Discussione:Eccidio delle Fosse Ardeatine/Estratto Dolomiti Terzo Reich

A proposito della vicenda dell'attentato, mi permetto di suggerivi la lettura di questo illuminante contributo, estratto dal capitolo "Via Rasella", incluso nel volume "Le Dolomiti del Terzo Reich" scritto dallo storico e ricercatore trentino Lorenzo Baratter (Mursia, Milano, 2005). Purtroppo non mi è stato possibile riportare le decine di note a margine presenti sull'originale; è inoltre presente una ricca bibliografia:

VIA RASELLA

"... Nel tardo autunno del ‘43 il colonnello tedesco Menschick fu incaricato di formare il reggimento di polizia chiamato Polizeiregiment Südtirol. Entro la fine di ottobre erano stati reclutati circa 2.000 uomini. Nel mese successivo il reggimento venne rinominato «Bozen» e i quattro battaglioni previsti diventarono in seguito tre: un quarto fu destinato alla formazione del Polizeiregiment Alpenvorland. Il luogo di raccolta dei soldati fu la grande caserma di via Merano a Gries, sulla statale che un tempo collegava il capoluogo a Merano. Molti di questi soldati avevano 40 anni e più: si trattava di persone che, per la maggiore, appartenevano alle classi 1900-1912. Essi furono suddivisi in compagnie e sottoposti a una prima fase d’istruzione. Diversi di loro avevano già prestato servizio militare nell’esercito italiano e così gran parte di coloro che in seguito sarebbero stati inviati a Roma erano stati fanti a Torino, artiglieri di montagna a Merano e a Rovereto, alpini a Brunico, genieri a Casale; fante a Palermo era stato anche Johann Kaufmann, morto nell’attentato di via Rasella.

Peter Putzer di Varna, al momento dell’arruolamento, aveva quarant’anni e quattro figli; l’ultimo fucile lo aveva imbracciato vent’anni prima, artigliere da montagna nell’esercito italiano. Ricordava di aver sparato al passo del Tonale con i cannoni austro-ungarici bottino di guerra. Durante l’addestramento a Bolzano la figlia di Putzer si ammalò e presto morì: «Il padre chiese una breve licenza per poter partecipare almeno al funerale ma il maggiore Dovek gliela negò: nel suo concetto di addestramento non c’era spazio per i sentimenti umani». In seguito anche Putzer fu destinato a raggiungere Roma con il III battaglione.

Dopo un paio di settimane di addestramento ognuno di questi soldati fu chiamato in ufficio dove ricevette un modulo prestampato individuale, con la richiesta di apporvi una firma. Sul foglio, oltre alle consuete indicazioni anagrafiche, era stata posta una dichiarazione di questo tenore: «L’arruolato svolge il proprio servizio presso il reggimento in qualità di volontario». Alcuni tentarono di rifiutarsi di firmare e per questo furono accompagnati dal comandante di battaglione, il quale spiegò loro, senza tanti giri di parole, che un rifiuto avrebbe comportato il trasferimento immediato al fronte oppure in un lager. A queste condizioni tutti preferirono sottoscrivere la dichiarazione. Un testimone del III battaglione ha ricordato a proposito: «Ci fecero firmare cartellini sui quali era scritto che eravamo volontari. Io dissi che, se volevano, potevano anche arruolarmi, ma non come volontario. Mi risposero che mi avrebbero definito come pareva e piaceva a loro, e che se facevo tante storie, sarei finito in Russia. Ecco come eravamo volontari…».

I soldati del «Bozen», come quelli di tutti i corpi militari formati nell’Alpenvorland, non erano volontari. La principale dimostrazione è nei documenti e nelle ordinanze ufficiali emesse dal commissario supremo Hofer. Queste ordinanze, come già illustrato nel capitolo precedente, obbligarono al servizio di guerra le popolazioni maschili incluse nell’Alpenvorland: in quella del 6 novembre 1943, pubblicata sul Bollettino Ufficiale del commissario supremo dell’Alpenvorland, era indicato che «per raggiungere la vittoria finale per una nuova Europa è necessario l’impiego totale di tutte le forze». L’ordinanza n. 41 del 7 gennaio 1944 indicava che «tutti i cittadini di sesso maschile delle classi dal 1894 al 1926 incluso, che hanno la residenza nel territorio della Zona di Operazioni delle Prealpi oppure vi risiedono non solo transitoriamente, sono obbligati alla prestazione del servizio di guerra».

Qualcuno, per descrivere la chiamata al servizio di guerra dei nazisti nell’Alpenvorland, ha parlato di un vero e proprio «rastrellamento di sudtirolesi» nelle vallate. La fame germanica di combattenti nell’ultima fase del conflitto, è nota: questo, per i tedeschi, non significava includere solo i ragazzini della Hitlerjugend o gli anziani del Volkssturm. Negli arruolamenti forzati erano compresi molti uomini che, essendo residenti in un territorio annesso al Terzo Reich, furono costretti al servizio di guerra: «Sono obbligati alla prestazione del servizio di guerra» (sind zur Ableistung des Kriegsdienstes verpflichtet) è alla lettera l’espressione ricorrente usata da Hofer. I caduti di via Rasella, come la maggioranza degli arruolati nell’Alpenvorland, erano contadini, artigiani, pastori e mugnai: molti provenivano dalla montagna, dove non lasciarono certo volentieri masi, figli, famiglie e lavoro. Un giorno ricevettero una cartolina, indirizzata «An den Kriegsdienstpflichtigen» (letteralmente «All’obbligato al servizio di guerra»), in cui era intimato questo lapidario ordine: «Vi viene dato l’ordine di presentarVi in base all’ordinanza del commissario supremo» (Sie werden hiermit aufgefordert, sich auf Grund der Verordnung des Obsten Kommissars).

Chi voleva sottrarsi al servizio di guerra poteva scappare in montagna, ma sapeva bene che i suoi cari avrebbero pagato il conto per lui. Se poi il disertore o il renitente si fosse pentito della scelta fatta, e avesse fatto ritorno al reparto, preoccupato per la sorte dei suoi congiunti, sarebbe stato subito processato e condannato a morte dal Tribunale Speciale, oppure da un tribunale delle SS o della Wehrmacht. Un manifesto in lingua italiana del gennaio 1944, tra i tanti comparsi in quel periodo, lanciava il suo chiaro ammonimento: «Coloro che sono chiamati al servizio di guerra ricevono lo stesso trattamento in vigore nelle analoghe organizzazioni del grande Reich germanico. La parificazione avviene anche per quanto riguarda la disciplina e le punizioni». E al paragrafo successivo: «Chi non ottempera all’ordine di presentazione, di visita o di chiamata o comunque si sottrae allo stesso o tenta di sottrarsi con la fuga o danneggiando dolosamente la propria salute viene punito con la pena di morte. In casi meno gravi la pena può essere commutata nel carcere duro fino a 10 anni. Le stesse pene sono comminate per i complici. Fino alla cattura dei rei o dei loro complici, possono essere arrestati i loro congiunti, e cioè la mogli, i genitori, i figli sopra i diciotto anni e fratelli e sorelle che convivono col reo o complici».

Non importava se i destinatari delle cartoline di precettazione fossero cittadini di lingua italiana oppure tedesca, optanti per la Germania piuttosto che per l’Italia: bastava essere uomini, residenti nel territorio dell’Alpenvorland, essere nati tra il 1894 e il 1926. Non c’erano altre vie di scampo. Un accanimento particolare fu riservato dai tedeschi ai Dableiber, i sudtirolesi di lingua tedesca che nel 1939 avevano rifiutato di optare per la nazionalità germanica, volendo mantenere quella italiana: erano considerati dei traditori e molti di essi furono inviati sul fronte orientale. Anni fa la madre di uno degli altoatesini morti in via Rasella telefonò ad uno dei partigiani che avevano compiuto l’attentato di Roma, Pasquale Balsamo. Provata dal dolore e dalle infamanti accuse gettate sulla memoria del figlio, la donna volle sottolineare come quest’ultimo fosse stato un Dableiber, consapevole del significato profondo delle sue parole: «Capisce Balsamo che mio figlio era italiano?». La risposta di Balsamo non si fece attendere: «Signora, non lo dica a nessuno! Perché sennò è pure alto tradimento! Suo figlio non solo era italiano: vestiva la divisa tedesca, occupava un paese italiano e perseguitava gli italiani in divisa tedesca, quindi era un traditore».

