Discussioni utente:Eddie619/sandbox

Introduzione

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L'antropologia culturale, sin dai primordi, è strettamente connessa con la dimensione mitico-religiosa. Il mito è stato ambito d’indagine dei primi evoluzionisti, che vi rinvennero dei modi primordiali di spiegazione del mondo. Gli antropologi evoluzionisti tendevano ad associare cultura classica e cultura “primitiva” di popolazioni a loro contemporanee, ponendole entrambe come tappe necessarie dello sviluppo umano. Questa concezione era già presente nel positivismo comtiano, e più precisamente nella legge dei tre stadi, in cui la cultura classica e quella primitiva erano riassunte nel cosiddetto stadio teologico.[1]

Nonostante il tramonto della teoria evoluzionistica, applicata alle scienze umane da Herbert Spencer, il mito continuò ad essere al centro degli studi antropologici, come dimostrano i lavori di studiosi novecenteschi quali Vladimir Propp e Claude Lévi-Strauss.

Tali studi antropologici hanno consentito l’ampliarsi degli strumenti con cui interpretare non solo i miti delle cosiddette civiltà “primitive”, ma anche i miti che fanno da sfondo alla letteratura classica, in particolare le tragedie. L’origine della tragedia è in effetti un tema che hanno affrontato diversi antropologi e che ancora oggi rimane irrisolto. La mancanza di documentazione sufficiente ci impedisce infatti di stabilire con certezza come sia nata la tragedia, oltre a spiegarci la stessa etimologia del termine, a cui forse è legata la chiave del mistero. Si sono succedute così teorie su teorie, nessuna delle quali è diventata quella predominante, nate nell’alveo dell’antropologia, oppure, viceversa, teorie nate in diversi ambiti, ad es. filosofia e psicologia, che hanno invece influenzato gli stessi antropologi, come nel caso di Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud.

Lo studio che seguirà intenderà prima di tutto descrivere la società espressa dalla mitologia omerica e tragica, quindi esporre le teorie, antropologiche e non, della nascita della tragedia, dimostrando il filo rosso che collega antropologia e filologia classica. Infine, si cercherà di applicare queste stesse teorie all’interpretazione di tragedie specifiche, ossia l’Aiace di Sofocle e l’Ippolito di Euripide.

Il mondo omerico: una società del dono

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Chi deve affrontare la questione dell’interpretazione del mito non può non confrontarsi con Omero e i suoi due capolavori. Perché la mitologia greca contenuta nelle tragedie si rifà per buona parte a miti già presenti in Iliade ed Odissea, ma anche perché Omero è stato il centro della paideia greca. I valori contenuti nella società descritta da Omero hanno continuato a permeare l’atmosfera culturale greca, anche molto dopo la fine dell’età del ferro.
Non discuteremo qui della questione omerica; ciò che ci interessa è l’immagine dei greci che emerge dalle sue opere. Insomma, che società è quella omerica?
Prima di tutto bisogna chiarire a che periodo risale la società. La Guerra di Troia è datata, approssimativamente, fra XIII e XII sec.,[2] ma la società ivi descritta sarebbe sicuramente posteriore. Secondo alcuni studiosi la società omerica risalirebbe ai secoli X-IX[3], per l’assenza di allusioni alle armi in ferro, alla colonizzazione, alla scrittura, alla Ionia. L’attestazione del termine polis non posticipa questa datazione, dato che quella omerica è la polis micenea, diversa da quella d’epoca arcaica e classica. Secondo altri studiosi[4] l’Odissea reca tracce dell’organizzazione cittadina di fine VII sec. Al di là di datazioni precise, l’Iliade descriverebbe una società più arcaica di quella dell’Odissea: la figura di Agamennone ricorda i re micenei, mentre quella di Ulisse è inserita in un contesto dove i greci già si muovevano per mare, e quindi già era presente l' αποικία (colonia).

Il mondo omerico è il mondo degli άριστοi (migliori), unici protagonisti delle vicende eroiche, tutti connessi parentalmente a divinità. La principale occupazione è la guerra, scatenata da razzie, furti di greggi o rapimenti di persone.
L’eroe omerico combatte in prima fila, essendo la guerra l’attività nobile per eccellenza, fonte di τιμἡ (onore), concetto al centro di quella che sarà poi definita “civiltà di vergogna”.
Gli eroi sono dediti fra un combattimento e un altro a sacrifici agli dei, unica loro occupazione oltre alla guerra e alla partecipazione ai consigli bellici.
Il resto della popolazione forma il Λάος (popolo), di cui i poemi parlano poco, formato da uomini liberi, pastori, contadini; diverso è il caso dei Δημιουργόι, che indica perlopiù artigiani specializzati, come falegnami e fabbri, ma anche medici, indovini ed aedi.
I non liberi constano soprattutto di donne, dato che si preferisce uccidere il nemico piuttosto che schiavizzarlo; le donne invece sono considerate parte del bottino, e sono vendute come schiave; in teoria, chiunque può diventare schiavo, come nel caso del porcaro di Ulisse Eumeo, originariamente figlio di un principe.

Il fulcro della società omerica è l’οικος, a cui tutti, eccetto i cosiddetti teti, sono legati. L’oikos è un’organizzazione familiare, insieme di beni e uomini. Garantisce la sicurezza e i bisogni materiali, indica le norme sociali e religiose. L’individuo esiste solo all’interno della cornice dell’oikos.
Ogni oikos è dotato di un territorio, di un capitale di beni e manodopera più o meno esteso.
A capo dell’oikos c’è il βασιλεύς, termine con cui non si indica ancora il re tradizionale, ma una sorta di primus inter pares. In caso di assenza prolungata del basileus, il suo potere è oggetto di competizione tra i nobili, come nel caso dei Proci. Il potere “regale” non è stabile, è legato alla persona e non ereditario, esercitato con la forza e fondato sulla ricchezza dell’oikos del basileus, ossia sulla quantità di terre e bestiame da lui possedute.
Il basileus omerico non ha niente della ricchezza del ϝάναξ miceneo. Non c’è presenza di oro, ad esempio. E la reggia di Odisseo è semplice, e vede il padre del basileus vivere a fianco di un porcario.
Ma quali sono le prerogative del basileus? Il basileus si occupa di decidere e dirigere la guerra, oltre che a convocare l’assemblea. Non si occupa invece di esercitare la giustizia. L’assemblea è convocata dal re solo quando lo ritiene opportuno. Il demos è svuotato di qualsivoglia valenza politica significativa.
La base della ricchezza del basileus, la terra, determina la gerarchia fra gli oìkoi. Viene usata come pascolo di cavalli e greggi, mentre la coltivazione di cereali, vite e alberi da frutto è un’attività secondaria. Nell’oikos vige un’autarchia quasi totale, e il basileus deve “importare” solo prodotti d’artigianato come metalli, utensili e armi.
Le derrate alimentari e le manifatture vengono immagazzinate nella casa del basileus, e poi redistribuite secondo necessità tra i membri.
Il basileus può aumentare le sue ricchezze grazie ad un τέμενος, un lotto supplementare nella distribuzione del bottino e soprattutto doni in gran numero.

Il fulcro dell’economia e società greche, secondo alcuni studiosi,[5] si regge sul meccanismo di dono e controdono così come è stato concepito da Marcel Mauss: tutte le eccedenze dell’oikos vengono tesaurizzate e conservate per essere usate come doni. Il basileus dispone di un tesoro costituito da oggetti in bronzo, ferro, oro, stoffe, scambiati fra gli eroi. Un esempio sono gli hèdna, regali del maschio fatti alla famiglia della futura sposa, e la dote della femmina.
Il dono è il primo momento di uno scambio continuo fra gli aristoi. L’accumulo della ricchezza, poi tesaurizzata, è finalizzato unicamente a creare e rafforzare legami fra famiglie e comunità politiche. Il gesto è più importante dell’oggetto scambiato, il che porta alla svalutazione di baratto e commercio come sono tradizionalmente concepiti. Gli scambi col mondo esterno sono infatti lasciati a βάρβαροι, non greci, e vige una certa diffidenza verso lo straniero-commerciante.

Fra i valori degli eroi spicca il rispetto della religione, che consiste nell’onore degli dei e nell’esercizio dei rituali sacrifici, consultazione degli indovini, preghiere, libagioni, offerte, riti funerari). Lo status dell’eroe dipende dalla memoria della comunità. Dev’essere un guerriero valoros, buon capo dell’oìkos, ospite generoso, concorrente leale nelle gare. Il valore principale è la sopraccitata timè, che può portarlo alla morte. L’obiettivo dell’eroe è infatti conquistare la gloria eterna attraverso i canti degli aedi.

La questione delle origini

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La tragedia e l’interpretazione di Aristotele

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Il teatro, nel suo massimo splendore, è elemento fondamentale nella società greca classica, e più specificatamente della cultura attica del V sec., quando ormai si è affermata la democrazia. Il teatro è intimamente connesso alla religione: commedie e tragedie sono rappresentate nelle gare che si svolgono in occasione delle grandi feste religiose. Ad Atene queste gare hanno luogo in onore di Dioniso, durante tre feste (Dionisie rustiche, Lenee, e Grandi Dionisie). Le Grandi Dionisie offrono spazio alle rappresentazioni più diverse: commedia, tragedia, dramma satiresco e ditirambo.
La città ne controlla l'intera organizzazione e l'arconte eponimo ne è il responsabile. I coreghi, i poeti, gli spettacoli, gli attori e le gare sono scelti dalla città; i coreghi sono i finanziatori degli spettacoli e sono scelti fra cittadini molto ricchi (le spese erano piuttosto dispendiose).
Negli agoni tragici sono impegnati tre autori, che devono presentare quattro pezzi ciascuno, una trilogia di tre tragedie e un dramma satiresco; per la commedia ne sono invece impiegati cinque.
Oltre che dai coreuti, i membri del coro, diretti dal corifeo, recitano tre attori, i protagonisti, che rivestono più ruoli. Coro e attori sono formati solo da maschi, che indossano la maschera per interpretare ogni personaggio.
I giudici in ogni gara assegnano tre premi, al miglior poeta, corego e attore, che consistono in corone d'edera.
In occasione delle Grandi Dionisie la gara avviene il giorno dopo la processione e il sacrificio nel santuario di Dioniso. La durata della gara è di tre giorni. Sull'orchestra si trova la statua di Dioniso; la giornata inizia con sacrifici e libagioni
Se inizialmente lo spettacolo era a pagamento, poi verrà istituita una cassa apposita per i cittadini poveri. Lo spettacolo avviene in un teatro, in legno nel V sec e in pietra nel IV; dura dall'alba al tramonto. Le rappresentazioni teatrali delle Grandi Dionisie servono alla città per dimostrare la propria influenza politica, e in tale occasione gli alleati portano il proprio tributo ad Atene.

Il teatro è uno dei luoghi in cui si dibattono questioni che interessano i cittadini; lo spettatore vede il confrontarsi di opinioni e idee sui problemi attuali della città, per rifletterne e formarsi una propria opinione.
La tragedia succede all'epica e alla poesia lirica e svanisce con l'affermazione della filosofia. Le storie tratte dalle tragedie sono note a tutti gli antichi greci. Il pubblico non va a teatro per scoprire nuove storie, ma per vedere il modo con cui sono raccontate storie già conosciute.
Mentre i temi sono le leggende degli eroi della mitologia vecchia di secoli e secoli, la materia è il pensiero sociale, politico, giuridico, religioso della città attuale, come nel caso dell’Antigone, che rappresenta il contrasto fra legge di natura e legge dello stato.

Ma qual è l’origine della tragedia? Da cosa deriva? Perché essa è riuscita ad imporsi così facilmente nella società greca? E soprattutto, qual è il senso della tragedia, il suo significato più intimo e profondo?
Le fonti che possediamo riguardo alla tragedia greca sono scarse, e i testi di Eschilo, Sofocle ed Euripide costituiscono la quasi totalità del materiale che possediamo. Avendo perlopiù tragedie già formate, storici, filologi ed antropologi hanno, nel tempo, sbattuto la testa in continuazione cercando di rispondere ai dubbi sulla formazione della tragedia, e le interpretazioni che ci sono pervenute sono le più varie.

Il mondo classico, però, non è sordo al problema. E ogni interpretazione moderna non può esimersi dall’analisi fatta da Aristotele nel capitolo IV della sua Poetica.
La tragedia è visto come un rito collettivo, intimamente legato alla polis, di cui condivide il destino. Il pubblico partecipa in modo empatico alla tragedia. Il protagonista è la proiezione degli stessi sentimenti che provano gli spettatori. La funzione essenziale della tragedia è di κάθαρσις, catarsi delle passioni al centro della rappresentazione scenica.[6] Il pubblico vive in prima persona i conflitti alla base della tragedia, spesso attualizzati dall’autore. Il mito ha una funzione paradigmatica, è il punto di partenza di discussioni a carattere sociale e filosofico.
Ciò che più deve interessarci è l’interpretazione aristotelica dell’origine della tragedia, qui riportata:

«Nata dunque la tragedia all’inizio dall’improvvisazione (sia essa sia la commedia da quelli che guidavano il coro: la prima dal ditirambo, mentre la seconda dalle processioni falliche che ancor oggi sono rimaste in uso in molte città), crebbe un poco per volta, sviluppando gli autori quanto via via di essa si rendeva manifesto; e dopo aver subìto molti mutamenti si arrestò, poiché aveva conseguito la natura sua propria.</ref> Il numero degli attori Eschilo per primo portò da uno a due, diminuì l’importanza del coro e promosse il discorso parlato al ruolo di protagonista; il terzo attore e la pittura della scena furono poi opera di Sofocle. C’è ancora la grandezza: partendo da racconti brevi e da uno stile giocoso, perché si stava mutando da un originario genere satiresco, soltanto più tardi la tragedia acquistò un carattere serio, mentre il metro dal primitivo tetrametro si fece giambico. Giacché dapprima si servivano del tetrametro perché era una poesia di carattere satiresco e più danzata, ma quando poi si introdusse il linguaggio parlato, la sua natura stessa trovò il metro adatto, perché quello giambico è il metro più vicino al parlato; e la prova ne è questa: spesso nel parlare tra noi pronunciamo dei giambi mentre molto di rado degli esametri, ed allora ci solleviamo al di sopra della cadenza del parlato.»

I dubbi che si levano, a questo punto, sono molti. Qual è il legame fra tragedia e ditirambo, canto in onore di Dioniso? Che ruolo gioca la figura di Dioniso nella tragedia greca classica? E soprattutto, come ha fatto un genere teatrale non certo allegro quale la tragedia, a derivare da un “originario genere satiresco”? E se dietro Dioniso, in realtà, si nascondesse qualcun altro?

Il ditirambo

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I greci hanno riflettuto spesso sul loro passato, per rinvenire le loro origini, e questo riguarda anche riflessioni sull’arte, sulla filosofia, sulla letteratura. Mancando gli strumenti necessari per trovare la verità, i greci tendevano a spiegare spesso le origini di un dato fenomeno attraverso un mito, e nel caso della letteratura, attraverso un personaggio mitico. Ogni genere ha un suo inventore. Non importa se sia esistito o meno, i greci sono ossessionati dalla ricerca del cosiddetto “ευρετες”. E ovviamente anche il ditirambo ce l’ha. Ce lo racconta Erodoto:

«Periandro, colui che aveva rivelato l’oracolo a Trasibulo, era figlio di Cipselo. Periandro, inoltre, era tiranno di Corinto. Raccontano dunque i Corinzi – ed i Lesbii sono d’accordo con questi ultimi – che nella sua vita gli capitò un prodigio enorme: Arione di Metimna – che era un citaredo, secondo a nessuno tra quelli della sua epoca e primo tra quelli di cui abbiamo conoscenza a comporre un ditirambo, dargli un nome e farlo rappresentare a Corinto – fu trasportato da un delfino a riva fino al Tenaro. Raccontano che questo Arione, che passava la maggior parte del suo tempo presso Periandro, fu preso dal desiderio di recarsi per mare in Italia ed in Sicilia e che – guadagnate enormi ricchezze – volesse poi ritornare di nuovo a Corinto. Partì dunque da Taranto e – non fidandosi di nessuno più che dei Corinzi, noleggiò una nave gestita da Corinzi. Ma costoro in piena navigazione pensarono di impadronirsi delle sue ricchezze dopo averlo gettato fuori bordo. Comprese le loro intenzioni, li supplicava, offrendo loro i suoi bene, pur di aver salva la vita. Non riuscì a persuaderli, anzi quelli gli ordinarono di uccidersi da solo – in modo da avere una sepoltura in terra – oppure di gettarsi immediatamente in mare. Allora Arione, vistosi alle strette, li pregò che – dal momento che quella era la loro decisione – gli concedessero di cantare, in piedi tra i banchi della nave, con tutta l’acconciatura. Promise che – dopo aver cantato – si sarebbe ucciso. A quelli fece immenso piacere la possibilità di stare per ascoltare il migliore di tutti i citaredi, e si ritirarono dalla prua verso il centro dell’imbarcazione. Allora egli, indossato l’abbigliamento completo ed afferrata la cetra, in piedi tra i banchi eseguì il “nomos orthios” e, terminato il canto, si gettò in mare così com’era, completamente abbigliato. Quelli fecero rotta verso Corinto, ma si racconta che un delfino abbia portato Arione a riva al Tanaro dopo esserselo caricato sul dorso. Sceso a terra, si recò a Corinto con il suo abito di scena e – arrivato – raccontò tutto quanto era accaduto. Periandro, tuttavia, che non gli credeva, lo fece tenere in custodia, non permettendogli di andare in alcun luogo. Contemporaneamente, però, attendeva l’arrivo dei marinai. Appena giunsero, dunque, dopo averli fatti chiamare chiese loro se gli potessero dare notizie di Arione. Mentre quelli affermavano che era sano e salvo in Italia e che lo avevano lascito in perfetta salute a Taranto, comparve loro Arione, vestito come quando era saltato in mare. Quelli allora, stupefatti e scoperti, non poterono più negare. Questi sono i fatti che raccontano sia i Corinzi che i Lesbii, e a Tenaro c’è una statua votiva di bronzo di Arione, non grande, che raffigura un uomo su un delfino.»

