno[73].
  • Il crocifisso quattrocentesco: a destra dell'accesso al presbiterio è collocato un grande crocifisso ligneo, opera di ignoto maestro intagliatore della fine del Quattrocento[55]. La fattura del manufatto denota grande maestria tecnica e capacità di resa sentimentale[55]: le membra di Gesù sono ferme e pacate e sulla scultura vige una forte simmetria, ben evidente nell'identica regolarità delle due braccia divaricate. Anche le gambe sono parallele e si incrociano solamente sulla sovrapposizione dei piedi. Ben reso è il ventre contratto, con le ossa del costato prominenti. Anche il velo legato alla vita è statico, aderente e privo di svolazzi, rafforzando il senso generale di simmetria, calma e maestà infuso nel corpo del Cristo martirizzato, affisso alla croce senza esasperazioni dolorose o contrazioni deformanti[55]. Uniche note di dolore si distinguono nel volto, lievemente reclinato verso la spalla destra, rigato dalle colature di sangue, con le palpebre appesantite e la bocca dischiusa nell'affanno del respiro.
  • L'ancona dell'organo: l'organo della chiesa, posizionato sul muro dell'abside piatta come sfondo alla navata centrale e al presbiterio, viene costruito dopo l'incendio del 1743 in sostituzione del precedente, andato distrutto, e viene arricchito da una maestosa cornice[73]. Il notevole manufatto è in legno scolpito e dipinto in modo estremamente accurato per simulare il marmo[73] e reca sulla movimentata trabeazione superiore quattro statue di angeli: due, più piccoli, sono ai lati, mentre gli altri due, più grande, sono in posizione centrale e molto ben curati[73]. La balconata della cantoria sottostante, inoltre, è decorata da una serie di riquadri a finti intarsi di marmi policromi e occupa la parete in tutta la sua lunghezza. Nonostante l'apparente funzione secondaria di incorniciatura delle canne dell'organo, l'apparato ligneo svolge un ruolo importante nel completamento dei molti elementi che concorrono a creare la bellezza e l'armonia del presbiterio[74]. La fabbricazione della grande ancona può essere ascritta a Giovanni Battista Carboni, comprese le quattro statue di coronamento, il tutto molto vicino all'accuratezza e alla plasticità delle opere di Antonio Calegari[74].
  • Monumento a Giovanni Battista Lurani Cernuschi: nell'intercolumnio più vicino al presbiterio del colonnato destro è collocato il monumento commemorativo al prevosto Giovanni Battista Lurani Cernuschi, che resse la parrocchia dal 1820 per ben sessantacinque anni, fino al 1884, con molto zelo e profusione del proprio patrimonio: ottenne per la chiesa la reliquia della Santa Croce requisita al soppresso monastero di Santa Giulia e fece costruire un nuovo altare ad essa dedicato, sovvenzionò la costruzione di un pulpito (oggi rimosso) e acquistò, per poi donarli alla chiesa, numerosi arredi e paramenti liturgici[61]. Il monumento, inaugurato nel 1889, è opera dell'architetto Antonio Tagliaferri[61], mentre il busto in sommità è stato fabbricato dallo scultore Francesco Giacomo Pezzoli[61]. Il monumento è arricchito da un modesto profilo architettonico con applicati festoni in bronzo a tema vegetale sul basamento del busto. La parte sottostante ospita due grandi lastre di marmo nero recanti una lunga iscrizione dedicatoria e celebrativa, in italiano sul lato anteriore, verso la navata centrale, e in latino sul retro.
  • I confessionali: i quattro confessionali originali della chiesa, realizzati all'inizio del Seicento[75], sono incassati nelle pareti laterali, due per ogni navata, nei tratti di muro fra le cappelle. Sono in legno di noce intagliato[75], di dimensioni ridotte e poco profondi. Essendo collocati sotto i quattro dipinti già citati dei pittori Barbello, Gandino e Terzi, appaiono come punto di riferimento per questi ultimi nelle guide dell'epoca, a partire da Bernardino Faino, che li vede nel 1630[58]. I quattro manufatti si presentano principalmente come apparati architettonici, con i tre vani per ospitare i confessanti e il confessore, lesene, trabeazione e frontone triangolare, il tutto completato da varie decorazioni e da due grate di fine intaglio[75], poste sopra i vani laterali per pareggiare l'altezza con il vano centrale, più alto. Sugli spioventi del frontone sono posizionate due figure allegoriche, mentre sul vertice siede un piccolo angelo. Nel complesso, i quattro confessionali evidenziano molta cura, con conseguente pregio artistico, nelle grate citate e nelle statuette di coronamento, abbastanza ripetitive nella tipologia ma molto raffinate nella modellazione e negli atteggiamenti[75].
  • Le acquasantiere: all'inizio della navata centrale, accanto all'ingresso principale, sono posizionate due acquasantiere in marmo rosso di Verona a sfumature gialle e rosa, fabbricate durante la ricostruzione della chiesa e risalenti quindi all'inizio del Seicento[75]. Il basamento appoggia su quattro zampe di leone, la colonnina segue un profilo ad anfora e il catino è piatto e molto espanso, con effetto d'insieme molto equilibrato[75].