Questi soldati non appartenevano alle SS: «Non si parlava assolutamente di SS, nemmeno sul libro paga, che era redatto dal comando del reggimento e che riportava il suo sigillo di servizio. Né sull’uniforme, né sull’elmetto, né sul cinturone compariva il simbolo delle SS. Gli ufficiali venivano chiamati con le definizioni di rango della Wehrmacht e non con quelle delle SS». Le stesse fotografie dei soldati del «Bozen», ritratti prima o subito dopo l’attentato di via Rasella, evidenziano in modo inequivocabile l’estraneità di questi soldati alle SS. Va detto in generale che, tra i reparti mobilitati dell'Ordnungspolizei e le SS, potevano esistere relazioni funzionali, tuttavia essere ordinari di polizia non significava essere anche soldati delle SS. Per quanto riguarda invece gli ufficiali, subalterni e superiori, che nel caso del «Bozen» erano tutti provenienti dalla Germania, il grado ricoperto valeva sia nella Polizei sia nelle SS: per i generali si trattò di un doppio grado assegnato automaticamente a partire dal 1942-43. Esisteva un distintivo apposito – doppia SS runica ricamata e cucita sul petto a sinistra, sotto il taschino delle giubbe – per contrassegnare i soldati appartenenti alla polizia germanica e alle SS: nessuno dei soldati del «Bozen» presente a Roma portò mai quel distintivo e questo è confermato con precisione, oltre che dalle testimonianze dei sopravvissuti, anche dalle numerose fotografie che ritraggono i superstiti del reparto dopo l’attentato. Del tutto formale fu l'uso dei libretti personali con logo delle SS, esteso dal 1944 a tutti i reparti di polizia e loro ausiliari. Per comprendere la sostanziale differenza tra le SS e la polizia non va dimenticato che il Tribunale Internazionale di Norimberga dichiarò la SS «organizzazione criminale» a differenza dell'Ordungspolizei, i cui componenti poterono continuare a ricoprire le loro cariche anche nel dopoguerra.

L’informazione tuttavia più interessante è quella contenuta nel Bollettino dei comandanti della polizia, relativo all’anno 1944: il Polizeiregiment «Bozen» fu ribattezzato «SS-Polizeiregiment Bozen» il 16 aprile 1944, cioè 24 giorni dopo l’attentato di via Rasella. A prescindere dalle considerazioni che riguardano l’uso del termine SS associato ai Polizeiregimenter, è dunque dimostrato che il 23 marzo il «Bozen» non apparteneva nemmeno sotto il profilo formale alle SS. Completato l’addestramento, il corpo prestò giuramento negli ultimi giorni di gennaio del 1944. A questo punto i tre battaglioni presero strade diverse: mentre il I e il II furono condotti rispettivamente in Istria e nel Bellunese, il III e ultimo battaglione del «Bozen» venne trasferito a Roma il 12 febbraio 1944. Perché fu destinato a Roma? La risposta ci è giunta nell’immediato dopoguerra da Karl Wolff, generale delle Waffen-SS, nominato massimo responsabile delle SS e capo della polizia in Italia dopo l’8 settembre 1943. In una deposizione rilasciata nel settembre del 1946 agli Alleati, dai quali era stato fatto prigioniero, egli chiarì da chi era partita l’idea di un trasferimento a Roma del reparto: «Per il desiderio del Feldmaresciallo Kesselring avevo messo a disposizione da poco tempo un battaglione di Polizia ordinaria molto giovane e formato di recente, il battaglione Bolzano, costituito da tedeschi del Sud Tirolo, al fine di svolgere i compiti propri della Polizia ordinaria e di proteggere il Vaticano. Durante il periodo della sua utilizzazione questo battaglione venne tolto al mio comando e alla mia giurisdizione, essendo completamente sottoposto alla 14ª Armata. A causa della sua natura e per il suo particolare utilizzo esso figurava come unità non combattente».

L’affermazione di Wolff conferma che il «Bozen» fu chiamato a Roma per svolgere compiti di polizia ordinaria nella città, come unità «non combattente» agli ordini della Wehrmacht. Il trasferimento del reparto a Roma fu, con ogni probabilità, oggetto di accordo tra Hofer e Wolff: questo perché il commissario supremo dell’Alpenvorland si riteneva autorizzato a considerare che i Polizeiregimenter dovessero dipendere dai suoi comandi. Hofer, che però non era un militare ma il capo di un’amministrazione civile, aveva anche il potere di impartire ordini operativi al comandante delle SS e della polizia nell’Alpenvorland, generale Karl Brunner. Hofer aveva formalmente preteso che ogni spostamento dei Polizeiregimenter al di fuori della Zona di Operazioni dovesse ricevere il suo personale consenso.

Il viaggio del «Bozen» verso Roma fu difficile anche perché, tra il 12 gennaio e il 18 febbraio 1944, si combattevano la prima e la seconda delle quattro battaglie di Cassino. Nello stesso periodo, tra febbraio e marzo, i tedeschi lanciavano le sanguinose controffensive dirette contro gli Alleati, sbarcati ad Anzio il 22 gennaio dello stesso anno. La descrizione del viaggio del battaglione da Bolzano verso Roma, effettuato con autobus requisiti in Alto Adige, è stato ricostruito dal giornalista Hermann Frass: «Più si scendeva verso sud, più si intensificavano gli allarmi aerei. Gli uomini dovevano sedere a bordo dei mezzi ma pronti a saltare con indosso l’equipaggiamento d’assalto e il fucile tra le ginocchia. Verso la fine di quel rocambolesco viaggio molti di loro soffrivano di fortissimi dolori alla schiena e avevano le gambe gonfie. A bordo di veicoli sforacchiati, ma senza perdite il battaglione raggiunse il suo luogo di destinazione a Roma dopo 6-7 giorni di viaggio. Era la caserma “Principe di Piemonte”. Da lì la 10ª compagnia fu inoltrata ad Albano, per sorvegliare dei lavori di rafforzamento e di difesa che erano in corso e per occuparsi dell’ordine generale. La 9ª compagnia rimase in caserma e doveva svolgere servizio di guardia presso i diversi stati maggiori tedeschi, presso il Vaticano e davanti ad edifici pubblici. L’11ª compagnia fu trasferita con il comando del battaglione alla caserma del ministero dell’Interno e oltre al servizio di sorveglianza presso il ministero non aveva nulla di particolare da fare. Pertanto per oltre un mese dovette compiere esercitazioni di marcia e di tiro».

Roma era stata dichiarata città aperta; erano presenti le compagnie di polizia del «Bozen», gli stati maggiori della Wehrmacht, alcuni comandi delle SS e «gruppi che non avevano valenza di unità militari e che svolgevano i loro incarichi sempre più di contorno». L’11ª compagnia, quella che avrebbe subito l’attentato di via Rasella, era stata sottoposta ad ulteriore attività di addestramento in attesa di dare il cambio ai commilitoni delle due compagnie già in servizio. Il grado di questi soldati (Unterwachtmeister der Polizei) era il più basso, se si esclude quello dell’allievo.

Voglio far comprendere perché è importante sottolineare l’arrivo dei sudtirolesi a Roma a metà di febbraio del 1944. Due anni più tardi, nel febbraio del 1946, la delegazione italiana presente alla Conferenza di Pace di Parigi presentò un memoriale in cui veniva scritto, a proposito del «Bozen», quanto segue: «Unità di questo reggimento furono impiegate anche a Roma nei famosi rastrellamenti che ebbero luogo durante l’inverno 1943-44». L’accusa era molto grave: gli uomini del «Bozen» avevano partecipato al noto rastrellamento compiuto a Roma il 18 ottobre 1943, in conseguenza del quale un migliaio di ebrei romani era stato deportato nei campi di sterminio del Terzo Reich. La discordanza di date, tuttavia, è evidente: il 18 ottobre 1943 gli uomini del «Bozen» si trovavano a mille chilometri dalla capitale e stavano iniziando l’addestramento nella caserma di Gries. Questo errore fu generato, con molta probabilità, dalla leggerezza con cui all’epoca vennero raccolte le informazioni, in seguito mai sottoposte a verifica. Lo storico Carlo Gentile ci ha aiutato a intuire una possibile spiegazione di questo errore: al rastrellamento degli ebrei romani dell’ottobre 1943 parteciparono unità dell’SS-Polizeiregiment 12, dell’SS-Polizeiregiment 15 e dell’SS-Polizeiregiment 20, formazioni provenienti dalla Germania e dai territori orientali del Terzo Reich che non avevano nulla da spartire con il «Bozen»: l’ultimo dei tre reggimenti sopra nominati era stato formato a Praga ed era composto da SS addestrate a Debica.