Il personaggio di Arione ricorre anche in altre opere, che aggiungono nuove informazioni. Arione avrebbe introdotto i Satiri nel coro[7] e avrebbe rappresentato anche il primo dramma tragico.[8] Cosa dobbiamo ricavarne?
Arione avrebbe trasformato l’antico ditirambo, genere lirico, in un nuovo genere che sarebbe invece dialogico-narrativo, sostituendo i Slieni, uomini-cavallo, della tradizione attica, ai Satiri, uomini-capro, delle saghe peloponnesiache, introducendo forse un nucleo mitologico di tipo eroico nel mito dionisiaco.[9]
Il risultato sarebbe stato l’anello mancante fra l’antico ditirambo e la tragedia come la conosciamo noi. Il genere satiresco di cui parla Aristotele non sarebbe il quarto elemento della tetralogia teatrale (il cosiddetto dramma satiresco), ma starebbe a indicare quella fase in cui si formò il coro dei satiri, la cui evoluzione avrebbe portato alla tragedia vera e propria.
Una prova a favore di questa tesi sarebbe rappresentata da un’opera del poeta lirico Bacchilide, una forma innovata di ditirambo costituita in realtà da un dialogo fra il re d’Atene Egeo e un coro composto dai suoi sudditi. Sarebbe il testo perfetto per risolvere il problema, ma Bacchilide scrisse in un periodo in cui la tragedia era già praticamente formata.
Come possiamo servirci allora delle nuove informazioni sul ditirambo? Ciò che può interessarci è l’origine peloponnesiaca (Erodoto parla di Corinto), per non parlare del legame con Dioniso. Ma questo legame in cosa consiste, concretamente? Quali sono le tracce di Dioniso nella tragedia così come la conosciamo?

Il capro espiatorio

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Il “canto del capro”

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La filologia, forse, può dirci qualcosa di più. In effetti fino ad ora non abbiamo ancora detto cosa significa “tragedia”. Insomma, abbiamo descritto il genere senza dire cosa indica il nome.
Tragedia in greco è τραγῳδία, composto dalle parole τράγος e ωδή. Se la seconda parola, canto, non ci desta perplessità, più problemi causa la prima parola. Tràgos significa infatti capro. Ma cosa c’entra il capro con una rappresentazione teatrale?
Secondo l’interpretazione più antica, pre-ellenistica, significherebbe “canto dei capri”, in riferimento ai coreuti e al loro legame con i satiri. In età ellenistica è stato invece inteso come “canto per il capro”, dove quest’ultimo sarebbe stato il premio in palio di una gara. La teoria è attestata anche fra i Romani.[10]

Lo stesso Erodoto, però, ci fornisce un’altra informazione preziosa che può farci fare un ulteriore passo in avanti nella questione. Sto parlando del brano delle Storie riguardo Clistene, tiranno di Sicione.[11]
Clistene, in lotta con gli abitanti di Argo, decise di colpirli indirettamente, proibendo il culto locale dell’eroe Adrasto, presente nel ciclo tebano.

«Con ciò mi sembra che Clistene abbia imitato il suo nonno materno Clistene, tiranno di Sicione. Quando era in guerra contro gli Argivi, questo Clistene soppresse a Sicione le competizioni tra i rapsodi per i poemi omerici, per il fatto che Argivi e Argo vi sono troppo elogiati; inoltre, poiché proprio nella piazza centrale di Sicione sorgeva, e sorge ancora, un eroon dedicato ad Adrasto figlio di Talao, a Clistene venne voglia di espellerlo dal paese, perché Adrasto era Argivo: si recò a Delfi e chiese all'oracolo se poteva estromettere Adrasto; e la Pizia gli rispose sentenziando che Adrasto era re dei Sicioni, lui invece il loro lapidatore. Poiché il dio non lo autorizzava, tornato a casa, meditava un sistema grazie al quale Adrasto se ne andasse da sé. Quando credette di averlo trovato, inviò a Tebe di Beozia un messaggio: voleva trasferire a Sicione la salma di Melanippo figlio di Astaco; e i Tebani acconsentirono. Clistene portò in patria i resti di Melanippo, gli assegnò un recinto sacro dentro al Pritaneo e lì lo collocò, nel punto più difeso. Clistene traslò Melanippo (certo questo va spiegato) in quanto era nemico giurato di Adrasto: gli aveva ucciso il fratello Meciste e il genero Tideo. Una volta dedicatogli il recinto, distolse da Adrasto sacrifici e festeggiamenti e li concesse a Melanippo. I Sicioni erano soliti solennizzare Adrasto in maniera splendida: infatti il loro paese apparteneva a Polibo e Adrasto era nipote di Polibo (per parte della figlia), sicché Polibo, morendo senza figli, gli aveva lasciato il potere. Vari altri onori i Sicioni tributavano ad Adrasto, in particolare ne celebravano le sventure con cori tragici, venerando non più Dioniso ma Adrasto. Clistene restituì i cori a Dioniso, e il resto della cerimonia lo dedicò a Melanippo.»

Apparentemente non c’è nulla di sconvolgente. L’eroe Adrasto sarebbe al centro di una tragedia che, appunto, ne celebrava le sventure. Ma il termine utilizzato nella frase finale tradotto con “restituì”, è però traducibile anche con “attribuì”.[9] Allora, in realtà, Dioniso è solo il sostituto di tutt’altra persona, di Adrasto?
Il Lessico Suda arricchisce la vicenda. Un certo Epigene, secondo alcuni anch’egli un’euretes come Arione, avrebbe cercato di introdurre nella città di Corinto i cori tragici in onore di Dioniso, a cui il popolo rispose con “ουδεν προσ τον διονυσον”, che significa “Niente a che fare con Dioniso”.[12] La frase, intendibile superficialmente come un rifiuto della popolazione al culto dionisiaco, potrebbe invece significare che sono i cori tragici a non aver “niente a che fare con Dioniso”.

Insomma, dietro Dioniso si celerebbe l’Eroe e i suoi “pathea”, e il capro avrebbe tutt’altro significato. In realtà il coro avrebbe cantato la passione e morte del vero protagonista della tragedia, poi sostituito con Dioniso, forse, come ci suggerisce la vicenda di Clistene, per ragioni politiche. A questo punto, risolta una questione, ne emerge un’altra. Chi è questo eroe? Perché cantarne la passione e la morte? E il fatto che sia stato “scelto” come sostituto l’unico dio, Dioniso, protagonista di una morte e una rinascita, è soltanto un caso?

Il Re Sacro

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La moderna questione tragica nasce all’interno dell’antropologia, il cui interesse per la materia, come spiegato sopra, è elevatissimo. Un’antropologia, appunto, densa di evoluzionismo, e quindi tendente a classificazioni con cui dividere tradizioni, costumi, mentalità, etc. in periodizzazioni diverse da quelle usate dalla storiografia ufficiale. Periodizzazioni “eterne”, attraversate, necessariamente, da ogni cultura. Come i sopraccitati tre stadi di Auguste Comte.
Periodizzazioni di questo genere sono indispensabili per comprendere l’interpretazione della tragedia da parte di James George Frazer, contenuta ne “Il ramo d’oro”, opera indispensabile sia nella questione tragica, sia nella storia dell’antropologia culturale.

Anche qui, come in Comte, gli stadi sono tre: magia, religione e scienza. Essendo tappe evolutive di uno stesso processo, le tre sfere non sono antitetiche, rispondendo alle stesse stesse esigenze. In generale, l’esigenza di controllare la natura. Le figure caratteristiche dei tre stadi evolutivi (mago, sacerdote e scienziato) presentano caratteristiche simili, avendo la stessa logica, lo stesso obiettivo, la stessa meticolosità e ripetitività. Ed è fra queste figure che si nasconde il nostro Eroe.

Nel passaggio dalla magia alla religione, emergono figure carismatiche che si pongono come intermediarie fra la vita di ogni giorno e le forze capricciose della natura. I sacerdoti sono quindi garanti della continuità della vita naturale, e quindi anche dell’ordine sociale e del potere. Delegato dalla “forza divina”, questa figura è un vero e proprio Re Sacro. Date le premesse, a lui erano legate la fertilità dei campi e la fecondità degli animali. Il Re, identificato con la natura non può invecchiare; altrimenti, con lui invecchierebbe anche la natura, e con essa sarebbero andati in rovina i raccolti e gli armenti. Non deve sopraggiungere alcuna decadenza sessuale nel Re Sacro, o anche la natura, che è una sola cosa con lui, non potrebbe riprodursi. Il Re Sacro deve essere per sempre giovane e soprattutto fertile. Come fare?

La risposta è semplice: sostituirlo. Ma una sostituzione “dolce” non risolverebbe il problema. Ci sarebbe un nuovo Re Sacro giovane, ma rimarrebbe un Re Sacro destinato alla vecchiaia, e ciò non deve accadere. La procedura di passaggio ci è descritta dallo stesso Frazer all’inizio della sua opera:

(EN)

«Within the sanctuary at Nemi grew a certain tree of which no branch might be broken. Only a runaway slave was allowed to break off, if he could, one of its boughs. Success in the attempt entitled him to fight the priest in single combat, and if he slew him he reigned in his stead with the title of King of the Wood (Rex Nemorensis).»

(IT)

«Nel santuario di Nemi cresceva un albero da cui non era lecito spezzare alcun ramo. Soltanto uno schiavo fuggitivo, se ci fosse riuscito, poteva spezzarne uno. In questo caso egli aveva il diritto di battersi col sacerdote e, se l’uccideva, regnava in sua vece col titolo di re del bosco, rex nemorensis.»

Il Re Sacro dev’essere UCCISO prima che sopraggiunga la sua vecchiaia, e il suo omicida diverrà il nuovo Re Sacro, a sua volta ucciso dal suo successore, proprio come accadeva col sacerdote di Diana nel tempio di Nemi. Questo culto sanguinario è legato all’identificazione del Re Sacro con lo Spirito del Grano, di cui ne condivide il destino. Come il seme deve morire per poi risorgere sotto forma di spiga, allo stesso modo il Re Sacro veniva ucciso per poi reincarnasi in un altro Re, in primavera, nel periodo della fioritura del grano. Il Re Sacro sarebbe poi stato sostituito dal sacrificio di un animale (il capro!) o altri sacrifici simbolici.

(EN)

«Whenever Marseilles, one of the busiest and most brilliant of Greek colonies, was ravaged by a plague, a man of the poorer classes used to offer himself as a scapegoat. For a whole year he was maintained at the public expense, being fed on choice and pure food. At the expiry of the year he was dressed in sacred garments, decked with holy branches, and led through the whole city, while prayers were uttered that all the evils of the people might fall on his head. He was then cast out of the city or stoned to death by the people outside of the walls. The Athenians regularly maintained a number of degraded and useless beings at the public expense; and when any calamity, such as plague, drought, or famine, befell the city, they sacrificed two of these outcast scapegoats. One of the victims was sacrificed for the men and the other for the women. The former wore round his neck a string of black, the latter a string of white figs. Sometimes, it seems, the victim slain on behalf of the women was a woman. They were led about the city and then sacrificed, apparently by being stoned to death outside the city. But such sacrifices were not confined to extraordinary occasions of public calamity; it appears that every year, at the festival of the Thargelia in May, two victims, one for the men and one for the women, were led out of Athens and stoned to death. The city of Abdera in Thrace was publicly purified once a year, and one of the burghers, set apart for the purpose, was stoned to death as a scapegoat or vicarious sacrifice for the life of all the others; six days before his execution he was excommunicated, "in order that he alone might bear the sins of all the people»

(IT)

«Ogni volta che Marsiglia, una tra le più attive e splendide colonie greche, era infestata da una pestilenza, un uomo delle classi povere si offriva come capro espiatorio. Per tutto un anno veniva mantenuto a spese pubbliche e gli si servivano le più squisite vivande a suo piacere. Allo spirare dell'anno, veniva vestito con abiti sacri, ornato di sacri rami e condotto per tutta la città, mentre s'innalzavano preghiere perché tutti i mali del popolo ricadessero sulla sua testa. Alla fine lo cacciavano dalla città oppure il popolo fuori delle mura lo lapidava a morte. Gli Ateniesi mantenevano regolarmente un certo numero di creature degradate e inutili a spese dello Stato, e quando cadeva sulla città qualche calamità, come pestilenze, siccità o carestie, sacrificavano come capri espiatori due di questi infelici. Una delle vittime veniva sacrificata per gli uomini e l'altra per le donne. La prima portava intorno al collo una collana di fichi neri, la seconda una collana di fichi bianchi. Qualche volta pare che la vittima uccisa per conto delle donne fosse essa stessa una donna. Si portavano in giro per la città e poi si sacrificavano, pare, lapidandole fuori delle mura. Ma tali sacrifici non erano limitati a straordinarie occasioni di pubbliche calamità; sembra che ogni anno alla festa delle Targelie, a maggio, ai portassero fuori di Atene e si uccidessero per lapidazione due vittime, una per gli uomini e una per le donne. La città di Abdera in Tracia veniva ogni anno pubblicamente purificata, e uno dei cittadini, scelto per questo scopo, veniva lapidato come capro espiatorio o come delegato al sacrificio per salvare la vita di tutti gli altri; sei giorni prima dell'esecuzione veniva scomunicato "perché potesse portare esso solo i peccati di tutto il popolo»

Questo rito, ricorrente nella civiltà greco-romana, è tra l’altro spaventosamente somigliante allo Yom Kippur ebraico, il cosiddetto “Giorno degli espiatori”, dove appunto una capra moriva per espiare i peccati degli israeliti. La cerimonia è descritta minuziosamente nella Bibbia.[13]

A questo punto, però, rimangono ancora alcuni dubbi. Perché si è passati dal Re Sacro a Dioniso? Come mai, fra tutte le divinità del Pantheon, è stato proprio Dioniso ad aver sostituito l’Eroe/Re Sacro?

Potnia e Paredros

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Questo dubbio può essere sciolto solo servendoci della storia delle religioni, che ci spiega l’importanza di Dioniso nella questione.
Come abbiamo detto sopra, il Re Sacro è una figura religiosa e che al tempo stesso simboleggia la natura. Figure del genere, analizzando le civiltà antiche, sono ricorrenti ovunque nella zona del Mediterraneo orientale.
In Grecia c’è Adone, a Babilonia Tammuz, in Frigia Attis, in Egitto il più famoso Osiride. Lo stesso Frazer, ne Il Ramo d’oro, li assimila, affermando che, al di là dei nomi diversi, rappresentano la stessa divinità agreste, che annualmente muore e resuscita dai morti.[14]
Tali figure sono associate ad una divinità femminile, anch’essa chiamata con vari nomi (Ishtar, Iside, Afrodite) dietro cui si celerebbe un’antichissima divinità mediterranea, la cosiddetta Πότνια (signora)[9], ossia la Natura stessa, la Terra Madre. Il dio agreste sopraccitato sarebbe un subalterno della Terra Madre, un παρεδρος (compagno). Il compito del Paredro sarebbe appunto quello di fecondare la Terra Madre per poi morire. Come, appunto, accade nel mito di Adone e Afrodite.

Sulla scia dell’opposizione Potnia-Paredros, il filologo Mario Untersteiner ha elaborato una sua teoria che spiegherebbe il carattere “tragico” della tragedia. Insomma, il perché la sua caratteristica peculiare sia il contrasto, il dissidio.
Dietro le figure di Adrasto e Dioniso, quindi, per Untersteiner si celerebbe il Paredro. Tale figura del Paredro sarebbe però eredità delle civiltà indoeuropee ed in contrasto con le civiltà mediterranee e pre-indoeuropee con al centro la Grande Madre. La civiltà degli invasori indoeuropei sarebbe stata pastorale, quella dei mediterranei autoctoni invece agricola.
Il contrasto fra il protagonista femminile e il protagonista maschile, al centro di numerosissime tragedie, celerebbe dietro il contrasto fra queste due divinità, e quindi il contrasto fra due tipi di civiltà completamente diversi.
Da ciò il carattere di contraddizione e ambiguità insito nella tragedia e nel suo simbolo, Dioniso, ora raffigurato con tratti maschili, ora raffigurato con tratti femminili, simbolo della sessualità sfrenata e della morte, sanguinario e benevolo, divinità terrestre e divinità celeste. Il termine Βάκχος indicherebbe anche la vittima sacrificale, oltre che la divinità.
Figlio di Zeus, divinità indoeuropea, e di Semele, antica dea madre, il cui nome significherebbe terra,[15] Dioniso incarna in sé l’essenza della bipolarità.