Galleria fotografica modifica

Note modifica

  1. ^ a b c d Pier Virgilio Begni Redona, pag. 99
  2. ^ a b Pier Virgilio Begni Redona, pag. 102
  3. ^ a b c d e Pier Virgilio Begni Redona, pag. 104
  4. ^ a b c d e f Pier Virgilio Begni Redona, pag. 106
  5. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag. 114
  6. ^ a b c d e f g h Pier Virgilio Begni Redona, pag.132 Errore nelle note: Tag <ref> non valido; il nome "redona132" è stato definito più volte con contenuti diversi
  7. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag.116
  8. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag.122
  9. ^ Eduard Sack, pag. 304
  10. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag.125
  11. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag.152
  12. ^ Vedi, ad esempio, Francesco Paglia pag. 807 o Giulio Antonio Averoldi, pagg. 31-32
  13. ^ a b c Pier Virgilio Begni Redona, pag.154
  14. ^ a b Pier Virgilio Begni Redona, pag.155
  15. ^ a b Pier Virgilio Begni Redona, pag.158
  16. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag.156
  17. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag.163
  18. ^ a b Pier Virgilio Begni Redona, pag.193
  19. ^ a b c d Pier Virgilio Begni Redona, pag.194
  20. ^ a b c Pier Virgilio Begni Redona, pag.192
  21. ^ a b c d Pier Virgilio Begni Redona, pag.195
  22. ^ a b c d e Pier Virgilio Begni Redona, pag.198
  23. ^ a b Pier Virgilio Begni Redona, pag.196
  24. ^ Articolo sul Giornale di Brescia del 17 febbraio 2002
  25. ^ a b c d e f Pier Virgilio Begni Redona, pag.164
  26. ^ a b Pier Virgilio Begni Redona, pag.166
  27. ^ Valentino Volta, pag.75
  28. ^ Paolo Brognoli, pag. 182
  29. ^ Giulio Antonio Averoldi, pagg. 35-36
  30. ^ Giovanni Vezzoli, pag. 405
  31. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag.169
  32. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag.170
  33. ^ a b Valentino Volta, pag. 77
  34. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag. 177
  35. ^ a b c Pier Virgilio Begni Redona, pag. 179
  36. ^ a b c d Pier Virgilio Begni Redona, pag. 171
  37. ^ Vedi, ad esempio, Giulio Antonio Averoldi, pag. 35 e Berardino Faino, pag. 62
  38. ^ a b c Pier Virgilio Begni Redona, pag. 182
  39. ^ Valentino Volta, pag. 89
  40. ^ a b c Pier Virgilio Begni Redona, pag. 185
  41. ^ a b c d Pier Virgilio Begni Redona, pag. 188
  42. ^ Francesco Paglia, pag. 807
  43. ^ Antonio Morassi 1939, pag. 219
  44. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag. 148
  45. ^ Giovanni Vezzoli, pagg. 404-405
  46. ^ a b c Pier Virgilio Begni Redona, pag. 149
  47. ^ a b c Rossana Prestini, pag. 243
  48. ^ Ottavio Rossi 1624, pag. 48. Lo storico dice che l'iscrizione pubblicata nel suo testo è stata da lui stesso copiata da un rilievo fatto eseguire dall'abate Bernardo Marcello nel 1455
  49. ^ Gian Andrea Astezati, foglio 52 recto. Il frate è il primo ad avanzare dubbi sulla sua autenticità
  50. ^ Rossana Prestini, pag. 242
  51. ^ Fedele Savio, pagg. 184-188
  52. ^ a b Pier Virgilio Begni Redona, pag. 175
  53. ^ a b c d e Pier Virgilio Begni Redona, pag. 206
  54. ^ Pier Virgilio Begni Redona, pag. 207
  55. ^ a b c d e Pier Virgilio Begni Redona, pag. 207
  56. ^ a b c d Pier Virgilio Begni Redona, pag. 201
  57. ^ a b c d e Pier Virgilio Begni Redona, pag. 109
  58. ^ a b Bernardino Faino 1630, pag. 62
  59. ^ Leonardo Cozzando, pag. 109
  60. ^ a b Pier Virgilio Begni Redona, pag. 110
  61. ^ a b c d Pier Virgilio Begni Redona, pag. 202
  62. ^ a b c Pier Virgilio Begni Redona, pag. 203
  63. ^ Francesco Maccarinelli, pag. 141
  64. ^ Giovanni Battista Carboni, pag. 28
  65. ^ Carlo Marenzi, pag. 7
  66. ^ Antonio Morassi 1939, pag. 210
  67. ^ a b c d Pier Virgilio Begni Redona, pag. 205
  68. ^ Giovanni 20, 24-29
  69. ^ a b c d Pier Virgilio Begni Redona, pag. 134
  70. ^ Antonio Morassi, pag. 214
  71. ^ a b c d Pier Virgilio Begni Redona, pag. 136
  72. ^ Francesco Paglia, abbozzo del Giardino della Pittura del 1630, manoscritto queriniano Di Rosa 88, pag. 74
  73. ^ a b c d e Pier Virgilio Begni Redona, pag. 138
  74. ^ a b Pier Virgilio Begni Redona, pag. 141
  75. ^ a b c d e f Pier Virgilio Begni Redona, pag. 208