E’ possibile che il termine «Polizeiregiment», comune al «Bozen» e anche ai reggimenti coinvolti nella deportazione, sia stato indizio sufficiente per spingere qualcuno alla formulazione di una così grave accusa. Nonostante la possibilità di verificare quale fosse la verità, nessuno si è sentito in dovere di chiarire la totale estraneità del «Bozen» circa la persecuzione degli ebrei romani. E’ mancata ogni forma di smentita ufficiale: le argomentazioni dei diplomatici italiani sono diventate sentenza e alcuni storici presentarono nel dopoguerra tale e quale il documento italiano (intitolato Participation in the war on the side of Germany of Austrians and of German-speaking Alto Atesini (South Tyrolians) after the 8th of September 1943) giudicandolo come «eloquente».

Per quanto riguarda il primo impatto dei soldati sudtirolesi con Roma, molti dei presenti ricordarono nel dopoguerra quanto fosse misero il vitto dei tedeschi e come la fame continua non contribuisse a sollevare il morale degli uomini. La disciplina era molto severa. Non c’era libera uscita e agli uomini era vietato comperare qualcosa all’esterno, oppure farsi comperare cibo da qualcuno. Se uno di loro veniva sorpreso nel farlo, erano previste punizioni fino allo sfinimento. Gli uomini del «Bozen» non perdevano nessuna occasione per mostrare il loro scarso entusiasmo, cosa di cui il comandante del battaglione spesso si lamentava: «La maggior parte di loro era composta da cattolici convinti che cercavano segretamente di recarsi in chiesa. Se uno di loro veniva sorpreso, veniva costretto a fare rientro in caserma camminando in ginocchio». La stessa fraternizzazione con la popolazione romana era impedita: «Nei primi tempi riuscivamo, quasi di nascosto, ad entrare in qualche locale di Roma. Appena sentivano che parlavamo anche l’italiano ci davano tutto il vino che volevamo». L’ufficiale che comandava l’11ª compagnia volle interrompere anche quei rari rapporti con la popolazione civile e proibì le libere uscite. Quasi ogni mattino l’11ª compagnia usciva in completo assetto di marcia per recarsi al campo di esercitazioni e al poligono di tiro, vicino al Foro Mussolini. Verso le 14 essa faceva rientro sempre lungo lo stesso percorso: attraverso piazza del Popolo, via del Babbuino, piazza di Spagna, fino alla grande via del Tritone. Il percorso che porta a via Quattro Fontane sarebbe stato più comodo attraverso la larga via del Tritone, ma il maggiore Dobbrick, che seguiva spesso la compagnia, ordinò fin dall’inizio che la colonna imboccasse via Rasella, mal lastricata e più ripida, al fine di evitare il traffico intenso del centro. L’11ª compagnia era solita marciare su tre file, con il sottotenente di Amburgo Wolgasth (o Wolgast ) in testa e un sottufficiale davanti ad ogni fila. Gli uomini più alti erano nelle prime file: la colonna di marcia doveva dare un’impressione di forza.

Durante l’addestramento gli ufficiali germanici rivolgevano ai sudtirolesi epiteti che non si limitavano a un rigido, pur comprensibile, linguaggio militare: essi venivano oltraggiati con espressioni come «traditori», «maiali» e «bastardi». L’espressione più gentile usata dagli ufficiali era «teste di legno tirolesi» (Tiroler Holzköpfe), un’espressione adoperata forse per la grande difficoltà riscontrata nell’addestrare questi contadini incapaci, anche dopo ore ed ore di esercitazioni, di perdere l’abitudine di marciare un po’ curvi, a passi lunghi e lenti, come fanno appunto gli uomini abituati a vivere e lavorare in montagna. Vi erano anche dei ladini che parlavano a fatica il tedesco, per nulla facilitati nei rapporti con i loro superiori: non a caso i due verbi che più ricorrono nelle parole di molti sudtirolesi sopravvissuti alla guerra sono «drillen» e «gefrillen». Il primo sottintende l’addestramento riservato alle bestie del circo, il secondo fa riferimento al gesto dell’arrotino che gira e rigira il coltello sulla mola. Gli ufficiali germanici non si fidavano di questi soldati sudtirolesi: un sopravvissuto a via Rasella ha detto che il motivo di questo atteggiamento andava collegato al fatto che «forse eravamo troppo poco “bruni”, e cioè nazisti, ma soprattutto perché eravamo sudtirolesi… Se per ipotesi dovessero chiedermi oggi di tornare a fare il soldato e di scegliermi la divisa, non avrei un attimo di dubbio: farei il soldato italiano. Non perché mi senta italiano ma perché ci sono cose che non si dimenticano».

La vigilia del 23 marzo, come dichiararono alcuni superstiti, furono rinforzate le guardie notturne, con un innalzamento del livello di allarme: «Tuttavia non accadde nulla e quel giovedì mattina iniziò tutto come ogni giorno. Era l’ultimo giorno di esercitazioni e il maggiore aveva intenzione di mostrare ai romani quanto ai tedeschi interessasse poco della tensione e delle minaccie. Volendo però procedere con sicurezza, prima di avviare la marcia fece caricare i fucili: una misura di precauzione che non era mai stata adottata prima di allora». Franz Bertagnoll, sopravvissuto a via Rasella dichiarò: «Partimmo con i colpi in canna e non era mai accaduto prima». Quel giorno, il 23 marzo 1944, era una data importante per il fascismo in quanto si celebravano i venticinque anni della fondazione dei fasci a Milano. La manifestazione, organizzata dal federale di Roma Pizzirani fu celebrata, per questioni di sicurezza, in via Veneto, nel salone del palazzo dove aveva sede il ministero delle Corporazioni. Data la ricorrenza alcuni partigiani romani appartenenti ai GAP, i Gruppi di Azione Patriottica, avevano deciso di colpire la colonna di soldati che vedevano transitare tutti i giorni.

La mattina del 23 marzo il «Bozen» svolse, come in tutti i giorni precedenti, l’addestramento al poligono. Intorno alle 14 fu ordinato all’11ª compagnia di rientrare verso il Viminale: «Tabella di marcia e percorso erano gli stessi di sempre, era diverso soltanto il fatto che il maggiore era a bordo di un’automobile e si faceva condurre dal suo autista in su e in giù a fianco della compagnia, accompagnando la colonna ora in testa, ora in coda». Una volta in cammino, come accadeva spesso per i reparti in marcia, la compagnia intonò una serie di canzoni militari. Nel caso del «Bozen» si trattava di un canto imposto dagli ufficiali. «Ein Lied!», era stato l’ordine perentorio del maggiore Dovek. Un sopravvissuto del reparto ha ricordato l’insistenza con cui i tedeschi si ostinavano a ordinare il canto: «In quei giorni a Roma pretendevano che noi sfilassimo per le strade cantando a squarciagola, come tanti galli, petto in fuori, a urlare in continuazione un cadenzato chicchiricchì». L’ordine non poteva essere trasgredito perché rifiutarsi avrebbe significato una punzione esemplare. Questa la testimonianza, utile per un raffronto, raccolta presso ex appartenenti al Corpo di Sicurezza Trentino: «Ein Lied, un canto volevano sempre. Noi ci siamo rifiutati quasi tutti. Siamo rientrati nella caserma, c’era la luna e aveva piovuto il giorno prima sicché tutto il piazzale era pieno di pozze, pozzanghere. Hanno cominciato dalla cima del piazzale fino in fondo. “Hinlegen”, giù, buttarsi giù per terra dove ci si trovava, non si poteva schivare la pozzanghera. Plaf, giù. E poi passavano con la pila e guardavano se qualcuno metteva le mani sotto per non sporcarsi. Dopo bisognava andare a pulirsi la divisa perché la mattina la divisa deve essere pulita. E allora quando trovavano qualcuno con le mani sotto così… banf, un piede… Ma guai a dire di no ai tedeschi, non si poteva dire di no».