«L'intreccio delle civiltà, sotto l'egida delle manifestazioni religiose che riassumono e cristallizzano le idee che lo svolgersi dei miti sottintende, porta con sé quale conseguenza terrificante e feconda il contrasto e la contraddizione entro il dominio degli stessi miti che sono la creazione originale degli Indoeuropei e che hanno fatto degli Elleni un popolo di spiritualità inimitabile. Dalla formazione naturale, nel corso della storia, di questa categoria dello spirito, la contraddizione, contenuta nella plasticità di una storia sacra, è nato un problema. Poiché mancava la consapevolezza storica di quanto gli Elleni avevano innanzi ai loro occhi, queste contraddizioni che spesso tormentavano la storia mitica, dovevano imporre la domanda: che cosa significa questa contraddizione? Perché, ad esempio, l'uomo vuol sopraffare la donna, e la donna reagisce, fino alla colpa? Quando nella solennità festiva e nell'intensità della partecipazione da parte del fedele, si attuava la contemplazione di una determinata storia sacra, questa era contemplazione di miti che, per essersi costituiti geneticamente sul fondamento di una contraddizione, rivelavano un momento incomprensibile o assurdo, comunque insolubile. Se, come si è detto precedentemente, la contemplazione festiva degli Elleni culminava nella visione delle pure forme dell'essere, la contemplazione di una storia sacra, quando questa celava una contraddizione, doveva conquistare il fenomeno 'contraddizione' come particolare forma dell'essere. Noi sappiamo che questo momento tragico della realtà era incarnato nella figura di Dioniso»

Come si esplica questo contrasto fra due spiriti opposti nella tragedia? E quali sono le caratteristiche dei due poli della contraddizione? Se l’origine della tragedia è collegabile a questo contrasto, allora il declino della tragedia è la fine di tale contrapposizione? Con le risposte a queste domande, in effetti, si diede avvio alla questione tragica (qui però esposta solo in seguito a teorie più recenti), la cui data di nascita è il 1872, anno di pubblicazione di Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, ossia “La Nascita della Tragedia dallo spirito della musica” di Friedrich Nietzsche.

Spirito dionisiaco e spirito apollineo

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La Nascita della Tragedia è un’opera di difficile comprensione. Non tanto per i concetti ivi contenuti, ma per il genere letterario. Si tratta di un’opera di filologia o di filosofia? La prima interpretazione ha fatto sì che Nietzsche venisse sommerso dalle critiche dell’ambiente accademico, tra cui il giovane Wilamowitz, salito alla ribalta grazie al suo Zukunftsphilologie, (La filosofia dell’avvenire), duro attacco all’opera nicciana. Al di là di tutto ciò, l’opera ha segnato una rivoluzione nello studio della civiltà greca, prima vista sempre come trionfo dell’armonia. Ora, invece, il mondo greco presentava un aspetto sinistro, descritto poi ancor più minuziosamente da Erwin Dodds.

«Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco, similmente a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che interviene solo periodicamente. Questi nomi noi li prendiamo a prestito dai Greci, che rendono percepibili a chi capisce le profonde dottrine occulte della loro visione dell’arte non certo mediante concetti, bensí mediante le forme incisivamente chiare del loro mondo di dèi. Alle loro due divinità artistiche, Apollo e Dioniso, si riallaccia la nostra conoscenza del fatto che nel mondo greco sussiste un enorme contrasto, per origine e per fini, fra l’arte dello scultore, l’apollinea, e l’arte non figurativa della musica, quella di Dioniso: i due impulsi cosí diversi procedono l’uno accanto all’altro, per lo piú in aperto dissidio fra loro e con un’eccitazione reciproca a frutti sempre nuovi e piú robusti, per perpetuare in essi la lotta di quell’antitesi, che il comune termine “arte” solo apparentemente supera; finché da ultimo, per un miracoloso atto metafisico della “volontà” ellenica, appaiono accoppiati l’uno all’altro e in questo accoppiamento producono finalmente l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica.»

La tesi di Nietzsche, stringatamente, è questa: la tragedia è la massima espressione artistica e culturale della civiltà ellenica perchè in essa si incontrano le due grandi forze che animano lo spirito greco, l’apollineo e il dionisiaco. Non solo lo sviluppo dell’intera arte greca è legato al dualismo di questi due elementi, ma la stessa vita, dato che il contrasto dei due opposti è il fondamento del mondo. Apollo e Dioniso costituiscono l’antropoformizzazione di due principi ontologici.
Apollo è il dio della luce e della chiarezza, della misura e della forma: l’apollineo simboleggia l’inclinazione plastica ed esprime la tensione alla forma perfetta, che trova espressione nella cultura e nell’architettura greche.
Dioniso è il dio della notte e dell’ebbrezza, del caotico e dello smisurato: il dionisiaco simboleggia l’energia istintuale, l’eccesso, il furore. La sua forma espressiva è la musica, fonte di passione e frenesia.
Nella tragedia, che per questo esprime il culmine della cultura ellenica, apollineo e dionisiaco si fondono nella sintesi del canto e della danza del coro e dell’azione drammatica
L’immagine della cultura greca nicciana è diversa rispetto a quella classica. Gli elementi apollinei, armonici, sono in tensione con la dimensione caotica e irrazionale del dionisiaco. Fra i due spiriti, tra l’altro, è il dionisiaco ad avere il ruolo prevalente.

La tragedia si sarebbe formata, per Nietzsche, dal coro dei seguaci mascherati del dio dell’ebrezza. L’eroe tragico è una maschera del dio, del quale ripete le sofferenze e nella morte dell’eroe è Dioniso stesso che muore, per poi nuovamente rinascere.
La preminenza di Dioniso su Apollo è così spiegata: non ci può essere la creazione di forme se non c’è stato preliminarmente il caos, né le forme possono esser considerate eterne, esse devono esser sostituite da altre forme Il dionisiaco mostra una realtà diversa, che riesce a trovare espressione o sotto l’influsso di bevande narcotiche, o per l’avvicinarsi della primavera, tutti elementi riprodotti nei culti orgiastici con cui si realizza un ricongiungimento dell’uomo con la natura.
L’apollineo sarebbe sorto come una forma di reazione di fronte la dionisiaco, che è il principio realmente originario.

La Nascita della Tragedia presenta un carattere soprattutto filosofico. Costituisce il primo tentativo nicciano di esporre una concezione originale del mondo, con innegabili influssi schopenhaueriani e wagneriani.
La sensibilità greca avverte con profondità la tragicità della vita e della condizione umana, la limitatezza e la finitudine dell’esistenza individuale.
Il gioco dialettico di apollineo e dionisiaco esprime innanzitutto il sistema di impulsi che agisce all’interno di ogni uomo.
L’apollineo è il sogno che rende accettabile la vita racchiudendola in forme stabili e armoniose.
Nel dionisiaco si rivela all’uomo la sua condizione e la vita si presenta come gioco crudele di nascita e morte. In esso vi è dunque il dolore e la tragedia è infatti principalmente dolore. Ma al contempo il dionisiaco è anche gioia, perché Dioniso è forza generatrice, vita che si afferma continuamente al di là della morte. nel dionisiaco l’uomo infrange le barriere impostegli, si libera dalle illusioni e “dice sì alla vita” Ciò è possibile in particolare nell’esperienza artistica, in cui lo spettatore non vive una catarsi, come sosteneva Aristotele, ma si abbandona al flusso di dolore e gioia che la tragedia rappresenta in scena, entra in una dimensione estatica di superamento della propria individualità, superamento in cui ha il riconoscimento di un’unità originaria e di una perdita della propria individualità che provoca da un lato il terrore di fronte al caos dall’altro una dimensione di estasi.

Il rovesciamento della filologia classica avviene anche nell’analisi del momento di ακμή della cultura greca. Mentre la tesi tradizionale vedeva il V secolo come lo splendore della cultura classica, Nietzsche capovolge tutto, vedendo in quel periodo, invece, l’inizio della crisi.
La tragedia muore nel momento in ci il pensiero greco, con Socrate, pretende di racchiudere in concetti l’esistenza, imponendo alla vita il primato della ragione. L’intero Occidente inizia un cammino di lenta decadenza, a partire dalla vittoria dello spirito scientifico-socratico sullo spirito musicale-dionisiaco della tragedia greca.
La tragedia muore suicida per mano di Euripide e della sua tragedia, dietro cui non c’è né Apollo né Dioniso, ma Socrate. I due uomini sono, in Nietzsche, intimamente legati.[16]
Euripide trasforma l’azione drammatica in dibattito teoretico, l’arte riproduce la mediocrità del quotidiano abbandonando la profondità religiosa del mito. Con Euripide la tragedia sopravvive nella sua forma degenerata, in cui il mito tragico decade a narrazione realistica di vicende razionalmente concatenate. Il prologo delle tragedie di Eurpiide svolge una funzione di chiarimento preliminare di tipo razionale in seguito al quale si sa già tutto ciò che accadrà e viene meno ogni incertezza
Il realismo euripideo è solo una conseguenza dell’ottimismo razionalistico socratico; ciò che è messo in scena non è più la tensione epica ma la struttura razionale della realtà

Se gli accademici vedevano nei presocratici una sorta di preparazione al sorgere della grande filosofia-platonica, per Nietzsche l’età di Euripide e di Socrate è l’inizio della fine dell cultura ellenica, che aveva espresso con Eraclito ed Eschilo una straordinaria capacità di cogliere la tragicità dell’essere, capacità che ora appassisce. Con Socrate il dionisiaco viene espulso dalla cultura occidentale. All’uomo tragico si sostituisce l’uomo teoretico, che con la potenza della raigione e della scienza costruisce un mondo di apparenze per affermare il suo dominio tecnico sulla vita, sospinto da un bisogno di rassicurazione, egli aderisce alla mentalità socratica per cui al giusto non può accadere niente di male, tutto ciò che è bello dev’essere razionale e tutto ciò che buono dev’essere razionale, in quanto la razionalità è il fondamento della virtù.
Se la tragedia greca è morta con Euripide, il tragico rimane tuttavia la dimensione ineliminabile della vita, e sopravvive al tentativo compiuto dal pensiero occidneale da Platone e dal cristianesimo di costruire filosofie antitragiche tramite la pretesa ottimistica di imporre al mondo un ordine razionale (Platone) mediante l’ipostatizzazione di essenze e strutture metafisiche (Cristianesimo).
Il fallimento di tale pretesa, che Nietzsche scorge nella cultura del tempo, può portare ad una rinascita della tragedia, attraverso il dramma musicale di Wagner, opera totale che unisce gesto, parola e musica, in cui la tragicità dell’esistenza e la contraddittorietà di una vita oscillante fra dolore e gioia trovano espressione adeguata.

Nonostante dopo pochi anni il progetto di Nietzsche di una rinascita della tragedia fallirà, il suo contributo è stato innegabile per la nascita della questione, e per gli influssi che ebbe su altri studiosi che la trattarono.
Nel nostro cammino nelle interpretazioni legate al concetto di capro espiatorio, rimane un’opera che esula da questo contesto, in quanto scritta da uno psicologo. Eppure, questo psicologo non solo sarà influenzato sia da Frazer sia da Nietzsche, ma egli stesso metterà, come vedremo, al centro delle sue teorie l’altro grande simbolo della tragedia insieme a Dioniso, ossia Edipo. Come si è già capito, si sta parlando di Sigmund Freud.

Totem e tabù

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Nel 1899, con L’interpretazione dei sogni, Freud diventa una figura di spicco nella cultura occidentale. Dopo aver rivoluzionato la psicologia, Freud, influenzato da Il ramo d’oro (oltre che da “Totemismo ed esogamia” sempre di Frazer), entrò a contatto con l’antropologia. Il figlio di questo rapporto sarà, nel 1913, Totem und Tabu: Einige im Übereinstimmungen Seelenleben der Wilden und der Neurotiker, o più semplicemente “Totem e Tabù”.
Il Totem è un animale sacro che le tribù etichettate come “primitive” dall’antropologia evoluzionistica ritengono loro progenitore. Al culto di questo Totem si associa quasi sempre il Tabù, il divieto di cacciare e uccidere tale animale sacro. Questa usanza viene sospesa una volta all’anno, in occasione di un rito in cui i membri della tribù si cibano dell’animale sacro nel cosiddetto “pasto totemico”.
La spiegazione di questo rituale è connessa alla conflittualità inconscia tra padre e figlio, già esposta nella teoria del complesso di Edipo. Mentre però quest’ultimo è una teoria RICAVATA dalla tragedia, la spiegazione del totemismo serve invece a SPIEGARE la tragedia. Insomma, mentre nel primo caso la tragedia dà uno strumento all’antropologia, nel secondo caso l’antropologia dà uno strumento per la spiegazione della tragedia.
Sulla scia dell’uccisione del Re Sacro, anche per Freud in ogni civiltà sarebbe connaturato un antichissimo rituale omicida, sempre all’origine della tragedia (e in questo caso non solo).

(EN)

«[…] a violent, jealous father who keeps all the females for himself and drives away the growing sons. […] One day the expelled brothers joined forces, slew and ate the father, and thus put an end to the father horde. Together they dared and accomplished what would have remained impossible for them singly. […] Now they accomplished their identification with him by devouring him and each acquired a part of his strength. […]
The group of brothers banded together were dominated by the same contradictory feelings towards the father which we can demonstrate as the content of ambivalence of the father complex in all our children and in neurotics. They hated the father who stood so powerfully in the way of their sexual demands and their desire for power, but they also loved and admired him. After they had satisfied their hate by his removal and had carried out their wish for identification with him, the suppressed tender impulses had to assert themselves. This took place in the form of remorse, a sense of guilt was formed which coincided here with the remorse generally felt. The dead now became stronger than the living had been. […] What the father’s presence had formerly prevented they themselves now prohibited. […] They undid their deed by declaring that the killing of the father substitute, the totem, was not allowed, and renounced the fruits of their deed by denying themselves the liberated women. [81]»

(IT)

«(C’ era una volta) un padre violento, geloso, che teneva per sé tutte le donne e scacciava i figli man mano che essi crescevano. […] Un giorno i fratelli si coalizzarono e uccisero e mangiarono il padre, fatto che pose fine all’ esistenza della tribù paterna. Una volta coalizzati, sono diventati intraprendenti e hanno potuto realizzare ciò che ognuno d'essi presi individualmente non sarebbe mai stato capace di fare. […] Con l’atto dell’insubordinazione, essi realizzano la loro idendentificazione con lui (il padre), appropriandosi ognuno di una parte della sua forza. […]
La banda dei fratelli ribelli era animata riguardo al padre da sentimenti contraddittori che formano il contenuto ambivalente del complesso paterno presso ognuno dei nostri figli, e dei nevrotici. Essi odiano il padre - che s'opponeva così violentemente al loro bisogno di potenza e alle loro esigenze sessuali-, ma odiandolo, essi l'amavano e l’ammiravano. Dopo averlo soppresso, dopo avere soddisfatto il loro odio e realizzato la loro identificazione con lui, essi hanno dovuto consegnarsi a delle manifestazioni d’affetto d’una tenerezza esagerata. Essi lo fecero sotto la forma del pentimento; essi provarono un sentimento di colpevolezza. Il morto diveniva più potente di quanto lo fosse da vivo. […] Ciò che il padre aveva loro impedito da vivo, i figli se lo proibivano adesso essi stessi. […] Essi sconfessavano il loro atto interdicendo la messa a morte (del padre), e essi rinunciarono a raccogliere i frutti di questi atti, rifiutando d'avere dei rapporti sessuali con le donne che essi avevano liberate»

Totem e Tabù è un tentativo di spiegare non solo il totemismo, ma anche l’esogamia, e quindi la proibizione dell’incesto.
Di questa colpa primitiva l’umanità avrebbe poi conservato il ricordo, non solo nel pasto totemico, ma anche nella mitologia. La struttura della tragedia, col confronto fra coro ed Eroe che racconta i suoi “pathea”, non sarebbe altro che una cerimonia di tipo totemico, in cui l’Eroe è il Padre, mentre il coro rappresenterebbe i figli assassini.
La teoria di Freud non è stata, successivamente, tenuta in gran conto nella questione tragica, essendo stata considerata invece per lo studio di altri fenomeni, come appunto il totemismo e l’esogamia.
Il contributo di Freud è stato però innegabile per la questione edipica, l’altra grande questione all’interno della letteratura tragica ellenica, di cui tratteremo di seguito.

Il mito di Edipo

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La cosiddetta saga tebana fa parte della tradizione greca da tempi piuttosto antichi. Già nell’Iliade e nell’Odissea si accennava alla vicenda di Edipo, e forse un’opera su questo mito è stata scritta prima dei due poemi omerici.
Il mito è stato consacrato da Sofocle con l’Edipo Re. Il sempre sofocleo Edipo a Colono costituisce il proseguio del racconto, mentre sono andate perdute le versioni del mito di Eschilo e di Euripide.
La vicenda è stata narrata, fra gli altri, anche da Cecilio Stazio, Seneca e Voltaire. Gioacchino Rossini ha invece composto le musiche di scena per la rappresentazione dell’Edipo a Colono.