Bibliografia modifica

  • Giulio Antonio Averoldi, Le scelte pitture di Brescia additate al forestiere, Brescia 1700
  • Pier Virgilio Begni Redona, Pitture e sculture in San Faustino in AA. VV., La chiesa e il monastero benedettino di San Faustino Maggiore in Brescia, Gruppo Banca Lombarda, Editrice La Scuola, Brescia 1999
  • Paolo Brognoli, Nuova Guida di Brescia, Brescia 1826
  • Leonardo Cozzando, Vago e curioso ristretto profano e sacro dell'historia bresciana, Brescia 1694
  • Bernardino Faino, Catalogo Delle Chiese riuerite in Brescia, et delle Pitture et Scolture memorabili, che si uedono in esse in questi tempi, Brescia 1630
  • Francesco Maccarinelli, Le Glorie di Brescia raccolte dalle Pitture, Che nelle sue Chiese, Oratorii, Palazzi et altri luoghi publici sono esposte, Brescia 1747
  • Carlo Marenzi, Il servitore di piazza della città di Bergamo per le belle arti, Bergamo 1825
  • Antonio Morassi, Catalogo delle cose d'arte e di antichità d'Italia - Brescia, Roma 1939
  • Rossana Prestini, Vicende faustiniane in AA. VV., La chiesa e il monastero benedettino di San Faustino Maggiore in Brescia, Gruppo Banca Lombarda, Editrice La Scuola, Brescia 1999
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