Per quanto riguarda la circostanza della presenza di mezzi blindati in fondo alla colonna del «Bozen», un’attenta verifica delle varie testimonianze emerse e del materiale iconografico, ne ha escluso la presenza in via Rasella: è certo invece che dopo la colonna venisse un piccolo camion che trasportava le attrezzature del reparto. Altrettanto infondate sembrano pure le affermazioni di chi ha sostenuto che «in testa ed in coda alla colonna» del reparto vi fossero alcune «pattuglie con mitragliatrici su motocarrozzette». I reggimenti di polizia sudtirolesi, come ha osservato Marco Pennisi «mancavano della componente blindata (autoblindo e carri armati leggeri spesso di modello obsoleto o di preda bellica) che, in ragione di una compagnia, appoggiava quasi ogni reggimento». Unica eccezione il I battaglione del «Bozen», quello inviato dopo il giuramento in Istria: esso disponeva infatti di un plotone blindato, «consistente in due mezzi italiani di preda bellica (un vecchio modello Lancia ed un più recente modello AB41)».

A metà di via Rasella era stato piazzato il carretto pieno di esplosivo affidato a Rosario Bentivegna, il partigiano romano dei GAP vestito da netturbino e incaricato di attendere l’arrivo della colonna con una pipa accesa. Quando il «Bozen» imboccò la via, il giovane studente universitario avvicinò la brace della pipa alla miccia collegata al carretto, quindi si allontanò in fretta. Il boato fu enorme, l’esplosione dilaniò sul colpo 22 soldati sudtirolesi: altrettanti giacevano a terra, gravemente feriti. Alla fine i morti sudtirolesi sarebbero stati 33.

I pochi che potevano reggersi ancora sulle proprie gambe cercarono riparo nelle case, convinti che l’attacco fosse stato causato da un bombardamento aereo. Molti portoni delle abitazioni erano sbarrati: «Alla prima esplosione seguirono nuove detonazioni e tutta la strada si tramutò in un inferno». Sylvester Putzer di Bressanone era nel III plotone quando l’ordigno esplose: «Fui investito da una raffica di schegge. Non ebbi tempo né voglia di pensare a cosa era successo: sanguinavo dappertutto». Putzer fu operato per tre volte a un braccio e a ogni nuova operazione il terrore di subire l’amputazione era così forte che «quando mi davano il cloroformio per addormentarmi, trattenevo il respiro perché volevo restare sveglio, avevo troppa paura che mi tagliassero il braccio, cosa fa un contadino senza braccio? I dottori s’arrabbiavano molto».

Tra i feriti qualcuno si salvò, altri non ce la fecero e morirono la sera stessa o in tarda notte. Ma anche chi sopravvisse portò per sempre addosso i segni della violenza subita; Franz Cassar di Tramin (Termeno) perse un occhio, ebbe entrambi i piedi deformati, le gambe devastate dalle ustioni e 65 schegge che gli restarono piantate per sempre in varie parti del corpo. Josef Praxmarer, altro superstite del «Bozen», trasportava quel giorno una cassetta di munizioni e si trovava in testa al III plotone. La cassetta gli era stata affidata per punizione. «Se una scheggia fosse entrata lì dentro, addio. So di essere stato scaraventato all’indietro e non capivo più niente.» Praxmarer fu portato in un ospedale, insieme ad un altro commilitone, da un civile italiano, con una Balilla: «Mi piacerebbe vedere quell’uomo per ringraziarlo … Nel letto accanto al mio c’era Hermann Tschigg. Gli chiesi: “Come stai?“. E lui: “Bene”. Dopo cinque minuti era morto». Il disprezzo degli ufficiali tedeschi verso i soldati continuò anche in quei momenti di morte e sofferenza: «Ricordo quel matto d’un maggiore Dovek che correva su e giù urlando: “Correte maiali!”. Eravamo lì a pezzi, molti già morti, eppure continuava a chiamarci “maiali”, “Schweine”, come sempre. E dove voleva che corressimo, poi? C’era poco da correre: io avevo le gambe piene di schegge e lì tutt’attorno continuavano a sparare».

Franz Cassar ha avuto la lucidità di ricordare la scena infernale apparsa davanti ai suoi occhi subito dopo l’esplosione: «L’Andergassen di Caldaro che camminava davanti a me ebbe la testa mozzata. Oberlechner morì dissanguato perché l’esplosione gli strappò entrambe le braccia. Io mi ritrovai aggrappato all’inferriata divelta di un negozio, e ricordo due cose soprattutto: non avevo più le scarpe e Johann Kaufmann rantolava accanto ai miei piedi nudi e sanguinanti… Lì per lì non svenni. Svenni solo quando un proiettile mi penetrò qui, alla radice del naso, e mi uscì dalla gola. Non so proprio chi fu a spararlo. Rinvenni quando il tenente Wolgasth mi sollevò per caricarmi su di un’autoambulanza. Poi venne a trovarci anche all’ospedale. Era un fetente, non sorrideva mai. Non sapeva cosa fare per noi, e così ci regalò sue fotografie, con dedica». Anche il sopravvissuto Prader, uno di coloro che erano stati mandati di guardia mentre gli altri si esercitavano al tiro, aveva raggiunto con la bicicletta la compagnia. La bici gli fu strappata di mano dall’onda di pressione provocata dall’esplosione: egli si nascose nell’androne di una casa, pensando si fosse trattato di un bombardamento.

Nel frattempo cominciarono ad arrivare altri soldati, tedeschi e italiani, che presero posizione ai lati di via Rasella e cominciarono a sparare in alto, verso le finestre, credendo che l’ordigno fosse stato lanciato di lassù. I segni dei colpi sparati verso le finestre più alte sono visibili ancora oggi. Gli ufficiali germanici ordinarono di rastrellare tutti i civili presenti nella zona e di allinearli davanti ad alcuni edifici del quartiere. Eugen Dollmann, una delle autorità tedesche più in vista a Roma, ha ricordato nelle sue memorie come la violenta detonazione di via Rasella avesse interrotto i festeggiamenti in corso nel grande salone del ministero delle Corporazioni: «Presto sentimmo di un attentato commesso contro la polizia tedesca, in via Rasella, con delle bombe. Quando arrivai, solo, sul posto, lo spettacolo era raccapricciante: mi permetto di dire che nel giudicare la reazione tedesca non bisogna perdere di vista l’impressione destata da una strage così tremenda. Qua e là giacevano disperse membra umane, in ogni dove si erano formate grandi pozze di sangue, dei feriti agonizzavano, l’aria era piena di gemiti e grida e dalle case si continuava a sparare. Il generale Maelzer mi spiegò che un distaccamento composto per la massima parte di giovani altoatesini incorporati nei metropolitani, mentre di ritorno dalla istruzione faceva la strada solita cantando, era stato colpito da bombe».

Dollmann, nelle memorie pubblicate poco tempo dopo la fine della guerra, sostenne di aver preparato un «programma punitivo» per Roma, alternativo rispetto a quello messo in atto da Kappler alle Ardeatine: «Trasporto immediato dall’Alto Adige a Roma dei parenti delle vittime di via Rasella, con aeroplani che per simili esigenze allora non mancavano. Organizzazione di un solenne corteo funebre che a mezzogiorno del 25 avrebbe dovuto attraversare Roma, con la partecipazione delle vedove e degli orfani delle vittime, intervento del clero, suono di tutte le campane, distribuzione gratuita di edizioni straordinarie di quotidiani con grandi fotografie delle vittime e dei loro resti mutilati. A mezzogiorno preciso trasmissione radiofonica di un discorso di Kesselring ai romani. Tesi principale: salvo risarcimenti finanziari alle famiglie degli uccisi da parte della città, era quello l’ultimo atto di clemenza tedesco. In avvenire ogni cittadino, uomo o donna, avrebbe avuto la sorte di Roma nelle proprie mani, salvandola col contribuire attivamente alla scoperta tempestiva di attentati, con denunzie, eccetera Nel caso invece si fossero verificati altri incidenti, la intera responsabilità sarebbe ricaduta su Roma e sulla sua popolazione. Questo il programma che volevo discutere, come ho detto, con Wolff e Kesselring il pomeriggio del 24».