Edipo è una figura complessa, paradigmatica, al centro di mille e più interpretazioni, e forse proprio la complessità e soprattutto assurdità della sua vicenda l’hanno reso il simbolo della tragedia stessa
Edipo è il Giobbe greco, l’uomo a cui la divinità sottrae tutto senza che ne sia pienamente responsabile, come poi sarà anche l’Aiace sofocleo.
Sembra quasi che Sofocle sfrutti queste vicende per mettere in scena la sua visione pessimistica della vita, simboleggiando che chiunque può essere destinato ad una caduta rovinosa. Canta il coro sofocleo “Quale, quale uomo mai di felicità ottiene più di quel tanto da illudersi e dopo l’illusione non conosce il declino? Avendo il tuo esempio, il tuo destino, sì, il tuo, o sventurato Edipo, nessuno dei mortali posso ritenere felice”.
Non si può sfuggire all’appuntamento col destino, un appuntamento che non prevede mai il lieto fine.

La storia

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I due testi che seguono sono due versioni del mito di Edipo, che differiscono in pochi dettagli. Il primo è di Diodoro Siculo, il secondo del cosiddetto Pseudo-Apollodoro.

«Laio re di Tebe aveva sposato Giocasta, sorella di Creonte, e pur essendo passato abbastanza tempo rimaneva senza figli; allora consultò il Dio [Apollo] sulla possibilità di averne. La Pizia rispose che per lui non era bene aver figli: infatti colui che egli avrebbe messo al mondo sarebbe divenuto un parricida e avrebbe riempito di grandi disgrazie la sua casa. Perciò quando, dimentico del responso, ebbe generato un figlio, Laio fece esporre il neonato dopo avergli perforato col ferro le caviglie, ragion per cui questi, più tardi, venne chiamato "Edipo". I servi, però, non ebbero il coraggio di abbandonarlo così e lo diedero alla moglie di Polibo, che non poteva avere bambini. Ella curò i piedi feriti e lo chiamò "Edipo", perché i piedi gli si erano gonfiati.
In seguito, quando il ragazzo era ormai diventato adulto, Laio pensò di interrogare il Dio riguardo al neonato che aveva fatto esporre, mentre Edipo, che aveva appreso da qualcuno quale era stata la sua vicenda, decise di chiedere alla Pizia quali fossero i suoi veri genitori. I due si incontrarono nel territorio della Focide. Laio gli ingiunse con prepotenza di farsi a lato della strada: ma Edipo, infuriato, uccise Laio senza sapere che era lui suo padre.
Il mito racconta che in questo periodo la Sfinge, una bestia dal duplice aspetto, si aggirava nei dintorni di Tebe proponendo un enigma a chi potesse risolverlo e molti, non essendo in grado di rispondere, furono da essa uccisi. Allora fu posto come premio al benefattore che avesse risolto [l'enigma] la mano di Giocasta e il regno di Tebe. Nessuno riuscì a indovinare la soluzione, a eccezione di Edipo. [La domanda] posta dalla Sfinge suonava così: Qual è l'essere che è [insieme] bipede, tripede e quadrupede? Nessun altro l'aveva capito, ma Edipo lo scoprì: è l'uomo ciò di cui si tratta: infatti quando è bambino cammina a quattro gambe, quando è adulto con due gambe e quando è vecchio con tre, aiutandosi con un bastone perché è debole. Allora la Sfinge, dopo che le fu data risposta come si racconta, si precipitò da una rupe. Edipo sposò colei che non sapeva essere sua madre e mise al mondo due figli, Eteocle e Polinice, e due figlie, Antigone e Ismene.
I figli erano già cresciuti, quando le cose orribili accadute nella famiglia vennero conosciute: allora i figli obbligarono Edipo a starsene chiuso in casa, per la vergogna, ed essi, assunto il potere, si misero d'accordo per governare un anno a testa.»

«Dopo la morte di Anfiòne regnò Laio. Egli sposò la figlia di Meneceo che alcuni chiamano Giocasta, altri Epicasta. L'oracolo del Dio gli aveva imposto di non generare dei figli, perché colui che avrebbe generato sarebbe stato parricida, ma lui, eccitato dal vino, si unì lo stesso a sua moglie. Nacque un bambino, che consegnò a un pastore perchè fosse esposto, dopo avergli trapassato le caviglie con uno spiedo: e il servo espose il bimbo sul Citerone. Ma i bovari di Polibo, re di Corinto, trovarono il neonato e lo portarono alla moglie di costui, Peribèa: ella lo accolse, lo curò e lo chiamò Edipo, dandogli tal nome perché aveva i piedi gonfi.
Il bambino crebbe e si segnalò per la sua forza, sicché per invidia qualcuno lo apotrofò come bastardo. Allora, siccome non gli riusciva di saper nulla da Peribea andò a Delfi per informarsi circa i suoi [veri] genitori. Il Dio però gli ingiunse di non tornare in patria, perché avrebbe ucciso suo padre e si sarebbe unito a sua madre. Saputo questo, e credendo di esser nato da coloro che si dicevano tali, evitò Corinto e viaggiando su un carro per la Focide gli capitò di incrociare in una stretta strada il carro che portava Laio e Perifònte, l'araldo di Laio. Costui gli ordinò di farsi da parte, e siccome Edipo non obbediva, standosene fermo, gli uccise uno dei cavalli. Infuriato, Edipo ammazzò Perifonte e Laio, dopodiché si recò a Tebe. Il cadavere di Laio fu sepolto dal re di Platea, Damasìstrato.
Divenne re Creonte, figlio di Meneceo. Durante il suo governo capitò a Tebe una disgrazia non da poco. La Dea Era, infatti, mandò la Sfinge (la cui madre era l'Echidna, e il padre Tifone), un [mostro] col volto di donna, petto gambe e coda di una leonessa, e ali di uccello. Costei aveva appreso dalle Muse un indovinello, e standosene sul monte Ficio lo proponeva ai Tebani. Ecco l'enigma: Chi è quell'essere che pur avendo una sola voce diventa quadrupede, bipede e tripede? Un oracolo aveva annunciato ai Tebani che si sarebbero salvati dalla Sfinge se avessero risolto l'enigma: perciò si ritrovavano spesso insieme per capire che cosa volesse dire, ma siccome non ne venivano fuori, la Sfinge ogni volta ne afferrava uno e lo divorava. Dopo che ne furono uccisi tanti, e da ultimo Emone figlio di Creonte, Creonte stesso stabilì di offrire il regno e la mano della vedova di Laio a colui che avesse risolto l'indovinello. Edipo lo venne a sapere e sciolse l'enigma dicendo che ciò di cui parlava la Sfinge era l'uomo: infatti egli nasce quadrupede perché da bambino si muove con tutti e quattro gli arti; da adulto cammina con due gambe, e da vecchio con tre, appoggiandosi nella sua andatura col bastone. Allora la Sfinge si gettò a capofitto dall'acropoli. Edipo assunse il regno, sposò senza saperlo la madre e generò con lei due figli, Polinice ed Eteocle, e due figlie, Ismene e Antigone. Alcuni però dicono che questi bambini gli nacquero da Eurigania, figlia di Teutrànte.
Quando ciò che era nascosto venne alla luce, Giocasta si impiccò con una cintura; Edipo si cavò gli occhi, si allontanò da Tebe e per giunta maledì i suoi figli perché essi non lo aiutarono allorché si resero conto che sarebbe stato cacciato dalla città.»

Il complesso freudiano

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Il rapporto antropologia-tragedia non è unilaterale. Come già detto sopra, l’una serve per interpretare l’altra e viceversa.Se nel caso del Re Sacro era la teoria antropologica ad essere usata per interpretare la tragedia, nel caso di Edipo è il mito ad essere stato usato per creare una teoria poi usata nel campo dell’antropologia, sia quella psicologica di Freud, sia poi quella funzionalista di Malinowski.

Freud utilizzò l’Edipo Re come sostegno della sua teoria della sessualità. Nei suoi pazienti nevrotici Freud rinvenì un’abbondanza di ricordi legati a scene di seduzione e turbe sessuali infantili. L’austriaco pensò così che dietro la genesi della nevrosi ci dovesse essere la cosiddetta libido, ossia l’energia psichica di cui sono provviste le pulsioni sessuali, e il legame di quest’ultima con l’esperienza sessuale infantile.[17] La soddisfazione del desiderio sessuale, per Freud, è possibile solo con la maturazione completa, sia biologica sia psicologica, dell’individuo. La prima coincide col raggiungimento della pubertà, la seconda invece attraversa l’infanzia e l’adolescenza. Mentre la maturazione biologica procede quasi sempre senza intoppi, quella psicologica comporta una progressiva trasformazione della percezione che l’individuo ha di sé e del rapporto con le figure familiari.
La rivoluzione che Freud effettua in questo campo è estendere tale maturazione anche, come detto sopra, all’infanzia, dividendola in tre tappe significative: fase orale, fase anale, fase fallica. Le tre tappe indicano tre diversi stadi di sviluppo in cui la libido del bambino si concentra verso obiettivi diversi. La fase fallica, ultima di questo processo, vede l’identificazione dell’oggetto della libido con la persona dell’altro sesso. In questa fase entra in gioco il complesso d’Edipo.
L’infante predilige, in questa fase, il genitore di sesso opposto. Il suo desiderio è costituito dal donare alla madre il fallo (da cui il nome della fase), se il bambino è maschio, o riceverlo, se si tratta di una femmina. Si è quindi portati ad amare il genitore del sesso opposto e dall’odiare quello dello stesso sesso, visto come un rivale.
L’adulto dello stesso sesso reprime il desiderio incestuoso del figlio, da cui l’angoscia di castrazione subita dall’infante. Ciò provoca la rimozione del complesso edipico e di tutto il processo infantile, che precipita nell’inconscio diventando inaccessibile alla memoria. L’infante si identificherà poi col genitore dello stesso sesso, che diventerà sua guida, da cui trarrà i valori morali che costituiranno il Super-Io, anch’esso inconscio.

Il nome di questo complesso viene fatto derivare appunto dall’Edipo re sofocleo, di cui Freud parla sin dall’Interpretazione dei sogni:

«Il suo (di Edipo) destino ci commuove soltanto perché sarebbe potuto diventare anche il nostro, perché prima della nostra nascita l'oracolo ha decretato la medesima maledizione per noi e per lui. Forse a noi tutti era dato in sorte di rivolgere il nostro primo impulso sessuale alla madre, il primo odio e il primo desiderio di violenza contro il padre: i nostri sogni ce ne danno convinzione. [...] Davanti alla persona in cui si è adempiuto quel desiderio primordiale dell'infanzia indietreggiamo inorriditi, con tutta la forza della rimozione che questi desideri hanno subito da allora nel nostro intimo. Portando alla luce della sua analisi la colpa di Edipo, il poeta ci costringe a prendere conoscenza del nostro intimo, nel quale quegli impulsi, anche se repressi, sono pur sempre presenti.»

E ancora:

«Re Edipo, che ha ucciso suo padre Laio e che ha sposato sua madre Giocasta, è soltanto l'adempimento di un desiderio della nostra infanzia. Ma a noi, più felici di lui, è stato possibile, a meno che non siamo diventati psiconevrotici, di staccare i nostri impulsi sessuali dalla nostra madre, e dimenticare la nostra invidia per nostro padre. Davanti a quel personaggio che è stato costretto a realizzare quel primordiale desiderio infantile, proviamo un orrore profondo, nutrito da tutta la forza della rimozione che da allora in poi hanno subito i nostri desideri. Il poeta, portando alla luce la colpa di Edipo, ci costringe a conoscere il nostro proprio intimo, dove, anche se repressi, questi impulsi pur tuttavia esistono. Il canto, con il quale il coro ci lascia:

..."Vedete, questo è Edipo, i cittadini tutti decantavano e invidiavano la sua felicità; ha risolto l'alto enigma ed era il primo in potenza, guardate in quali orribili flutti di sventura è precipitato!"

è un'ammonizione che colpisce noi stessi e il nostro orgoglio, noi che a parer nostro siamo diventati cosi saggi e così potenti, dall'epoca dell'infanzia in poi. Come Edipo, viviamo inconsapevoli dei desideri che offendono la morale, di quei desideri che ci sono stati imposti dalla natura; quando ci vengono svelati, probabilmente noi tutti vorremmo distogliere lo sguardo dalle scene dell'infanzia.»

In sostanza, per Freud il dramma, la causa dell’empatia del pubblico, non consiste nel comune destino di noi uomini, schiacciati dalla forza ineluttabile del fato e degli dei, ma dall’avere tutti noi la possibilità di divenire incestuosi e parricidi, traccia ancora esistente nel nostro inconscio della nostra infanzia, rimossa ma che potenzialmente può sempre venire di nuovo a galla.
Parallelo al complesso di Edipo, Carl Gustav Jung ha poi coniato l’espressione “complesso di Elettra”, nato in relazione all’omonima tragedia, in cui Elettra uccide Clitennestra, sua madre, a sua volta colpevole dell’omicidio del padre Agamennone.
La lettura di Freud della tragedia è stata però criticata sia da antichisti come Jean-Pierre Vernant (di cui si parlerà successivamente), sia da sociologi come Erich Fromm.

«È giustificata la conclusione di Freud secondo la quale questo mito conferma la sua teoria che inconsci impulsi incestuosi e il conseguente odio contro il padre-rivale sono riscontrabili in tutti i bambini di sesso maschile? Invero sembra di sì, per cui il complesso di Edipo a buon diritto porta questo nome. Tuttavia, se esaminiamo più da vicino questo mito, nascono questioni che fanno sorgere dei dubbi sull'esattezza di tale teoria. La domanda più logica è questa: se l'interpretazione freudiana fosse giusta, il mito avrebbe dovuto narrare che Edipo incontrò Giocasta senza sapere di essere suo figlio, si innamorò di lei e poi uccise suo padre, sempre inconsapevolmente. Ma nel mito non vi è indizio alcuno che Edipo sia attratto o si innamori di Giocasta. L'unica ragione che viene data del loro matrimonio è che esso comporta la successione al trono. Dovremmo forse credere che un mito, il cui tema è costituito da una relazione incestuosa fra madre e figlio, ometterebbe completamente l'elemento di attrazione fra i due? Questa obiezione diventa ancora più valida se si considera che la profezia del matrimonio con la madre è ricordata una sola volta da Nicola di Damasco, che secondo Cari Robert attinge a una fonte relativamente tarda.

Come possiamo concepire che Edipo, descritto come il coraggioso e saggio eroe che diviene il benefattore di Tebe, abbia commesso un delitto considerato orrendo agli occhi dei suoi contemporanei? A questa domanda si è talvolta risposto, facendo notare che per i greci il concetto stesso di tragedia stava nel fatto che il potente e forte venisse improvvisamente colpito da sciagura. Rimane da vedere se una tale risposta sia sufficiente o se ne esista un'altra più soddisfacente.

Questi problemi sorgono dall'analisi di Edipo Re. Se consideriamo soltanto questa tragedia senza tenere conto delle altre due parti della trilogia, Edipo a Colono e Antigone, non è possibile dare una risposta definitiva. Ma siamo almeno in grado di formulare una ipotesi e cioè: che il mito può essere inteso come simbolo non dell'amore incestuoso fra madre e figlio, ma della ribellione del figlio contro l'autorità del padre nella famiglia patriarcale; che il matrimonio fra Edipo e Giocasta è soltanto un elemento secondario, soltanto uno dei simboli della vittoria del figlio che prende il posto di suo padre e con questo tutti i suoi privilegi.

La validità di questa ipotesi può essere verificata coll'esame del mito di Edipo nel suo complesso, specialmente nella versione di Sofocle contenuta nelle altre due parti della sua trilogia, Edipo a Colono e Antigone.»

La teoria di Fromm, che vede nel contrasto del padre non una rivalità per il possesso della madre, ma un conflitto per ottenere il potere, è vicinissima all’interpretazione della tragedia della sezione precedente, quella legata, insomma, al concetto di Re Sacro di Frazer. Questo emerge ancora di più nell’interpretazione di Vladimir Propp, che con Frazer ha numerosissimi punti in comune.

Edipo alla luce del folkore

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Vladimir Propp è certamente più famoso per “Morfologia della fiaba”, opera che ha rivoluzionato la filologia. Meno nota, ma decisamente più interessante per i nostri studi, è la sua opera “Edipo alla luce del folclore: quattro studi di etnografia storico-strutturale”.
Sulla scia di Frazer, Propp conduce un’analisi di tipo evoluzionistica del mito di Edipo, rinvenendo in esso diverse fasi dell’organizzazione delle forme di potere e della sua successione. Sono presenti, infatti, l’uccisione del re, il matrimonio con la regina e infine il passaggio del trono da padre a figlio. Sono tre tipi di successione collocati dall’evoluzionismo in tre epoche diverse, ma compresenti nel mito.

Il mito di Edipo rappresenterebbe quindi la sopravvivenza di costumi storicamente esistiti.
Il matrimonio con la regina è assimilabile al matrimonio con la figlia del re, con cui uno straniero saliva al trono legandosi alla famiglia regia.
L’uccisione del re, invece, è una chiara eredità di Frazer. Si procede all’assassinio del vecchio re per acquisirne il potere prima che il suo invecchiamento provocasse danni al regno, di cui il re è il simbolo.
Matrimonio con la figlia del re e uccisione di quest’ultimo sono conciliabili. Lo straniero ottiene una sorta di legittimazione, con il matrimonio con un membro della stirpe regale, dell’azione delittuosa. Tale straniero era poi oggetto dell’ostilità del padre, e con lui anche la propria figlia, strumento con cui si realizza il progetto del futuro re.

Il passaggio del potere da padre a figlio, ossia la successione dinastica, implica un cambiamento in questo meccanismo. Fra le due forme di successione vi è infatti un’enorme differenza: la prima è violenta, la seconda no. Il figlio, l’erede maschio, è desiderato dal re, non è considerato una minaccia ma una risorsa nella nuova società patrilineare.
I nuovi rapporti sociali creatisi non portano ad un nuovo mito relativo a tale successione, ma alla fusione dei due sistemi. Il figlio eredita l’ostilità verso il re-padre, e il parricidio è una sorta di sopravvivenza dell’omicidio del Re sacro da parte del genero-straniero.

Nei miti più antichi, in cui la successione è dal suocero al genero, la profezia non compare, perché sono ritenuti naturali, scontati, l’ostilità fra i due e il matrimonio regale. Al tempo stessi nei casi più primitivi del nuovo sistema patrilineare l’allontanamento del figlio non ha bisogno di giustificazioni, di agenti esterni come la profezia: basta l’ostilità verso il successore.
Il delitto di Edipo, inserito in un contesto diverso, diventa quindi qualcosa di casuale e di inconsapevole, e rende necessario l’inserimento dell’elemento della profezia. Una profezia che non fa accenno alla successione al trono, dato che nella nuova società patrilineare è naturale che al padre succeda il figlio. Ciò che deve giustificare è appunto il parricidio, che ora è assolutamente immotivato, in quanto risale ad un sistema anteriore.
Il matrimonio con la madre è spiegato allo stesso modo. Se inizialmente è il matrimonio con la figlia di stirpe regale a trasmettere il potere, ora che è sopravvenuta una società patrilineare c’è il bisogno di giustificare tale matrimonio e soprattutto di modificarlo. Edipo non può diventare re sposando la figlia del re, ma deve sposarne la vedova, unico modo per ottenere il potere.

Il metodo di Vladimir Propp verrà poi criticato da Claude Levi-Strauss in ”Structure and Form: Reflection on a Work by Vladimir Propp”, che poi proporrà, in un’altra opera, una nuova e rivoluzionaria interpretazione del mito di Edipo.

Autoctonia e riproduzione bisessuata

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Claude Levi-Strauss è sicuramente in controtendenza rispetto alle tesi sopraelencate. Questo perchè il francese rappresenta una nuova fase dell'antropologia, in cui l'evoluzionismo sembra morto e sepolto. In pieno Novecento l'ambiente culturale è dominato dallo strutturalismo, di cui forse Levi-Strauss è l'elemento di spicco. Non si guarda più al cambiamento nel tempo, all'evoluzione fra più sistemi, ma agli elementi strutturali che permangono nonostante tali cambiamenti.
Non c'è un cambiamento nelle tematiche: il mito rimarrà sempre al centro degli studi antropologici, e soprattutto Edipo. Ma completamente diverso è il punto di vista con cui lo si guarda, e, di conseguenza, la spiegazione che si dà al mito di Edipo.
Dei miti Levi-Strauss parla in "Antropologia strutturale" e nei quattro volumi delle Mitologiques L'analisi dei miti risente tantissimo della moderna linguistica, che porta Levi-Strauss a basare la sua ricerca sui mitemi, grandi unità costitutive del mito, intimamente legate con i fonemi. I mitemi rappresentano la scomposizione minima, l'"atomo" del mito. I mitemi acquisiscono un particolare significato se inseriti in combinazioni di fasci di relazione. Uno stesso mitema può essere presente in miti differenti con significati differenti, se appunto sono inseriti in differenti fasci di relazione.

«Nella lingua corrente il sole è l’astro del giorno, ma preso in sé e per sé, il mitema sole non ha alcun senso. Secondo i miti che si sceglie di considerare esso può ricoprire i contenuti ideali più diversi. In realtà nessuno, vedendo apparire il sole in un mito, potrà prevedere la sua individualità, la sua natura e le sue funzioni. E solo dai rapporti di correlazione e di opposizione che esso ha, all’interno del mito, con altri mitemi, che può scaturire un significato. Questo non appartiene in proprio a nessun mitema: risulta dalla loro combinazione»

Lo studio della mitologia tebana si risolve quindi nella raccolta di mitemi, inseriti nella sua opera Antropologia strutturale in quattro colonne.[18]
La prima colonna raffigura rapporti di parentela all'interno della stirpe dei Labdàcidi (la famiglia di Laio ed Edipo) che sono sopravvalutati. La seconda colonna, all'opposto, presenta invece rapporti di parentela sottovalutati.
La terza colonna elenca la distruzione dei mostri, mentre la quarta propone i nomi dei tre membri illustri della dinastia Labdàcide, ossia Labdaco, Laio ed Edipo. Levi-Strauss, sempre influenzato dalla linguistica, nota che nell'etimologia i tre nomi racchiudono lo stesso ambito semantico, ossia la difficoltà di camminare.

I mitemi vengono collegati, da Levi-Strauss, al concetto di autoctonia (αυτοχθονία, “stessa terra”). Il mito di Edipo presenta due tipi diversi di concezioni dell’origine dell’uomo, coesistenti in epoca greca: l’origine ctonia, secondo cui l’uomo ha origine dalla terra, e l’origine sessuata, secondo cui l’uomo nasce da progenitori umani.
La sopravvalutazione e la sottovalutazione dei rapporti familiari indicano l’affermazione e la negazione dell’origine parentale dell’uomo.
Riguardo alle altre due colonne, la vittoria sul mostro, tradizionalmente originato dalla terra, sta a significare la negazione dell’autoctonia dell’uomo, mentre la quarta colonna, la difficoltà di camminare, indicherebbe invece la persistenza di tale autoctonia.
La prima colonna sta quindi alla terza come la seconda sta alla quarta.
Il mito rappresenta la risposta a una domanda fondamentale: nasciamo da uno o da due? Il medesimo nasce dal medesimo o dall’altro? La storia di Edipo però non dà una risposta unica alla domanda, ma presenta entrambe le ipotesi possibili, che conferisce al mito il suo carattere tradizionalmente contraddittorio.

L’ipotesi di Levi-Strauss, in quanto tesi strutturalista, ha, secondo il francese, il pregio di poter essere applicato ad ogni versione del mito, dato che anche le versioni che omettono alcuni elementi (ad esempio il suicidio di Giocasta e l’autoaccecamento di Edipo) presentano sempre, nella loro struttura, l’alternativa fra autoctonia e riproduzione bisessuata.
Tutte le versioni rientrano quindi nella questione, senza dover identificare versioni più autentiche e meno autentiche.

La tesi di Levi-Strauss è forse l’esempio più calzante di applicazione di strumenti antropologici alla tragedia greca. Nonostante ciò, è un’interpretazione che non ha attecchito. Sarà però un altro antropologo e studioso delle religioni influenzato da Levi-Strauss a chiudere il cerchio, un nome indispensabile fra le basi della filologia greca. Si tratta dell’autore dell’importantissimo Mythe et société en Grece ancienne (Mito e società nell’antica grecia), il francese Jean-Pierre Vernant.

Abbozzi di volontà

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Un’opera imponente come quella di Vernant non può essere analizzata in modo adeguato in questo contesto. Per questo ci concentreremo su un solo capitolo, Abbozzi della volontà nella tragedia greca, per poi analizzare più da vicino la lettura del mito di Edipo.
La tragedia è caratterizzata dalla tensione fra “l’agito e il subito, l’intenzionale e il costretto, la spontaneità dell’eroe e il destino fissato in anticipo dagli dei”, aspetti di ambiguità che in Occidente compaiono per la prima volta proprio nel genre letterario che “cerca di esprimere l’uomo nella sua condizione di agente”.
Il problema della tragedia risulta essere sempre il medesimo: gli atti del protagonista hanno origine in lui o altrove? La conclusione del dramma è la presa di coscienza della risposta esatta di questo dilemma.

«Solo al termine del dramma tutto diventa chiaro per l'agente. Egli comprende, subendo ciò che credeva di aver lui stesso deciso, il senso reale di ciò che si è trovato compiuto senza ch'egli lo voglia o lo sappia. L'agente non è, nella sua dimensione umana, causa e ragione sufficiente dei suoi atti; è al contrario la sua azione che, ricadendo su di lui secondo quanto gli dei hanno sovranamente disposto, lo scopre ai suoi propri occhi, gli rivela la vera natura di ciò che è, di ciò che fa. Così Edipo, senza aver commesso nulla di spontanea iniziativa, che gli sia personalmente imputabile dal punto di vista del diritto, si ritrova, alla fine dell'inchiesta che, nel suo profondo amore di giustizia, conduce per la salvezza della città, un criminale, un fuorilegge, accusato dagli dei della più orribile macchia. Ma il peso stesso di questa colpa deve accollarsi senza averla intenzionalmente commessa, la durezza di un castigo che sopporta con animo costante senza averlo meritato, lo elevano al di sopra della condizione umana nel momento stesso in cui lo relegano fuori dalla società degli uomini. Religiosamente qualificato per l'eccesso, per la qualità della sua sventura, la sua morte acquisterà il valore di un'apoteosi e la sua tomba assicurerà la salvezza di coloro che accettano di dargli asilo.»

“Abbozzi di volontà” è il titolo perfetto per questo capitolo. La tragedia è dipinta come il luogo di contrasto fra due visioni diverse del mondo: l'antica concezione religiosa della colpa, macchia legata a tutta una stirpe, che si trasmette di generazione in generazione in forma di un'ate, e la nuova concezione, messa in atto dal diritto, in cui il colpevole è un individuo privato che, senz'esservi costretto, ha scelto deliberatamente di commettere un delitto; queste concezioni per un moderno paiono escludersi, ma la tragedia, pur contrapponendole, le raccoglie e nessuno dei due termini di questa antinomia scompare del tutto. L’esempio principe è Agamennone: il destino della guerra di Troia sembra imposto dall’alto (deve sacrificare Ifigenia affinchè la spedizione abbia successo), ma nessuno gli impone il sacrificio; Agamennone compie un atto mostruoso, volontà degli dei, ma che egli stesso vuole compiere.[19]

Il compito del poeta tragico, per Vernant, non è quello di “inventare” dei personaggi né un intrigo, dato che attinge da un repertorio mitico tradizionale. Egli fa sviluppare l’intrigo in modo che la catastrofe appaia inevitabile, nonostante i suoi protagonisti non siano κακόι. Lo spettatore è portato a spaventarsi di fronte a queste vicende, perché sente che ciò che sta vedendo in uno spettacolo fittizio può accadere anche a lui. Dietro l’Eroe tragico, c’è ogni singolo spettatore. [20]
Ciò che spaventa, però, non è tanto il carattere catastrofico dell’azione, ma quella dialettica fra innocenza e colpevolezza: Edipo è colpevole, ma al contempo innocente.

«In effetti, che cosa capita ad Edipo? Edipo è un figlio che non sarebbe dovuto nascere, questa è la sua disgrazia. Quindi, sin dalla nascita, egli è oggetto di una specie di maledizione, egli è votato alla disgrazia, non avrebbe dovuto nascere. Perciò, qualsiasi cosa faccia, farà sempre male. Egli è colpevole senza aver fatto nulla di male, e questo è uno dei problemi posti dalla tragedia. Non c' è in ogni uomo, per il solo fatto di esistere, nella misura in cui egli dipende da tutti quelli che l' hanno preceduto, qualcosa che lo supera o lo sovrasta? Egli dipende da questo qualcosa, per cui le sue azioni non emanano direttamente da lui; in qualche modo le sue azioni si radicheranno aldilà, dietro di lui, o più in alto di lui. E questo è un senso tragico: infatti noi facciamo delle cose, siamo dei personaggi, e contemporaneamente i nostri atti -e persino noi stessi- ci sfuggono di mano. Un senso enigmatico, dato che Edipo è un decifratore di enigmi. Lui stesso lo dice: "sono io che ho indovinato, io sono l' uomo che sa", e difatti ci si rivolge a lui come ad un sapiente. D' altro canto è un uomo che vuol sapere; vuol sapere la verità. E questo desiderio di conoscere, così come quella capacità che lo rende superiore agli altri, faranno di lui una specie di mostro che imbroglia tutte le generazioni. Bisognerebbe seguire invece il corso del tempo, ognuno dovrebbe restare al suo posto, il figlio dovrebbe succedere al padre, soprattutto quando poi si tratta di re: Edipo sloggia il re e prende il suo posto quando il re è ancora sul trono, non nel momento in cui il padre lascia il posto libero. Questo significa l' assassinio del padre. Questa è la grande colpa. Ma la grande colpa di Edipo è anche l' incesto, perché ha incontrato il seme del padre nel ventre della madre. Egli è dunque una specie di mostro, ed è un mostro senza aver fatto nulla di male! Le sue qualità lo hanno portato fin là. Da qui la risposta all' interrogazione sull' uomo: "eh si, che strana creatura! Come può accadere che essa sia abitata da questo legittimo desiderio di sapere e che questo desiderio di sapere ricopra un' ignoranza fondamentale?" Edipo non sapeva chi fosse. Colui che era re e padrone diventa l' ultima delle spazzature, un' impurità, una macchia che bisogna cacciar via.»

La colpevolezza di Edipo non dipende interamente da lui, esecutore dell’azione, ma dagli dei, veri burattinai del dramma edipico.

«Edipo quindi è un personaggio paradigmatico perché in Edipo, in modo magistrale, vediamo un uomo che è il campione della riflessione: è il re che ha saputo indovinare, che ha saputo capire, l' uomo che cerca di capire, che vuol sapere la verità. E mentre persegue questa verità, mentre segue il suo cammino, realizza che in realtà gli dei lo hanno guidato dall' inizio alla fine. Gli dei lo hanno guidato affinché quella scienza si riveli in realtà la scienza di quel che accadde, affinché la conoscenza dell' assassino di Laio si dichiari, si riveli come l' ignoranza di se stesso. Perché lui è l' assassino di Laio, e di conseguenza veramente Edipo fissa il centro nel nucleo stesso della riflessione tragica.»

La lettura freudiana del mito di Edipo è quindi impossibile.[21]
La tragedia, in Vernant, si trasforma in una mimesi, in un’imitazione del reale, in cui lo spettatore si identifica, ma al contempo se ne distacca: il carattere tragico delle vicende, e tragico in quanto verosimile, è incalanato in una finzione, che permette allo spettatore, dopo il terrore e la pietà provati verso l’Eroe, di effettuare quella catarsi di cui parla Aristotele.[22]

Nella descrizione sopraccitata della teoria di Vernant è emerso un elemento importante, a fondamento di quella che è forse l’interpretazione della tragedia più nota che ci sia. Il contrasto fra due concetti diversi di colpa, una involontaria e una volontaria, sono il nervo del pensiero di Ruth Benedict e soprattutto della sua rielaborazione e applicazione al mondo greco da parte di Eric Dodds.

Vergogna e colpa

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Gli studi di Ruth Benedict

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Gli studi della Benedict sono fondamentali per aggiungere tasselli alla nostra lettura “antropologica” della tragedia greca, anche se le sue teorie sono nate per essere applicate in un altro ambito.

Ruth Benedict proviene dalla scuola statunitense di Boas ed è famosa soprattutto per “Modelli di cultura”. Opera del 1934, essa è interessante perché utilizza strumenti interpretativi della tragedia greca (il dualismo apollineo-dionisiaco) applicandoli al contesto etnografico. Le due categorie nietzchiane vengono così riferite a popoli “primitivi”, che vengono così caratterizzati come apollinei o dionisiaci in base al loro comportamento. La cerimonia del potlach dei Kwatiutl, ad esempio, è dionisiaca, a causa dell’apparente insensatezza dello spreco rituale.

Ma la Benedict si dimostra certamente più originale e utile nei nostri studi con “Il Cristianesimo e la spada. Modelli di cultura giapponese”. Opera commissionata dal Servizio Informazioni Militari degli USA, risente di una visione ideologica del Giappone della Seconda Guerra Mondiale. Come tante altre opere antropologiche, l’opera sembra dirci molto più della cultura dell’autrice dell’opera che della cultura che lei dovrebbe descrivere.
Più che darci informazioni sul Giappone, la Benedict ci fornisce strumenti per andare a fondo alle origini della cultura occidentale, presentando i due modelli culturali della shame culture e della guilt culture, ossia civiltà di vergogna e civiltà di colpa. Rappresentano due modi, interiorizzati, di relazionarsi col mondo. Nella civiltà di vergogna il metro di valutazione è costituito da ciò che pensa il gruppo. Nel caso mi venga imputato un errore, che io l’abbia commesso o meno, ne rispondo, perché il gruppo mi ha additato come colpevole. La colpa di un’azione delittuosa non è interiorizzata: nel caso di un omicidio, provo “vergogna” di ciò solo quando vengo scoperto. Il “senso di colpa” non esiste. Questa è una prospettiva lontanissima dal nostro modo di pensare, e ciò è motivato anche dall’intenzione in parte ideologica della Benedict, che voleva descrivere la civiltà giapponese come qualcosa di totalmente altro rispetto a quella occidentale. Solo in questa prospettiva è spiegabile, ad esempio, il fenomeno del kamikaze, in cui si è pronti a dare la propria vita per la società.
La civiltà occidentale, in opposizione, ha interiorizzato la colpa. La società non conta nel giudizio dell’azione delittuosa: dopo un omicidio, che venga scoperto o meno, l’uomo occidentale tende a sentirsi “colpevole”, a sentire appunto il senso di colpa. Un senso di colpa che potrebb’essere provato addirittura soltanto col desiderio di uccidere qualcuno. L’uomo occidentale, che ha sviluppato questa particolare concezione di colpa grazie anche al cristianesimo, presenta quindi una nozione di persona ben diversa dal mondo giapponese. L’io, l’individuo, può pensarsi anche indipendentemente dalla società in cui è inserito. In Giappone, invece, fuori dalla propria società si è nulla. Come, appunto, nella Grecia Antica.