Nelle ore successive all’attentato i soldati del «Bozen» che erano sopravvissuti furono ricondotti al Viminale, dove erano posti gli alloggiamenti della truppa. Una consuetudine dell’esercito germanico prevedeva che la rappresaglia dovessere essere portata a termine dagli appartenenti allo stesso reparto colpito. Il «Bozen» fu quindi designato a compiere la rappresaglia, mentre le massime cariche tedesche e fasciste presenti a Roma decidevano i nomi di chi avrebbe dovuto morire alle Fosse Ardeatine, nel numero di dieci per ogni caduto a via Rasella. Nel rapporto preparato dalla delegazione italiana presente alla Conferenza di Pace di Parigi del 1946, lo stesso documento che aveva attribuito al «Bozen» responsabilità dirette nella persecuzione degli ebrei romani, vi era una seconda, pesantissima, accusa ai danni dei soldati sudtirolesi: «Fu un’unità del reggimento “Bozen” che diede luogo alla sfrenata rappresaglia contro 320 ostaggi civili trucidati alle Fosse Ardeatine vicino a Roma il 24 marzo 1944».

Senza entrare nel merito di uno dei più sanguinosi massacri compiuti dai nazisti in Italia, è bene ricordare che nessuno dei soldati del reparto è mai stato coinvolto nella strage delle Fosse Ardeatine. Tuttavia, anche in questo caso, non è seguita alcuna smentita ufficiale alle gravi affermazioni di cui sopra (le quali, peraltro, non risultano sostenute dal pur minimo riscontro documentario o testimoniale). Accade quindi che a oltre sessant’anni dai fatti qualcuno possa sentirsi autorizzato a riportare ancora giudizi infamanti come quello indicato: tutta la vicenda è stata lasciata nell’indefinito, anche quando si è cominciato a discernere ciò che era storia da ciò che era propaganda e leggenda. Il risultato prevedibile è che sull’intera questione continuino a circolare voci di ogni sorta. Tutto il discorso precedente diventa ancora più rilevante se si considerano i fatti accaduti nelle ore successive all’attentato: il «Bozen» rifiutò, infatti, di partecipare alla rappresaglia. Si presentò negli alloggiamenti del Viminale il maggiore Dovek per comunicare agli ufficiali e ai sottufficiali l’ordine di far eseguire la vendetta ai soldati altoatesini usciti indenni dall’attentato.

I sottufficiali, accompagnati forse dallo stesso maggiore, raggiunsero le camerate conoscendo in anticipo la risposta che avrebbero avuto da quei soldati, terrorizzati dalla morte orrenda dei loro compagni e sorretti da un forte sentimento cattolico. Trenta soldati, che non erano riusciti a riprendersi dallo shock dell’attentato, non avevano nemmeno fatto rientro al reparto e avevano raggiunto, dopo alcuni giorni di viaggio, le rispettive case in Sudtirolo. Qui furono denunciati e costretti a presentarsi presso la caserma di Gries, dove vennero considerati disertori e trasferiti in compagnie punitive sul fronte orientale. La maggior parte di questi uomini morì o fu elencata tra i dispersi.

Albert Innerbichler, un taglialegna in pensione della provincia di Bolzano, superstite dell’attentato, raccontò nel 1996 a un giornalista del settimanale «Famiglia Cristiana» come si svolse il rifiuto della rappresaglia da parte del «Bozen»: «La mattina dopo l’attentato, mentre ci stavamo vestendo, la guardia ci ordinò all’improvviso di metterci sull’attenti. Entrò un sottufficiale di cui non ricordo il nome che ci disse ancora una volta che avremmo avuto l’onore di vendicarci dei nostri camerati caduti partecipando alle esecuzioni dei detenuti soggetti alla rappresaglia. Uno di noi parlò per tutti: disse che eravamo cattolici e che mai ci saremmo prestati ad uccidere dei civili innocenti. Il sottufficiale, in un silenzio assoluto, gridò Feiglinge! (codardi), e se ne andò via furente». Gli ufficiali e i sottufficiali germanici, vista l’impossibilità di costringere i propri soldati ad un’azione di questo genere, tentarono di convincere il maggiore Dovek circa l’impossibilità di dare un incarico del genere a uomini che «non hanno mai sparato contro altri uomini, nemmeno in battaglia. E’ “ausgeschlossen” (escluso) e “unmöglich” (impossibile) pretendere che si mettano ora a fucilare ostaggi inermi».

Il maggiore Dovek, come prevedibile, andò su tutte le furie: non era capace di comprendere il senso di quel rifiuto che per lui rappresentava solo un atto di codardia. Non a caso l’invettiva che gridò con rabbia all’indirizzo dei soldati del «Bozen» fu «Cani vigliacchi!». Dopodiché se ne andò dal Viminale e raggiunse l’ufficiale superiore da cui aveva ricevuto a sua volta l’ordine: «Mentre un modesto maggiore di polizia, comandante del reggimento al quale apparteneva il distaccamento aggredito in via Rasella, chiamato da Maelzer declinò l’incarico di eseguire il terribile ordine, Kappler annuì all’istante, senza obiezioni né riserve». La notizia del rifiuto del «Bozen» di recarsi alle Ardeatine per compiere il massacro fece presto il giro fra i reparti tedeschi di stanza a Roma: Heinrich Perathoner, maresciallo delle SS e aggregato al comando della polizia tedesca di via Tasso, ricordava di avere saputo dai suoi commilitoni «che quelli del Bozen si erano rifiutati di eseguire la rappresaglia». Le autorità naziste avevano provato a coinvolgere gli uomini del «Bozen», ben sapendo dell’assoluta impossibilità di trasformare quei contadini cattolici, che si consideravano un «bottino di guerra» dei tedeschi, in feroci esecutori disposti a lavorare per la spietata macchina di morte preparata dai nazisti. Ma gli uomini del «Bozen» non erano volontari e non appartenevano alle SS. Se in via Rasella avevano pagato per delitti che non avevano commesso, ora dimostravano di non avere alcuna intenzione di volerne compiere.

Il funerale dei caduti sudtirolesi fu celebrato a Roma il 25 marzo 1943. In tale occasione le autorità naziste obbligarono alcuni soldati del «Bozen» a formare un Blumenkommando, una squadra cui fu ordinato di reperire il maggior numero possibile di fiori, destinati a ornare il luogo nel quale sarebbe avvenuta la celebrazione dei defunti. Quest’ultima si svolse alla presenza delle più alte autorità naziste e fasciste della città di Roma presso l’Heldenfriedhof (Cimitero degli Eroi). Al funerale partecipò tra gli altri anche il generale Wolff che, nel pomeriggio, si recò a visitare in due ospedali romani i superstiti dell’attentato di via Rasella: «Le scene svoltesi al capezzale dei letti per poco non accesero nuove fiamme nel sensibile cuore del generale, convertendolo alle idee di Himmler». Quest’ultimo aveva ordinato a Wolff, stando a quanto riferì Dollmann nel 1949, «l’esodo forzoso dalla capitale della popolazione maschile dei quartieri più pericolosi, famiglie comprese, rastrellando le persone fra i diciotto e i quarantacinque anni».

L’eccidio delle Fosse Ardeatine fu l’effetto più diretto e immediato, ma via Rasella rappresentò una tragica svolta nel sistema repressivo dei tedeschi: la codificazione della violenza sistematica contro vittime innocenti e inermi. Coloro che hanno studiato la strategia dei massacri compiuti dai nazisti in Italia non hanno mancato di osservare come la politica di repressione abbia subito una chiara e innegabile svolta dopo il 23 marzo 1944. Lo stesso giorno dell’attentato fu diramato il seguente ordine, rivolto alle truppe dipendenti dal comandante germanico del sud-ovest: «In futuro nelle località maggiori si dovrà marciare soltanto in ordine sparso, con adeguata protezione alla testa, alle spalle e ai fianchi. Durante la marcia le armi devono essere costantemente pronte a sparare. Bisogna rispondere immediatamente qualora dalle case venga fatto fuoco o si verifichino analoghi atti ostili».