La rivoluzione di Dodds sarà applicare questi due concetti alla tragedia greca, caratterizzata soprattutto dalla dimensione della shame culture. Gli eroi greci non si preoccupano dell’etica nelle loro azioni. Non hanno le nostre cateogire del giusto e dell’ingiusto. Ciò che conta, come detto all’inizio di questo testo, è l’onore. E, in un certo senso, ora torniamo al punto iniziale. Perché la stessa descrizione del mondo omerico, fatta all’inizio, è permeata dalla concezione di Dodds. Il che ci fa capire quanto influente sia stata in questi studi, e soprattutto ci fa comprendere come strumenti nati in antropologia siano stati prolifici, anzi, più prolifici nell’analisi della letteratura greca.

I Greci e l’irrazionale

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Il merito principale di Eric Dodds e del suo “I Greci e l’Irrazionale” è stato far crollare definitivamente l’immagine di popolo “armonioso” attribuita ai Greci, cosa che non era riuscita a Nietzsche. Dodds ha rinvenuto un filo rosso in tutta la storia della civiltà greca: dai poemi omerici fino al periodo ellenistico, c’è sempre l’ombra dell’irrazionale.
Come Vernant, la sua opera inizia dalla volontà dell’eroe greco, e precisamente da Agamennone. L’Apologia che ne fa Dodds mira a discolpare Agamennone di ogni colpa legata al rapimento della schiava di Achille. Agamennone attribuisce l’azione all’Ate, che Dodds definisce “Tentazione o infatuazione divina”. Questa forza avrebbe spinto Agamennone a rapire la schiava di Achille. Questa è una semplice scusa per non ammettere le proprie intenzioni? Nel mondo greco ciò sembra assurdo. L’intenzione, dal punto di vista giuridico, non conta. Attribuire l’azione all’Ate, o a se stesso, non avrebbe cambiato niente. Lo stesso Achille, in effetti, concorda con Agamennone.

L’Ἄτη non è personificata, è uno stato d’animo, l'annebbiarsi o lo smarrirsi temporaneo della coscienza normale, è una pazzia parziale temporanea, attribuita non a cause fisiologiche o psicologiche, ma a un'opereazione demonica esterna. Nel mondo omerico l’ate non è sinonimo o effetto di malvagità, né è punizione. Non implica alcuna percettibile colpa morale. Le azioni composte in stato di ate sono quindi attribuite a una volontà esterna alla propria persona.
L’Ate non è l’unico intervento psichico presente in Omero. Un fenomeno simile è la trasmissione di μένος, anch’esso uno stato d’animo, la coscienza di un misterioso afflusso di forza proveniente da un dio. Ha origine divina ma non c’è una possessione. Il significato del menos sfuma dall’Iliade all’Odissea, dove da forza di combattenti diventa coraggio morale.
L’uso di questi concetti è stato spiegato pensando che realmente i greci si esprimessero così, che credessero ad ammonizioni esterne. Improvvisamente, nella mente degli uomini, potevano balzare determinate idee, che venivano appunto attribuite a qualcosa di esterno.
Tutte le deviazioni della condotta umana normale, senza causa immediatamente percettibile dalla coscienza del soggetto e di chi osserva il soggetto, vengono attribuite a un'operazione soprannaturale.

Dopo tutto, è un qualcosa che accade anche nella nostra vita, è connaturato nella nostra psicologia. In caso di un’azione impulsiva, tendiamo a scusarci dicendo “Non ero in me”. Dodds, insomma, cerca di comprendere le ragioni che hanno portato alla concezione dell’intervento divino.
L’uomo omerico non ha un concetto unitario dell'anima, della personalità. La ψυχή compare in scena solo nell’atto di abbandonare il corpo. Il concetto che più si avvicina a quello odierno di persona è lo θυμός, che però gode di un’indipendenza fortissima sull’uomo: il thymos dice quando mangiare, bere o uccidere, consiglia l’uomo sulle azioni da compiere e gli suggerisce le parole. L’uomo parla col suo thymos, col suo cuore o ventre, come se fossero entità staccate, a volte ne accetta i consigli, altre volte agisce senza il loro consenso. Gli impulsi emotivi vengono quindi oggettivati, diventando una sorta di non-io.
La propria condotta rientra nel mondo greco nella sfera della conoscenza. Il verbo che indica “sapere” indica sia il possesso di abilità tecniche, sia il proprio carattere, i sentimenti. Se il carattere è legato alla conoscenza, ciò che non fa parte di quest’ultima non fa parte dal carattere, e quindi viene dall’esterno. Come l’ate.

«Quando un uomo agisce in modo contrario a quel sistema di disposizioni coscienti che, si dice, egli conosce, il suo atto non è propriamente suo, gli è stato imposto. In altri termini, gli impulsi non sistematizzati, non razionali, tendono a venire esclusi dall'io e attribuiti a origine estranea.»

In questo momento Dodds fa entrare in esca i concetti di civiltà di colpa e civiltà di vergogna.

«Evidente è più probabile che questo avvenga, quando le azioni sono fonte di acuta vergogna per chi le compie. Sappiamo che nella nostra società il senso intollerabile di colpa viene eliminato proiettandolo con l'immaginazione sopra un'altra persona; possiamo presumere che l'uomo omerico si servisse per lo stesso fine del concetto di ate, che gli permetteva di proiettare, in piena buona fede, il proprio insostenibile senso di vergogna sopra una potenza esterna. Dico vergogna, non colpa, perchè alcuni antropologi americani ci hanno insegnato a distinguere le "civiltà di vergogna" dalle "civiltà di colpa" e la società descritta da Omero è sicuramente una civiltà di vergogna. Il bene supremo dell’uomo omerico non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, sta nel possesso della time, la pubblica stima. […] La situazione cui corrisponde il concetto di ate sorse non soltanto dall’impulsività dell’uomo omerico, ma anche dalla tensione fra impulso individuale e pressione del conformismo sociale, caratteristica delle civiltà di vergogna, ove tutto quel che espone l’uomo al disprezzo e al ridicolo dei suoi simili, tutto quel che gli fa “perdere la faccia”, è sentito come insopportabile»

Si può fare una distinzione di atteggiamenti tipici di una “civiltà di vergogna” o di una “civiltà di colpa”, anche se la divisione non è netta, e la transizione nel mondo greco dal primo tipo al secondo tipo di civiltà è stata graduale e incompleta: molti atteggiamenti caratteristici delle civiltà di vergogna sono sopravvissuti nel periodo arcaico e in quello classico. In autori come Erodoto e Sofocle è onnipresente il concetto di Αμηχανία, di impotenza umana di fronte alla divinità, che tiene sempre in scacco l’uomo.
Si parla di φθόνος των θεών, invidia degli dei. Le divinità vedono di mal occhio ogni successo dei mortali, qualsiasi cosa che possa avvicinarli a loro stessi. Il successo eccessivo di un uomo è esposto alla collera degli dei, specialmente se chi l’ha ottenuto se ne vanta. L’idea del ftonos è opprimente, e diventa fonte o espressione di angoscia religiosa.
In alcuni casi viene data una veste morale allo ftonos. In tal caso il successo, dopo aver prodotto il compiacimento, ha portato al delitto di ὕβρις, di tracotanza, manifestata con la parola, con i fatti o anche col pensiero. La hybris è spesso il motore delle tragedie greche, provocando la morte di chi si macchia di tale delitto, come Agamennone, Aiace, e la stessa dinastia dei Labdacidi, per mano della νέμεσις (ira) degli dei. La moralizzazione del ftonos indica la tendenza a trasformare il soprannaturale in un operatore di giustizia.[23]

Moralizzare l’intervento divino poteva portare a due strade, secondo Dodds: prescindendo dalla rimozione del limite temporale segnato dalla morte, se si guarda oltre essa, si può affermare che il colpevole sarà punito nei suoi discendenti oppure che pagherà il suo debito di persona nella vita futura. Mentre la seconda soluzione comparve solo nella tarda età arcaica, e presumibilmente limitata a cerchie ristrette, la prima è la caratteristica dottrina arcaica (es. Esiodo, Solone, Teognide, Eschilo ed Erodoto).
Il delitto di hybris è scontato dalla propria discendenza: in questo credevano i Greci, e questo veniva proiettato nella tragedia.[24]
L’idea della giustizia cosmica, che rappresentava comunque un’evoluzione rispetto all’arbitrario intervento delle potenze divine, associata a un concetto primitivo della famiglia impedì la formazione del concetto della personalità umana e dei suoi diritti e doveri, dato che l’uomo è ancorato alla dimensione familiare.

Il delitto di hybris porta al μίασμα, alla contaminazione. Nei greci era quindi presente un universale timore di esser contaminati, e quindi il desiderio di purificazione rituale, di catarsi. In effetti era impossibile sapere se i propri antenati si fossero macchiati di hybris o meno. E forse proprio questa ansia era una forma primitiva del senso di colpa moderno.
Ma questo senso di colpa arcaico diventa senso di peccato soltanto in seguito all’interiorizzazione della coscienza, il che è un fenomeno che comparve tardi e si diffuse soltanto molto tempo dopo che il diritto riconobbe l’importanza del movente.
Il concetto di ate si evolve: diventa la punizione del delitto di hybris, viene applicata non solo allo stato d’animo del peccatore, ma anche alle rovine oggettive che ne derivano (le pecore uccise sono l’ate di Aiace). L’ate acquista il senso generale di rovina, benchè nella letteratura conservi sempre il significato implicito di rovina determinata in modo soprannaturale. L’ate può diventare un inganno voluto, che spinge la vittima a nuovi errori, intellettuali o morali, affrettandone la rovina.

Cosa portò al passaggio da civiltà di colpa a civiltà di vergogna? Per Dodds è difficile trovare una causa unica per questo cambiamento, anche perchè non è un’evoluzione storica continua. Possono esser date quindi solo motivazioni parziali.
Rimangono comunque degli elementi di differenza che sembrano corrispondere ad autentici cambiamenti di civiltà. I concetti di contaminazione, purificazione e ftonos possono far parte del patrimonio indoeuropeo originario, ma fu l’età arcaica a trasformare i miti di Oreste ed Edipo in orrende storie di espiazione di omicidio e in quell’età la purificazione divenne compito principale dell’oracolo di Delfi e crebbe l’importanza del ftonos.
L’età arcaica fu per la Grecia peninsulare l’età arcaica fu un periodo di scarsissima sicurezza personale, e le piccole città-stato, dopo aver superato da poco le invasioni doriche, affrontarono nuovi guai, ossia la grande crisi economica del VII sec e i grandi conflitti politici del VI. Gli sconvolgimenti seguenti degli strati sociali avrebbero fatto riaffiorare credenze nascoste, fra qui quella dell’impotente abbandono nelle mani della potenza capricciosa.
A sua volta la lunga esperienza dell’ingiustizia umana avrebbe potuto ispirare la fede compensatrice in una giustizia celeste. Il tema del destino fatale che incombe su ricchi e potenti, come Creso, divenne un tema popolarissimo per i poeti, in contrasto con Omero, in cui i ricchi sono anche virtuosi.

Queste ipotesi devono però esser completate, secondo Dodds, da considerazioni sulla famiglia (guarda caso tema principe dell’antropologia).

«La famiglia era la chiave di volta della struttura sociale arcaica, la prima unità organizzata, il primo feudo del diritto. La sua organizzazione, come presso tutte le società indoeuropee, era patriarcale; sua legge era la patria potestas. Il capo della famiglia rea il suo re. [...] Nei primi tempi, egli aveva autorità illimitata sui figli: in fatti, li poteva esporre infanti; e, adulti, poteva espellere dalla comunità i figli ribelli o colpevoli, come Teseo espulse Ippolito. [...] Verso il padre un figlio aveva doveri, ma nessun diritto: vivo il padre, era un eterno minorenne. [...]
Si ritiene che il sistema abbia funzionato, finchè l'antico senso di solidarietà familiare rimase intatto. Il figlio prestava al padre la stessa obbedienza passiva che avrebbe, a suo tempo, ricevuto egli stesso dai propri figli. Ma col rilassamento dei vincoli familiari, quando l'individuo cominciò a rivendicare in misura sempre maggiore i suoi diritti e le sue responsabilità personali, dovevano sorgere quelle tensioni interne che da tanto tempo caratterizzano la vita familiare nella società occidentali.»

Ed è a questo punto che comparvero in questo periodo storie in cui la maledizione paterna provoca conseguenze terribili, come le storie di Ippolito e di Edipo. La posizione del padre non è più sicura.
La spiegazione di Dodds lega la mitologia alla psicologia: la tragedia rappresenterebbe la trasposizione dei desideri incoscienti. Nella famiglia greca dell’antichità sorgevano conflitti infantili che lasciavano echi nell’inconscio degli adulti. Quando sorse il movimento sofistico, il conflitto divenne, in molte famiglie, completamente cosciente e i giovani cominciarono a difendere il proprio diritto naturale di disobbedire ai padri. Si tratta di conflitti che probabilmente già esistevano, sul piano in conscio, in epoche assai più lontane.
La pressione dei desideri inconfessati è fonte potentissima del senso di colpa, per gli psicologi. Tali desideri sono esclusi dalla coscienza, eccetto i sogni o le fantasticherie, eppure suscitano nell’io un senso profondo di disagio morale. Tale disagio oggi prende spesso forma religiosa, come successe in Grecia.
Lì il padre terreno aveva il suo corrispondente celeste, ossia Zeus, che appare anche nel culto come un capofamiglia. Era perciò naturale proiettare su Zeus quello strano di mix di sentimenti suscitato dal padre terreno che il bambino non osava confessare neppure a se stesso. Perciò Zeus ha un volto ambivalente, appare come fonte di doni, sia buoni sia cattivi, sia come dio geloso che nega ai figli quel che il loro cuore desidera, e poi come giudice giusto ma severo, che punisce inesorabilmente il peccato di hybris, il peccato capitale di chi afferma la propria personalità.

«Il Greco arcaico affetto da tali sentimenti era in grado di dar loro forma concreta, dicendo a se stesso che era certamente venuto a contatto col miasma, o che aveva avuto la sua pena come eredità per le trasgressioni religiose di un antenato. Meglio ancora, poteva trovar sollievo sottoponendosi al rituale catartico. Non c'è forse qui un possibile indizio circa la parte rappresentata nella civiltà greca dall'idea della katharsis, e circa il graduale sviluppo, da quest'idea, delle nozioni di peccato e di espiazione da una parte, e dall'altra dell'aristotelica purgazione psicologica che ci libera dai sentimenti di cui vorremmo disfarci, tramite la contemplazione di tali sentimenti proiettati in un'opera d'arte?»

Riflessioni

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A questo punto si conclude il viaggio fra le diverse interpretazioni della tragedia greca. Numerose sono state le teorie fornite nel tempo, e ancora oggi nessuna spiegazione si è dimostrata realmente efficace. Però è possibile trovare un elemento in comune fra tutte queste ipotesi: la profonda contraddizione bipolare fra due mondi, fra due concezioni del mondo diverse, civiltà mediterranea vs civiltà indoeuropea, Dioniso vs Apollo, origine ctonia o origine sessuata, come anche concezioni diverse della volontà o della colpa, oppure la fusione fra sistemi di successione diversi o ancora un contrasto tutto psichico, come nella lettura freudiana.

La tragedia è l’opera della contraddizione, perché la contraddizione originaria deve prendere la forma dell’opera d’arte, dove il protagonista è destinato, il più delle volte, a una fine atroce, inserito in una trama fatta, appunto, di contraddizioni. Si può plasmare il mito in ogni salsa, dando la propria interpretazione diversa. Ma nulla potrà cancellare lo scheletro della tragedia, la sua origine. E nulla potrà cancellare la reazione del pubblico, sempre sconvolto dallo spettacolo a cui assiste, e al contempo risollevato, perché la passione intensa messa in scena dalla tragedia viene incanalata in forme sicure, appare come qualcosa di vicino ma al contempo lontano dallo spettatore.

Concluso questo itinerario, in cui l’antropologia ha aiutato la filologia e viceversa, resta un’ultima cosa da fare: un’applicazione pratica di queste teorie. Vedere, insomma, come possono essere utilizzate per spiegare una tragedia. A questo punto, quindi, possiamo trattare l’Aiace sofocleo e l’Ippolito di Euripide, notando come in qualche centinaio di righi è possibile rinvenire… qualche centinaio di spiegazioni.