L’ordine del 7 aprile 1944 fu inviato dal comandante supremo germanico della zona sud-ovest a tutte le armate subordinate, indicando l’attuazione delle seguenti misure: «Contro le bande si agirà con azioni pianificate. Bisogna garantire la continua sicurezza della truppa contro attentati e attacchi… Durante la marcia, nelle zone ove vi sia pericolo di partigiani tutte le armi dovranno essere costantemente pronte a sparare. In caso di attacco, aprire immediatamente il fuoco, senza curarsi di eventuali passanti… Il primo comandamento è l’azione vigorosa, decisa e rapida. Chiamerò a rendere conto contro i comandanti deboli e indecisi, perché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wehrmacht stessa. Data la situazione attuale, un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione… In caso di attacchi, bisogna immediatamente circondare le località in cui sono avvenuti; tutti i civili, senza distinzione di stato e di persona, che si trovano nelle vicinanze saranno arrestati. In caso di attacchi particolarmente gravi, si può prendere in considerazione l’incendio immediato delle case da cui si è sparato… La punizione immediata è più importante di un rapporto immediato. Tutti i comandi preposti devono usare la massima asprezza nel proseguimento dell’azione… In generale, i comandi di piazza locali dovranno rendere noto che alla minima azione contro soldati tedeschi verranno prese le più dure contromisure. Ogni abitante del luogo dovrà essere ammonito in proposito: nessun criminale o fiancheggiatore può aspettarsi clemenza».

Con il crollo del fronte a Cassino e con l’avvicinamento dei combattimenti a Roma, fu dato ordine al «Bozen» di ritirarsi fino a Firenze, dove fu ricomposto il reparto decimato nell’attentato. Gli spostamenti del III reggimento di polizia dopo gli avvenimenti di via Rasella possono essere ricostruiti grazie a fonti documentarie tedesche dell’epoca. Mentre gli altri gruppi del Polizeigruppe Rom (sigla con cui si identifica il gruppo di corpi di polizia tedesca di stanza a Roma) furono schierati sul fronte nei Colli Albani, subendo gravi perdite presso Albalonga e Rocca di Papa, il «Bozen» quello stesso mese, al più tardi nei primi giorni di aprile 1944, fu inviato verso l’Italia settentrionale. Il 22 giugno 1944 il battaglione venne segnalato a Castelfranco (con molta probabilità si tratta di Castelfranco di Sotto, in provincia di Pisa), il 28 giugno e 25 luglio 1944 a Lecco , il 29 luglio 1944 a Chiomonte (Torino), il 9 agosto 1944 ad Avigliana e Susa (Torino), il 18 agosto 1944 a Bussoleno (Torino), il 21 agosto 1944 a Bruzolo (Torino), il 9 settembre 1944 a Susa (Torino). Dal 17 febbraio 1945 fino all’aprile 1945 esso fu segnalato a Pieve di Cadore (Belluno). Altri documenti segnalano il passaggio della 9ª compagnia, superstite dell’attentato a via Rasella: il 27 agosto 1944 si trovava a Cismon Valsugana (Vicenza), nell’ottobre 1944 a Roncegno Valsugana, in provincia di Trento.

Da questi dati appare evidente come nell’autunno del 1944 il III battaglione del «Bozen» avesse iniziato a rientrare dentro i confini dell’Alpenvorland. Le truppe schierate nella zona del Cadore ricevettero il 2 maggio 1945 l’ordine di ritirata attraverso la linea Livinallongo-Falzarego-Schluderbach. Dopo pochi chilometri i sudtirolesi si trovarono di fronte a posti di blocco partigiani, che permetterono a loro di rientrare in Alto Adige attraverso la val Pusteria, in direzione di Brunico, «Durante l’estate venne recapitato alla maggior parte di loro l’ordine di presentarsi alle autorità americane di Bolzano. Chi seguì l’ordine fu trattenuto a Bolzano per circa un mese e, salvo complicazioni, fu poi definitivamente congedato.»

Negli ultimi anni ho dedicato molto tempo allo studio della vicenda del «Bozen». Su questo argomento è incentrato il mio libro Dall’Alpenvorland a via Rasella. Storia dei reggimenti di polizia sudtirolesi 1943-1945. Ho scritto diversi altri contributi e approfondimenti per pubblicazioni o riviste a carattere storico. Il mio interesse è nato dalla curiosità di scoprire la storia di un reparto protagonista, suo malgrado, di uno degli episodi più discussi dell’occupazione tedesca a Roma, e delle forze partigiane. Poiché in questo libro descrivo gli avvenimenti dell’epoca in un contesto nazionale ed europeo, ritengo opportuno esporre alcune riflessioni maturate nel tempo.

Alle luce delle informazioni che ho raccolto, mi sono chiesto più volte cosa sia stato narrato nel dopoguerra sul «Bozen»: le notizie fino ad oggi disponibili sono state sempre molto superficiali, scarse, e non di rado contraddittorie. Molti lettori avranno notato quanti volumi siano stati scritti per raccontare la storia di coloro che idearono e realizzarono l’attentato. Questo sarebbe un fatto positivo, se alla quantità fosse corrisposta una ricostruzione dei fatti capace di considerare, nel medesimo tempo, anche la storia del secondo protagonista dell’attentato. Io ho fatto molta fatica a trovare una sola pagina di libro dedicata alla storia di questo reggimento o un capoverso contenente notizie più sostanziose della solita riga, quella che viene ricopiata dal 1944 ad oggi con la stessa, sorprendente, caparbietà degli antichi amanuensi: «Transitava per via Rasella un plotone di SS».

Le mie ricerche mi hanno portato a una prima conclusione: i partigiani comunisti colpirono un simbolo che non era quello previsto. Gli uomini del «Bozen» appartenevano a una popolazione che due regimi totalitari avevano fatto bersaglio di umiliazioni, violenze e repressioni e che aveva dovuto affrontare vent’anni di vessazioni in completa solitudine, senza che alcuna voce significativa, se si escludono rare eccezioni, si fosse mai levata dentro il movimento antifascista italiano. Ecco perché è importante comprendere chi erano i «nazisti» uccisi in via Rasella: persone che avevano subito violenze ed umiliazioni che i giovani partigiani romani non potevano immaginare, nemmeno alla lontana. Il fatto che gli appartenenti ai GAP non lo potessero immaginare non autorizza gli storici, viste le informazioni che abbiamo oggi a nostra disposizione, a continuare una perpetuazione del silenzio.

Voglio fare qui un breve inciso che può esemplificare il discorso. Per questo ho scelto di narrare una breve storia, il cui protagonista è Lois Rauter, contadino della val Pusteria. Sposato, aveva due figli piccoli, di nome Valentin e Heinrich. In seguito agli accordi del 1939 fra Italia e Germania, di cui abbiamo parlato nel Capitolo Quarto, centinaia di migliaia di sudtirolesi furono costretti a decidere se mantenere la cittadinanza italiana, con la prospettiva di essere trasferiti dai propri masi di montagna alla Sicilia, perché questo era il messaggio diffuso dalla propaganda nazista, oppure di ottenere quella germanica: la prospettiva in quest’ultimo caso era quella di essere trasferiti in una «terra promessa» del Terzo Reich, dove tutti i cittadini sudtirolesi avrebbero ricomposto la propria comunità originaria. Lois scelse per la cittadinanza germanica, come fece la stragrande maggioranza della popolazione sudtirolese. Abbandonare l’amata terra e la casa che da secoli era appartenuta alla sua famiglia rappresentava una scelta dolorosa ma tuttavia necessaria: la repressione etnica del fascismo prima e la strumentalizzazione nazista in seguito, imposero agli abitanti della provincia di Bolzano quello che è nota come la «tragedia delle opzioni».