Un’applicazione pratica

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L’applicazione pratica delle tesi sopraccitate alle due tragedie ci può mostrare risvolti inaspettati. Sorprese che sono emerse anche nel sottoscritto, che ha scoperto un fortissimo collegamento fra la figura di Ippolito e la tesi di Frazer.
Sostanzialmente, a mio avviso, le tesi sono riconducibili a tre grandi macro-categorie: il capro espiatorio, il conflitto col padre e il dualismo vergogna-colpa. Tutti e tre sono rinvenibili nelle due tragedie, ma a livelli diversi. La figura del capro espiatorio è fondamentale per leggere l’Ippolito, quasi inservibile per l’Aiace. Il conflitto col padre è presente in entrambe le tragedie, dove costituisce la ragione della morte dei due protagonisti, ma attraverso modalità diverse. Infine, per quanto riguarda Dodds, possiamo identificare il mondo di Aiace come una civiltà di vergogna, e il mondo di Fedra come una civiltà di colpa.

Ippolito e Fedra come Potnia e Paredros

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Iniziamo cercando di rinvenire tracce dell’interpretazione di Frazer nelle due tragedie. Entrambe sono connotate, come sovente accade in questo genere letterario, da morti violente, e possiamo interpretarle tutte come morti di capri espiatori.

L’applicazione di questo modello è più difficile per Aiace e più facile per Ippolito. Anzi, come vedremo, sarà Ippolito stesso la fonte dell’ipotesi di Frazer. Per interpretare la vicenda di Aiace, invece, gli altri due modelli che seguiranno saranno più calzanti. Eppure si possono rinvenire echi del Re Sacro.
La morte di Aiace rappresenta anche una rinascita. La rinascita della famiglia intorno alla tomba, il ritorno di Aiace, da morto, nella società. Come ha notato Jean Starobinski, in Trois Fureurs, le armi di Aiace sono maledette sin dall’inizio (armi, tra l’altro, ottenute col meccanismo di dono e contro dono dai Troiani).[25] La spada sarà la causa della sua morte, ma lo scudo permetterà il continuo della sua stirpe. Il nuovo Aiace, un Aiace “filosofo”, conscio ormai che la felicità è legata al non sapere, mentre il sapere si lega a una nuova uscita che ha come fine imminente la morte, dice al figlio che il dolce della vita è nell’inconscio,[26] e gli affida il compito di perpetuare l’audacia familiare, affidandogli emblematicamente lo scudo, e così Aiace può morire senza rimpianto. Il nome del figlio, Eurisace, significa, tra l’altro, “largo scudo” (εὐρύς + σάκος). L’unica arma che non sarà seppellita da Aiace sarà portata dal figlio, da cui prende il nome. [27]

La figura di Fedra, suicida per l'amore inconfessabile verso il figliastro, rientra nella lettura della festa dell'Αἰώρα (Altalena) di Ernesto De Martino in La terra del rimorso. L'aiora sarebbe un rito agrario, legato a Fedra suicida per impiccaggione. Tale festa dei germogli veniva celebrata all'interno delle "antesterie", o "antiche dionisie", nel mese di Antesterione, che precedeva l'inizio della primavera.

Nel rito dell'aiora

«si scacciava la passività dell’anno, si regolavano i debiti contratti con il mondo dei morti, si prefigurava e assicurava la fecondità e la fortuna prossima. [...] Dalle aiôresis viene fuori il mito della Natura “nutrice e madre di tutto” e, come scrive De Martino, quasi cosmica e cullatrice dei corpi. Il lasciarsi cullare, nella grande culla che diventa il grande ventre materno o le braccia materne, diventa catartico di un ricordo estremo che funziona come orizzonte estremo di ripresa e liquidazione delle situazioni infantili cui si è rimasti legati; ancora, l’ipotesi del simbolismo della rinascita.".»

Il mito di Fedra rivive, nel rito, attraverso l'altalena.

«L'altalena delle vergini - o l'oscillare delle pupattole appese ai rami degli alberi - realizzava in forma alienata e attenuata l'impulso suicida, mentre il canto aletis forniva l'hieros logos rischiaratore»

Per De Martino l'altalena sarebbe il simbolo della perdita della presenza da parte delle donne nel mondo greco.

«Se la fuga senza meta era ripresa e controllata [....] il suicidio per impiccagione trovava la sua riplasmazione nel simbolo dell'altalena.»

Tale rito sarebbe poi sopravvissuto in forma diversa, ossia nelle vesti del tarantismo.[29] Ma a noi interessa ben altro: ossia come il suicidio di Fedra sia connesso ad un rito agrario (e ritorna qui il dualismo Potnia-Paredros), legato alla primavera, in cui celebrare la rinascita della natura. L'inserimento di tale rito nelle feste dionisiache completa il cerchio.

La figura di Ippolito è intimamente legata a quella di Artemide, la dea della caccia. Come la dea, Ippolito rappresenta la purezza, la pudicizia. Proprio questo suo carattere scatenerà l’ira di Afrodite e quindi l’inizio della “tragedia”.

«Veneranda Signora, figlia di Zeus, salute a te, figlia di Zeus e di Leto, bellissima tra le vergini, che abiti nel vasto cielo la nobile casa dorata di Zeus! Salute a te, Artemide, bellissima fra le dee d’Olimpo! Ti porto, signora, questa corona di fiori, raccolti in un prato puro, dove il pastore non osa portare a pascolar e il suo gregge e dove non è mai passato il ferro. Soltanto le api lo frequentano in primavera, e il Pudore annaffia il prato puro con l’acqua del fiume. Solo chi possiede una virtù non appresa, ma naturale e universale, può cogliere questi fiori: ai malvagi non è permesso. Accetta dunque, cara signora, questa corona, colta da mano pia, per i tuoi capelli d’oro. Solo a me tra gli uomini è concesso l’onore di stare assieme a te e di parlarti, sento la tua voce anche se non vedo il tuo volto. E possa così compiere, come l’ho iniziato, il corso della mia vita.»

Ippolito è la figura perfetta per l’interpretazione di Frazer perchè proprio egli ha ispirato Il Ramo d'oro. Cosa intendo dire?
Il Ramo d'Oro, come detto sopra, si apre con la figura del Rex Nemorensis, il compagno di Diana. La tesi di Frazer si basa, quindi, su un culto latino. Ma andiamo a cercare le radici di tale culto. Le Metamorfosi di Ovidio ci possono aiutare in modo adeguato.

«Fui sbalzato dal carro, e tu allora avresti visto, avvinto com'ero
alle redini, le mie viscere frementi trascinate al suolo,
i muscoli impigliati negli sterpi, le membra in parte travolte,
in parte abbandonate indietro, ed ossa fratturate che emettevano
sordi rumori, l'anima stanca che spirava, non una parte
del corpo che potessi riconoscere, tutto un'unica piaga.
E tu, o ninfa, puoi od osi paragonare la tua sciagura
alla mia? Io poi ho visto i regni privi di luce
e ho risanato il mio corpo straziato nell'onda del Flegetonte.
Se ho riavuto la vita, è stato solo per il potere di un farmaco
del figlio di Apollo. E quando mi fu resa, malgrado le proteste
di Dite, grazie ad erbe portentose e all'arte della medicina,
Diana, perché riapparendo non suscitassi invidia
per un simile dono, mi coprì con una densa nube,
e perché vivessi tranquillo mostrandomi senza noie,
mi accrebbe gli anni e mi diede un volto irriconoscibile.
A lungo fu incerta se mandarmi a vivere a Creta
oppure a Delo; ma scartate sia Delo che Creta,
mi portò qui, e qui m'ingiunse d'abbandonare il mio nome,
che avrebbe potuto ricordare i cavalli, dicendomi: "Tu,
che ti chiamavi Ippolito, d'ora in poi sarai Virbio".
Da allora io vivo in questo bosco; divinità minore, mi celo
all'ombra della mia potente signora e mi annovero fra i suoi".
»

Ovidio narra il seguito della vicenda sofoclea: dopo esser morto, Ippolito sarebbe resuscitato, per poi diventare, grazie anche all'aiuto di Diana, una divinità minore all'interno di un bosco. Ormai ci resta soltanto riprendere Frazer, precisamente quel primo capitolo da cui tutto è partito.

«L'altra divinità minore di Nemi era Virbio. Narra la leggenda che Virbio era Ippolito, il giovane eroe greco casto e bello, il quale aveva appreso l'arte venatoria dal centauro Chirone e trascorreva la vita nei boschi a caccia di belve, avendo come unica compagna la Vergine Cacciatrice Artemide (l'equivalente greco di Diana). Dal bosco e dal Santuario di Nemi vennero banditi i cavalli poiché questi animali avevano ucciso Ippolito.
[...] A questo punto possiamo comprendere perchè gli antichi identificassero Ippolito, sposo di Artemide, con Virbio, il quale stava a Diana come Adone a Venere, o come Atti alla Madre degli Dei. Diana, come Artemide, presiedeva alla fertilità in generale e al parto in particolare. In quanto tale necessitava, come la sua omologa greca di un compagno (Virbio). Nella sua veste di fondatore del Bosco Sacro e primo sovrano di Nemi, Virbio rappresenta chiaramente il mitico predecessore o archetipo della stirpe di sacerdoti che servivano Diana sotto il nome di Re del Bosco e che, come lui, uno dopo l'altro, incontrarono una fine violenta.
E' quindi ipotizzabile che essi stessero alla Dea del Bosco nello stesso rapporto in cui stava Virbio; in altre parole che il Re del Bosco, creatura mortale, avesse per sua Regina la stessa Diana Silvestre. Se l'Albero Sacro che egli custodiva con la propria vita era ritenuto, come sembra probabile, l'incarnazione della divinità, il suo sacerdote forse non solo lo venerava come fosse la Dea ma lo stringeva fra le braccia, come fosse sua sposa, lo baciava, giaceva alla sua ombra, versava vino sul suo tronco.
Ben poco è cambiato questo luogo da quando Diana riceveva l'omaggio dai suoi fedeli nel bosco di querce sacre. Il tempio della nostra Dea è in parte scomparso, è vero; il Rex Nemorensis non monta più la guardia al Ramo d'Oro, ma il Bosco di Nemi è sempre verdissimo e mentre il tramonto a ponente impallidisce sopra di esso ci giunge sulle ali del vento il canto dei grilli..ed ecco Diana, come argentea Luna nella sera limpida, rimirare lieta la propria immagine riflessa nelle acque calme e trasparenti del lago, Speculum Dianae.»

La conclusione del ragionamento è chiara: l'Ippolito sofocleo può essere interpretato tramite il Ramo d'Oro di Frazer, perchè lo stesso Ramo d'oro, in realtà, si ispira alla vicenda di Ippolito.

Il conflitto col padre e la vergogna

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Il conflitto col padre è praticamente onnipresente nelle interpretazioni della tragedia, che riguardino o che non riguardino direttamente Edipo. Questo paragrafo vuole dimostrare come il conflitto col padre sia il motore della vicenda sia in Ippolito, dove si manifesta più apertamente, sia in Aiace, dove rappresenta, come vedremo, la vera causa del suicidio. Inoltre, si vuole mostrare come il complesso edipico sia strettamente connesso ai concetti di vergogna e colpa.

In Ippolito vediamo un vero e proprio complesso freudiano: c'è l’amore della madre e l’odio del padre. Questi sentimenti, però, vedono un’importante inversione. Infatti non è il figlio della coppia a provare tali sentimenti. Al contrario, è la madre ad amare il figlio, e solo il padre odia il figlio, in virtù di questo amore. Ippolito non prova, invece, nessuno dei due sentimenti. Al centro di tutto rimane però il desiderio dell’incesto. Tutto si muove, però, sul piano del fittizio. L’incesto non avviene, perché Ippolito rifiuta le avances della sua matrigna.
Teseo, però, questo non lo sa. Quando scopre il corpo, ormai cadavere, di Fedra, legge il messaggio lasciatele da lei, che gli fornisce una visione distorta delle cose: Teseo si convince che Ippolito ha voluto l’amore incestuoso e ha costretto Fedra a soddisfarlo, violentando così sua moglie. L’odio di Teseo si abbatte su Ippolito con una maledizione, che lo porterà alla morte grazie all’aiuto di Poseidone. Il desiderio del possesso della madre, nonostante sia totalmente inventato, è il motore della vicenda anche qui.

Ma cosa ha portato Fedra al suicidio? In una civiltà di vergogna, non ci sarebbe alcun motivo. Il desiderio incestuoso è infatti sconosciuto a chiunque. Solo lei sa del suo amore verso il figlio. Perché allora vergognarsene? Questo è quel che si chiederà poi la nutrice. Il discorso fra la nutrice e Fedra è il conflitto fra civiltà di vergogna e civiltà di colpa. La nutrice, dalla mentalità più arcaica, non vede in Fedra alcun peccato, perché Teseo non sa del suo desiderio, e quindi non c’è da preoccuparsene. Fedra, però, ha una mentalità diversa. Siamo in piena età euripidea, il concetto di colpa è già presente, anche se non compiutamente come in età cristiana. Il dolore di Fedra, che preoccupa la nutrice e il coro, è già un senso di colpa moderno. Nonostante la sua “colpa” non sia conosciuta da altri, Fedra si sente comunque colpevole. Ormai è segno dell’avvicendarsi di una nuova mentalità. La tragedia eschilea è già tramontata.

Riguardo Aiace, possiamo servirci un’altra volta di Starobinski, che ci può far comprendere l’intima connessione fra la civiltà di vergogna che incarna Aiace, e il conflitto col padre, che, per Starobinski, coincidono.
Dopo la strage degli armenti, Aiace non sa che fare, ha istigato contro di sé sia i Greci sia i Troiani, ma non è da lui rimanere inattivo, deve fare qualcosa. L’apice drammatico della vicenda si ha non con il suicidio, ma con la meditazione che lo precede. Aiace, infatti, non riesce a trovare alcuna soluzione: non può ritornare a combattere, né tornare in patria ed affrontare lo sguardo di suo padre Telamone.
Il suicidio si profila come unica soluzione per ristabilire la continuità del coraggio e dell’onore, ricucendo la ferita inflitta alla tradizione eroica familiare; Aiace ha ormai preso la sua decisione e da questo momento penserà solo ad eseguire il suo progetto.
Il ruolo del padre e della continuità della fama familiare sono determinanti nella decisione del suicidio, il che dimostra il fortissimo legame fra civiltà di colpa e conflitto col padre in Aiace.
In tal caso si potrebbe parlare dell’intervento di un Super Io, della presenza implicita dell’autorità paterna in meccanismi di costrizione interiore e di autopunizione. Ma per Starobinski la questione è più complessa: non si tratta di meccanismi inconsci, dato che Aiace cita il padre in modo scoperto. Più che altro si può capire il Super Io partendo da Aiace, ma non si può spiegare Aiace col Super Io.[25] La rivolta di Aiace contro i capi greci non è sostituto simbolico della rivolta contro il padre, anzi, è un atto voluto dal padre. La sofferenza dell’amor proprio di fronte alla privazione delle armi è strettamente collegabile alla perfezione di gloria che esige Telamone. Dietro la collera di Aiace c’è quella del padre contro il figlio indegno che tornerà senza gloria e senza premi. [25] Aiace non rinuncia alla continuità della gloria, in piena mentalità di civiltà di vergogna. Perché questo mondo rimanga quello dell’onore guerriero, il combattente disonorato deve morire. Per Aiace l’ingiustizia degli Atridi costituiva il disconoscimento dei valori fondamentali della sua casta, del diritto, e col suicidio restaura l’ordine compromesso con la sua rivolta e salvaguardia la continuità della fama familiare. Il suicidio conferma le rigide norme che Aiace non ha mai abbandonato. La diatriba successiva sulla sepoltura, infine, rinnova il contrasto fra legge di natura e ragion di stato, già presente nell'Antigone.[25]

In Sofocle invece l'immagine eroica che sopravvive nel sè è incompatibile con l'immagine pubblica del pazzo sanguinario di cui Aiace è consapevole. L'Aiace, secondo Guido Paduano, è il primo testo e la prima situazione in cui la follia diventa oggetto di riso.[30] Nella divaricazione tra io e gruppo sta anche scritto l'esito della vicenda, perchè comporta che l'autonomia che è realizzata da Aiace si può esercitare solo sulla sua stessa persona.[30] Secondo Paduano la lettura dell’Aiace deve ispirare grande cautela nel separare rigidamente gli ambiti della civiltà di colpa e della civiltà di vergogna: in Sofocle il confronto dell'ottica sociale è assente, ma opera nella disperata nostalgia che l'eroe ne prova e nella restaurazione post mortem.[30]

Conclusione

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Cosa dire alla fine di questo cammino? Cosa possiamo trarre da tutto ciò?
Ho iniziato questa tesina convinto che molte fossero le connessioni fra la tragedia greca e l’antropologia. Andando avanti, mi sono accorto che il rapporto era più stretto di quanto pensassi.
Mi sono ormai reso conto che è impossibile presentare un’interpretazione della tragedia greca separata dagli apporti dell’antropologia. Né è possibile immaginare l’antropologia senza i temi provenienti dall’antica Grecia.
I due mondi sono comunicanti, e forse non ha torto c’è chi ha detto che l’antropologia nasce come antropologia delle religioni.
Questi due mondi producono però qualcosa di più di un semplice incontro. I discorsi sopra accennati non sono materia di soli eruditi o professori universitari. Riguardano la cultura, il modo di rapportarsi e vedere il mondo.
I rapporti familiari, il potere, le divinità, la colpa e la vergogna, l’ordine e l’irrazionalità, il destino. Sono i grandi temi di ogni uomo, sono elementi essenziali della nostra esistenza.
Evoluzionismo e strutturalismo, benché apparentemente così distanti, si sono occupati degli stessi temi. Hanno tentato entrambi di spiegare i perché che ancora attanagliano la nostra civiltà. Indagando nel passato, hanno scoperto che i problemi di ieri sono gli stessi problemi di oggi.
Siamo giunti alla verità? Abbiamo completato il nostro cammino per abbeverarci alla fonte della conoscenza?
La risposta è no. E forse non ci siamo neanche vicini. Eppure, nonostante forse già sappia che non ci riuscirà mai, l’uomo tenterà sempre di rispondere alle grandi domande della vita. Sì, forse non riuscirà mai a darsi una risposta. O forse, provando e riprovando, potrebbe riuscire a comprendere un po’ più di sé.
O ancora, invece, è proprio il grande mistero della vita a rendere questa più interessante. Perché poi, se sapessimo tutto e non avessimo alcun dubbio… Quanto sarebbe noiosa la vita?