I figli minorenni di Lois, come prevedeva una legge specifica concordata tra le autorità italiane e quelle germaniche, «ereditarono» la decisione del padre: vennero quindi considerati optanti per la Germania. Tuttavia Valentin e Heinrich non erano bimbi come tutti gli altri. Erano fanciulli disabili, deboli e indifesi: diventare «tedeschi» significò per loro entrare nell’infernale meccanismo di selezione nazista, nel processo di «eutanasia selvaggia» avviato nel Terzo Reich all’inizio degli anni Quaranta. Diventare tedesco per un disabile sudtirolese significava entrare in un’allucinante prospettiva di «liberazione»: non quella individuale ma quella del regime di Hitler, che di fatto si liberò in questo modo di decine e decine di migliaia di individui, ritenuti indegni di condurre la propria esistenza. Centinaia di disabili residenti a sud del Brennero furono prelevati dalle loro case o dagli istituti in cui erano ospitati e, in seguito all’intervento di alcuni emissari inviati dal Reich, vennero condotti nelle «fabbriche della morte» in Germania.

Per comprendere la sorte di Valentin e Heinrich seguiamo il racconto che ci è giunto da un testimone diretto degli eventi: «I due figli maggiori di Lois Rauter, un piccolo contadino di montagna che si teneva a galla col contrabbando e qualche lavoro a giornata, erano minorati psichici. Erano paralitici e dondolavano continuamente la testa, uno era muto, ma non erano proprio deficienti… Il bambino muto suonava la fisarmonica, che era un piacere ascoltarlo. Lois aveva optato per la Germania. Un anno fa, nell’estate del 1942, erano andati da lui il sig. Paller, una signora dell’associazione femminile e due signori forestieri, e proprio loro, i forestieri, gli dissero che i due ragazzi malati, non quelli sani, dovevano emigrare, sarebbero stati portati in un ottimo ospedale per essere curati nel migliore modo possibile… Dopo lunghe esitazioni Lois aveva acconsentito, evidentemente, perché aveva paura che lo chiamassero alle armi [gli optanti per la Germania, se erano abili alla leva, venivano richiamati direttamente nell’esercito tedesco]. Un anno dopo, nell’arco neanche di dieci giorni, Lois ricevette due avvisi, o meglio, due foglietti scritti a macchina in cui erano segnati nomi e dati: il tal dei tali, di tot anni, è morto il tal giorno. Gli avvisi in una busta rosso mattone gli erano stati portati da un figlio dei vicini, che era andato in paese a fare delle commissioni…».

Con grande rapidità Valentin e Heinrich furono trasferiti nel Reich ed eliminati. I casi di pazienti disabili, originari del Sudtirolo, sottoposti ad esperimenti umani ed eutanasia dopo il trasferimento in Germania, non si contano. Lois Rauter non venne trasferito in Germania: dopo l’8 settembre 1943 fu obbligato ad arruolarsi nel reggimento di polizia «Bozen», quindi assegnato al III battaglione. A Roma, nell’attentato di via Rasella, perse un braccio: per quel contadino fu una mutilazione simile alla morte, la condanna all’inattività per il resto dell’esistenza. Lois Rauter, i suoi figli, la sua famiglia, insieme a gran parte della popolazione sudtirolese e agli stessi soldati del III battaglione del «Bozen» di stanza a Roma, erano stati tra le vittime predilette dalla repressione nazista e fascista. Ognuno aveva dovuto pagare il fatto di essere «diverso» dentro una comunità nazionale che non era la propria e in cui era stato incluso senza poter decidere. Il Ventennio fascista era stato vissuto nei termini di una quotidiana umiliazione e sopraffazione. Le opzioni e l’occupazione tedesca avevano fatto il resto. Portando l’illusione di una presunta «liberazione nazionale» del Sudtirolo, le autorità germaniche sfruttarono subito come «carne da cannone» tutti gli uomini che fu possibile rastrellare nelle valli dell’Alto Adige, obbligandoli al servizio di guerra. Per queste ragioni io chiedo: erano uomini come Lois Rauter e suoi commilitoni che la resistenza romana voleva eliminare oppure si trattò di un tragico errore? Erano queste «le sanguinarie truppe naziste» che transitavano in via Rasella il 23 marzo 1944?

In questi decenni si è voluto dire o comunque sottintendere che i soldati del «Bozen» meritavano di morire. Nel dopoguerra questo reparto è stato considerato come l’origine di ogni male: non a caso l’argomento con il tempo è diventato una sorta di «metà oscura», una questione lasciata nell’ombra, nella sfera dell’indefinito, del detto e non detto. Si è continuato a parlare di questi soldati altoatesini senza alcun contraddittorio, al fine di giustificare questa o quella posizione politica o le proprie vicende personali. Questo non ha fatto altro che ingenerare polemiche e discussioni, oltre ad alimentare miti e leggende. Alcuni autori «creativi» si sono spinti più in là e non hanno avuto alcuno scrupolo ad accostare i soldati del «Bozen» allo stereotipo del soldato germanico, il biondo invasore impegnato con la sua orda di camerati ad imporre la sanguinosa volontà di Hitler: su questo aspetto esistono esempi a volontà. Era una tentazione comprensibile, questa, quasi scontata, vista la violenza disumana con cui i nazisti massacrarono migliaia di innocenti, donne, anziani e bambini, nei due anni di occupazione in Italia. Come già detto, anche alcuni reparti creati nell’Alpenvorland furono coinvolti in azioni di questo tipo . Ma la Storia non viene costruita con le tentazioni, piuttosto con i tentativi.

Ma anche i tentativi sono mancati: libri, film, romanzi, rappresentazioni teatrali e pubblicistica hanno continuato ad accostare l’immagine degli uomini del «Bozen» a quella dei peggiori criminali nazisti. Ancora oggi, organi d’informazione che dovrebbero garantire rigore, equidistanza e imparzialità, continuano a perpetuare la leggenda, piuttosto che la conoscenza. Questa situazione è divenuta possibile grazie ad un radicato impiego della storia «ad uso politico», il cui fine principale è quello di insinuare nell’opinione pubblica fatti costruiti ad arte: un esempio di frode della conoscenza che io chiamo «doping culturale». E’ per questo disarmante che ancora oggi si continui a sostenere, in malafede, che il «Bozen» fosse formato da volontari appartenenti alle famigerate SS, già responsabili di efferate azioni contro cittadini inermi ed ebrei, o addirittura corresponsabili della strage delle Fosse Ardeatine.

La colonna del «Bozen» fu scelta probabilmente a caso dai partigiani: questo perché transitava da diversi giorni, alla stessa ora, per via Rasella: era un bersaglio facile da centrare, un simbolo che qualcuno, non vogliamo giudicare se consapevole o meno delle conseguenze che la sua azione avrebbe comportato, decise di colpire. Quando tuttavia nel dopoguerra cominciarono ad emergere fatti nuovi circa la vera identità di questo reparto, che con ogni evidenza corrispondeva sempre meno all’immagine voluta, si è continuato a ribadire che la colonna era un simbolo che andava annientato. Dirò di più: proprio a partire da questo momento, anziché assistere a una graduale ed equilibrata ricostruzione dei fatti si è potuto cogliere un tentativo di negazione che obbediva ad una precisa volontà ideologica e politica. Non è importante, dissero in molti, che quei soldati fossero di Bolzano o di Berlino: erano tedeschi e per questo andavano eliminati, dovevano pagare per tutti. Un’affermazione di questo genere ha escluso a priori la possibilità di far emergere la storia degli uomini che stavano dentro a quelle divise ed ha messo a tacere alcune voci che avrebbero potuto contribuire, senza alcun intento polemico, ad una più limpida ricostruzione dei fatti.

Cadono a proposito le parole di Umberto Gandini, un giornalista che diversi anni fa raccolse le testimonianze dei sopravvissuti di via Rasella: «Una volta premesso che nessun uomo “merita” di morire, ed accettata quindi solo per momentanea esigenza dialettica l’orribile “logica” che regola le vicende di guerra, si può dire tranquillamente che quel giorno di marzo, in via Rasella, morirono i soldati tedeschi meno tedeschi di tutti quelli che imperversavano in quegli anni per l’Europa; e i soldati tedeschi che meno di tutti “meritavano” quella fine, perché non avevano fatto assolutamente niente di male, non erano stati nemmeno messi nella condizione di poter fare del male». Un avvenimento, quello consumatosi nella capitale italiana, che in provincia di Bolzano ha portato ad un’espressione ben precisa, il «trauma di Roma» appunto: «Ciò che è successo allora alle ore 15,55 in via Rasella a Roma è molto più della tragedia umana dei 33 morti altoatesini e delle loro famiglie. È un episodio che rappresenta un trauma collettivo per l’Alto Adige che forse non ha pari con nessun’altra vicenda della seconda guerra mondiale».

Se analizziamo quanto è accaduto durante la Seconda guerra mondiale in altre città europee occupate dai tedeschi, ci imbattiamo in una serie di azioni messe in atto per annientare anche i vertici nazisti. E’ noto a tutti che la città di Roma, all’epoca dei fatti di via Rasella, era un centro di potere in cui risiedevano o transitavano numerose autorità, considerate di primissimo piano nell’organizzazione politica e militare dello Stato nazista. Premesso che in caso di attentato una rappresaglia era prevedibile e che a pagare le conseguenze più pesanti sarebbe stata comunque la popolazione civile, e soprattutto quella che si trovava già in carcere, è legittimo chiedersi per quale motivo la resistenza romana mise in atto la sua azione più clamorosa contro un obiettivo scelto probabilmente a caso, piuttosto di pensare all’eliminazione di un’alta carica politica e militare del Terzo Reich: come ognuno può immaginare questo avrebbe provocato gravi lesioni alle fondamenta del sistema di occupazione, sancito l’effettiva vulnerabilità dei vertici dell’apparato nazista e fatto guadagnare al movimento di liberazione un prezioso «capitale morale». L’organizzazione di un’azione di questo tipo avrebbe richiesto, in ogni caso, una preparazione tecnica e militare di primissimo livello.

Penso, ad esempio, a quanto fece la resistenza cecoslovacca a Praga scegliendo come bersaglio il Reichsprotektor di Boemia e Moravia, Reinhard Heydrich, fedelissimo di Himmler, uno tra i maggiori responsabili delle politiche di sterminio contro gli ebrei. Un personaggio che ricopriva il grado di SS-Obergruppenführer: lo stesso esercitato da Karl Wolff, comandante supremo della polizia e delle SS in Italia nel periodo di occupazione, spesso in transito per le vie di Roma. Quest’ultimo, al di là del noto «ravvedimento» cui si rese protagonista negli ultimi mesi di guerra, fu anche uomo di fiducia di Himmler e suo capo di stato maggiore, a stretto contatto con Hitler. Un uomo che nella primavera del 1943 aveva disposto la deportazione di diversi convogli di ebrei russi e polacchi verso i campi di sterminio e che nel luglio 1942 aveva scritto ad un camerata queste parole: «…Con gioia tutta particolare ho letto che da due settimane, ogni giorno, un treno con 5.000 componenti del popolo eletto viene fatto partire per Treblinka…».

Il progetto di un attentato contro Reinhard Heydrich prese forma nell’autunno del 1941: per un’operazione così complessa le autorità cecoslovacche, in esilio nel Regno Unito e in collaborazione con quelle inglesi, iniziarono ad arruolare un certo numero di patrioti volontari fuoriusciti dal Protettorato. Ne seguì un severissimo addestramento effettuato a Manchester (corsi di utilizzo di armi, radiotelegrafia e paracadutismo) e in Scozia (lezioni di sabotaggio, uso degli esplosivi, lotta corpo a corpo, lettura di carte topografiche, autodifesa, lancio con paracadute). Gli uomini della missione «Antropoide» – così si chiamava il nucleo incaricato dell’attentato – furono paracadutati nei dintorni di Praga la notte tra il 28 e il 29 dicembre 1941. Essi furono assistiti nella clandestinità da numerosi civili e si impegnarono a fondo nei meticolosi preparativi dell’agguato.

La mattina del 27 maggio 1942 Heydrich salì sulla sua auto, una Mercedes-Benz nera, accompagnato dall’autista e senza scorta. Il veicolo attraversò Praga: gli occupanti non potevano immaginare che per lunghi mesi la resistenza cecoslovacca aveva studiato ogni movimento del gerarca nazista e dei suoi stretti collaboratori. Il commando degli attentatori si era disposto lungo una strada del quartiere Liben. Alle 10,29 un complice segnalò tramite uno specchietto l’arrivo dell’auto del Reichsprotektor. Quando l’automobile fu a tiro, uno dei due partigiani saltò al centro della strada impugnando un fucile mitragliatore Sten. L’arma si inceppò e a quel punto un secondo uomo, appostato sul vicino marciapiede, lanciò una bomba a mano nell’abitacolo, causando il grave ferimento del generale. Alle 10,32 tutto era terminato: i partigiani si erano dati alla fuga, chi a piedi e chi in bicicletta. L’autista, anch’esso ferito, li inseguì senza successo, sparando diversi colpi di rivoltella.

Heydrich morì il 4 giugno 1942 a causa delle lesioni provocate dall’esplosione. Nei giorni successivi i nazisti misero in atto una rappresaglia tremenda contro la popolazione civile: il villaggio operaio di Lidice fu raso al suolo. Prima vennero fucilati 172 abitanti, quindi altri 300, in prevalenza donne e bambini, furono trasferiti nei campi di concentramento e di sterminio. Altri villaggi, anch’essi sospettati di aver aiutato gli attentatori e i loro complici, subirono gravissimi eccidi. Il nucleo partigiano che aveva compiuto l’attentato fu individuato il 18 giugno 1942 dalla Gestapo grazie alla soffiata di un traditore, Karel Curda. I sette partigiani del commando (Jan Kubis, Josef Gabcik, Adolf Opalka, Josef Valcik, Josef Bublik, Jan Hruby, Jaroslav Svarc) resistettero per ore e ore nella cripta della chiesa dei SS. Cirillo e Metodio a Praga, dove si erano nascosti grazie anche alla complicità del vescovo ortodosso (che in seguito fu condannato a morte). Dopo diverse ore di combattimento, coloro che erano sopravissuti al conflitto a fuoco preferirono togliersi la vita piuttosto che consegnarsi alla Gestapo.

Nonostante la sanguinosa repressione l’attentato aveva raggiunto il suo obiettivo: colpire con precisione chirurgica un centro nevralgico, il cuore ideologico e più feroce del sistema di occupazione. Il sacrificio di civili e partigiani volle dimostrare a tutta la resistenza europea che la guerriglia aveva la forza, la capacità e l’organizzazione per sfidare e annientare le figure cruciali della Germania nazista. Con l’attentato ad Heydrich la popolazione cecoslovacca pagò un prezzo molto elevato: in totale le persone eliminate furono oltre 2.000. Si trattò però di un episodio clamoroso che fu conosciuto oltre i confini di quella nazione.

Rileggendo la Storia ci si accorge che le azioni terroristiche sono state, e sono, effettuate in base a una logica ben precisa: seminare il terrore tra le fila di quello che viene considerato, a torto o a ragione, l’avversario da abbattere. Non importa se quest’ultimo sia espressione di un regime dittatoriale o democratico, che i bersagli siano militari o civili, colpevoli o innocenti. Tutto può diventare un simbolo da colpire: dipende da chi determina gli obiettivi e le priorità. Non c’è spazio per verifiche, approfondimenti e distinguo. Prevale il raggiungimento del risultato, che può dipendere da efficienza e calcolato cinismo, oppure da improvvisazione e colpevole leggerezza. E sul piano morale ha un peso relativo se un attentato è poi giudicato «azione di guerra». Le riflessioni precedenti mi hanno condotto ad un interrogativo che mi pongo spesso: l’attentato partigiano di via Rasella contro i soldati altoatesini del «Bozen» rappresentava un obiettivo che poteva essere considerato «pagante»? E da chi?...".

--Vinzenz 14:19, 21 dic 2006 (CET)Rispondi

'''Lorenzo Baratter, Le Dolomiti del Terzo Reich, Mursia, Milano, 2005.'''

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