Bibliografia

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  • Claude Orrieux, Pauline Schmitt Pantel, Histoire grecque, 2004
  • Giusto Monaco, Mario Casertano, Gianfranco Nuzzo, L'attività letteraria nell'antica grecia. Storia della letteratura greca, Palumbo, 1997
  • Ugo Fabietti, Storia dell'antropologia, Zanichelli, Bologna, 2001
  • Fabio Cioffi, Franco Gallo, Giorgio Luppi, Amedeo Vigorelli, Emilio Zanette, Il testo filosofico. Vol. 3.1. Età contemporanea: l'Ottocento, Mondadori, 2008
  1. ^

    «Per spiegare convenientemente la vera natura ed il carattere proprio della filosofia positiva è necessario gettare uno sguardo d’insieme sulla marcia progressiva dello spirito umano, perché qualsiasi dottrina può essere meglio conosciuta quando se ne conosce la storia.
    Studiando cosí lo sviluppo dell’intelligenza umana nelle sue diverse sfere di attività, dalle prime manifestazioni fino ai nostri giorni, credo di aver scoperto una grande legge fondamentale, alla quale esso è soggetto con ferrea necessità e che può essere definita in modo preciso sia con prove razionali ricavate dalla conoscenza della nostra organizzazione, sia con la verifica storica risultante da un attento esame del passato.
    Questa legge consiste nel fatto che ogni nostra concezione fondamentale, ciascun settore delle nostre conoscenze, passa successivamente attraverso tre stadi diversi: lo stadio teologico o fittizio; lo stadio metafisico o astratto; lo stadio scientifico o positivo. In altre parole lo spirito umano, per sua natura, adopera successivamente, in tutte le sue ricerche, tre metodi di filosofare, il cui carattere è essenzialmente differente e persino opposto: all’inizio il metodo teologico, quindi quello metafisico, infine il metodo positivo. Da lí hanno origine tre tipi di filosofia, o di concezioni generali sull’insieme dei fenomeni, che si escludono reciprocamente; il primo è il punto di partenza necessario dell’intelligenza umana, il terzo la sua sistemazione definitiva e fissa, il secondo vale soltanto come momento di passaggio»

  2. ^ Erodoto, nelle Storie, propone una datazione intorno al 1250 a.C., Tucidide intorno al 1200 a.C, datazione ripresa da Eratostene e portata in auge da Dionigi d’Alicarnasso nella sua opera Antichità romane
  3. ^ Moses Israel Finley, Il mondo di Odisseo, 1954
  4. ^ Claudie Mossè, La Grèce archaique d’Homère à Eschyle, 1984
  5. ^ Claude Orrieux, Pauline Schmitt Pantel, Histoire grecque, 2004
  6. ^

    «La tragedia è dunque imitazione di una azione nobile e compiuta, avente grandezza, in un linguaggio adorno in modo specificamente diverso per ciascuna delle parti, di persone che agiscono e non per mezzo di narrazione, la quale per mezzo della pietà e del terrore finisce con l’effettuare la purificazione di cosiffatte passioni.»

  7. ^ Lessico Suda
  8. ^ Giovanni Diacono, Commento ad Ermogene.
  9. ^ a b c Casertano-Nuzzo, L’attività letteraria nell’antica Grecia, Palumbo,1997
  10. ^

    «Carmine qui tragico vilem certavit ob hircum»

  11. ^ Jstor - Clistene di Sicione, Erodoto e i poemi del Ciclo tebano
  12. ^ http://www.scuolabook.it/Uploaded/danna_WB074_preview/danna_WB074_preview.pdf
  13. ^

    «1 Il Signore parlò a Mosè dopo che i due figli di Aronne erano morti mentre presentavano un'offerta davanti al Signore. 2 Il Signore disse a Mosè: «Parla ad Aronne, tuo fratello, e digli di non entrare in qualunque tempo nel santuario, oltre il velo, davanti al coperchio che è sull'arca; altrimenti potrebbe morire, quando io apparirò nella nuvola sul coperchio. 3 Aronne entrerà nel santuario in questo modo: prenderà un giovenco per il sacrificio espiatorio e un ariete per l'olocausto. 4 Si metterà la tunica sacra di lino, indosserà sul corpo i calzoni di lino, si cingerà della cintura di lino e si metterà in capo il turbante di lino. Sono queste le vesti sacre che indosserà dopo essersi lavato la persona con l'acqua. 5 Dalla comunità degli Israeliti prenderà due capri per un sacrificio espiatorio e un ariete per un olocausto. 6 Aronne offrirà il proprio giovenco in sacrificio espiatorio e compirà l'espiazione per sé e per la sua casa. 7 Poi prenderà i due capri e li farà stare davanti al Signore all'ingresso della tenda del convegno 8 e getterà le sorti per vedere quale dei due debba essere del Signore e quale di Azazel. 9 Farà quindi avvicinare il capro che è toccato in sorte al Signore e l'offrirà in sacrificio espiatorio; 10 invece il capro che è toccato in sorte ad Azazel sarà posto vivo davanti al Signore, perché si compia il rito espiatorio su di lui e sia mandato poi ad Azazel nel deserto. 11 Aronne offrirà dunque il proprio giovenco in sacrificio espiatorio per sé e, fatta l'espiazione per sé e per la sua casa, immolerà il giovenco del sacrificio espiatorio per sé. 12 Poi prenderà l'incensiere pieno di brace tolta dall'altare davanti al Signore e due manciate di incenso odoroso polverizzato; porterà ogni cosa oltre il velo. 13 Metterà l'incenso sul fuoco davanti al Signore, perché la nube dell'incenso copra il coperchio che è sull'arca e così non muoia. 14 Poi prenderà un po' di sangue del giovenco e ne aspergerà con il dito il coperchio dal lato d'oriente e farà sette volte l'aspersione del sangue con il dito, davanti al coperchio. 15 Poi immolerà il capro del sacrificio espiatorio, quello per il popolo, e ne porterà il sangue oltre il velo; farà con questo sangue quello che ha fatto con il sangue del giovenco: lo aspergerà sul coperchio e davanti al coperchio. 16 Così farà l'espiazione sul santuario per l'impurità degli Israeliti, per le loro trasgressioni e per tutti i loro peccati. Lo stesso farà per la tenda del convegno che si trova fra di loro, in mezzo alle loro impurità. 17 Nella tenda del convegno non dovrà esserci alcuno, da quando egli entrerà nel santuario per farvi il rito espiatorio, finché egli non sia uscito e non abbia compiuto il rito espiatorio per sé, per la sua casa e per tutta la comunità d'Israele. 18 Uscito dunque verso l'altare, che è davanti al Signore, compirà il rito espiatorio per esso, prendendo il sangue del giovenco e il sangue del capro e bagnandone intorno i corni dell'altare. 19 Farà per sette volte l'aspersione del sangue con il dito sopra l'altare; così lo purificherà e lo santificherà dalle impurità degli Israeliti. 20 Quando avrà finito l'aspersione per il santuario, per la tenda del convegno e per l'altare, farà accostare il capro vivo. 21 Aronne poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà sopra di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto. 22 Quel capro, portandosi addosso tutte le loro iniquità in una regione solitaria, sarà lasciato andare nel deserto. 23 Poi Aronne entrerà nella tenda del convegno, si toglierà le vesti di lino che aveva indossate per entrare nel santuario e le deporrà in quel luogo. 24 Laverà la sua persona nell'acqua in luogo santo, indosserà le sue vesti e uscirà ad offrire il suo olocausto e l'olocausto del popolo e a compiere il rito espiatorio per sé e per il popolo. 25 E farà ardere sull'altare le parti grasse del sacrificio espiatorio. 26 Colui che avrà lasciato andare il capro destinato ad Azazel si laverà le vesti, laverà il suo corpo nell'acqua; dopo, rientrerà nel campo. 27 Si porterà fuori del campo il giovenco del sacrificio espiatorio e il capro del sacrificio, il cui sangue è stato introdotto nel santuario per compiere il rito espiatorio, se ne bruceranno nel fuoco la pelle, la carne e gli escrementi. 28 Poi colui che li avrà bruciati dovrà lavarsi le vesti e bagnarsi il corpo nell'acqua; dopo, rientrerà nel campo. 29 Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mese, nel decimo giorno del mese, vi umilierete, vi asterrete da qualsiasi lavoro, sia colui che è nativo del paese, sia il forestiero che soggiorna in mezzo a voi. 30 Poiché in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi; voi sarete purificati da tutti i vostri peccati, davanti al Signore. 31 Sarà per voi un sabato di riposo assoluto e voi vi umilierete; è una legge perenne. 32 Il sacerdote che ha ricevuto l'unzione ed è rivestito del sacerdozio al posto di suo padre, compirà il rito espiatorio; si vestirà delle vesti di lino, delle vesti sacre. 33 Farà l'espiazione per il santuario, per la tenda del convegno e per l'altare; farà l'espiazione per i sacerdoti e per tutto il popolo della comunità. 34 Questa sarà per voi legge perenne: una volta all'anno, per gli Israeliti, si farà l'espiazione di tutti i loro peccati». E si fece come il Signore aveva ordinato a Mosè.»

  14. ^

    «Under the names of Osiris, Tammuz, Adonis, and Attis, the peoples of Egypt and Western Asia represented the yearly decay and revival of life, especially of vegetable life, which they personified as a god who annually died and rose again from the dead. In name and detail the rites varied from place to place: in substance they were the same.»

  15. ^

    «Come per molti dei e dee dell'antica Grecia, per Dioniso i racconti sulla sua nascita e sulla sua fanciullezza sono la parte piu consistente e meglio attestata del ciclo delle sue leggende. Non è escluso che queste leggende facciano da veste ad un nucleo mitico da ritenersi più originario, ossia predionisiaco per riferirsi alla divinità cui il Dioniso ellenizzato è derivato, nucleo costituente dunque 1'eredità della divinità frigia o asiatica che, innestandosi sulla religione greca, fece nascere detto dio. Abbiamo gia avuto occasione di rilevare che la coppia Semele-Dioniso, accettando l'ipotesi verosimile che in origine essa fosse quella di una dea-madre e di un dio-figlio, potrebbe essere facilmente spiegata come il risultato di un'associazione, certamente essenziale, realizzatasi in tutto un insieme di antichi culti anch’essi preellenici, egei, anatolici. Ricorderemo che il Kretschmer ha mostrato che, al pari di Dioniso, il nome di Semele appartenne verosimilmente ad una lingua indoeuropea diversa dal greco, e si riferiva a una Dea Terra madre di un figlio divino. Questa interpretazione etimologica (che il Nilsson ha finito col ritenere decisiva) e giustificata dal significato di "terra" che ha una radice facilmente riconoscibile nel nome di Dioniso: zemljia, "terra" nelle lingue slave; Zemyna, la dea Terra in lituano; Zemelo, divinità invocata nelle iscrizioni frigie per la protezione delle tombe»

  16. ^

    «Che Socrate avesse uno stretto legame di tendenza con Euripide, non sfuggí all’antichità in quel tempo; e l’espressione piú eloquente di questo fiuto felice è quella leggenda circolante ad Atene, secondo cui Socrate usava aiutare Euripide a poetare. Dai partigiani del “buon tempo antico” i due nomi venivano pronunciati assieme, quando si trattava di enumerare i presunti corruttori del popolo: dal loro influsso seguiva che l’antica e quadrata valentia di corpo e di animo, degna di Maratona, fosse sempre piú sacrificata a un dubbio razionalismo, nel progressivo intristimento delle forze fisiche e spirituali. In questo tono, mezzo di sdegno e mezzo di disprezzo, la commedia aristofanesca suole parlare di quegli uomini, con terrore dei moderni, che rinunciano volentieri a Euripide, ma non smettono mai di meravigliarsi del fatto che Socrate appaia in Aristofane come il primo e supremo sofista, come lo specchio e il compendio di tutte le aspirazioni sofistiche. Contro di ciò rimane un’unica consolazione, quella di mettere alla berlina Aristofane stesso come un licenzioso e bugiardo Alcibiade della poesia. Senza prendere a questo punto la difesa dei profondi istinti di Aristofane contro tali attacchi, proseguo a dimostrare in base al sentimento antico, la stretta connessione fra Socrate ed Euripide; in questo senso è da ricordare specialmente che Socrate, come avversario dell’arte tragica, si asteneva dal frequentare la tragedia, mettendosi fra gli spettatori soltanto quando veniva rappresentato un nuovo dramma di Euripide. Famosissimo è comunque l’accostamento dei due nomi nel responso dell’oracolo delfico, che indicava Socrate come il piú saggio fra gli uomini, ma pronunciava insieme il giudizio che a Euripide spettava il secondo premio nella gara della saggezza.
    Come terzo in questa graduatoria era nominato Sofocle; proprio lui, che poté vantarsi nei confronti di Eschilo di fare il giusto, e di farlo perché sapeva che cosa fosse il giusto. Evidentemente è proprio il grado di chiarezza di questo sapere ciò che distingue in comune quei tre uomini come i tre “sapienti” del loro tempo.
    Ma la parola piú acuta per quella nuova e inaudita stima del sapere e dell’intelligenza la pronunciò Socrate, quando trovò di essere l’unico che ammettesse di non saper niente; mentre, nelle sue peregrinazioni critiche per Atene, egli incontrava dappertutto, parlando con i maggiori statisti, oratori, poeti e artisti, la presunzione del sapere. Vide con stupore che tutte quelle celebrità non avevano un’idea giusta e sicura neanche della loro professione, e che la esercitavano solo per istinto. “Solo per istinto”: con questa espressione tocchiamo il cuore e il centro della tendenza socratica. Con essa il socratismo condanna tanto l’arte vigente quanto l’etica vigente: dovunque esso volga i suoi sguardi indagatori, vede la mancanza di intelligenza e la potenza dell’illusione, e da questa mancanza deduce l’intima assurdità e riprovevolezza di quanto esiste nel presente. Partendo da questo punto, Socrate credette di dover correggere l’esistenza: egli, come individuo isolato, entra con aria di sprezzo e di superiorità, quale precursore di una cultura, di un’arte e di una morale di tutt’altra specie, in un mondo dove ascriveremmo a nostra massima fortuna il riuscire a coglierne con venerazione un frammento.
    È questa l’enorme perplessità che ci prende ogni volta di fronte a Socrate, e che ogni volta ci sprona a riconoscere il senso e il fine di questa problematicissima apparizione dell’antichità. Chi è costui, che osa da solo negare la natura greca, quella che attraverso Omero, Pindaro ed Eschilo, attraverso Fidia, attraverso Pericle, attraverso la Pizia e Dioniso, attraverso l’abisso piú profondo e la cima piú alta è sicura della nostra stupefatta adorazione? Quale forza demonica è questa, che può ardire di rovesciare nella polvere un tale filo incantato? Quale semidio è questo, a cui il coro degli spiriti dei piú nobili fra gli uomini deve gridare: “Ahi! Ahi! Tu lo hai distrutto, il bel mondo, con polso possente; esso precipita, esso rovina!”.»

  17. ^ Fabio Cioffi e AA.VV, Il testo filosofico, edizioni scolastiche B. Mondadori, Milano, 1991
  18. ^ Claude Levi-Strauss, Antropologia strutturale, pag. 240 su Google Books
  19. ^

    «Se questo sacrificio, questo sangue verginale incatenano i venti, con ardore, con ardore profondo è lecito desiderarlo.»

  20. ^ a b c Tratto dall'intervista: "La tragedia greca oggi" - Parigi, abitazione, 9 maggio 1994
  21. ^

    «Non si può proiettare il complesso di Edipo, nel senso freudiano, sulla tragedia antica. Bisogna trovare in certi passaggi del testo stesso della tragedia il punto di appoggio: si dovrebbe mostrare in che cosa quel che ha detto Freud permetterebbe di capire meglio certi passaggi i quali, senza le analisi freudiani, resterebbero poco chiari. Ma non si può leggere la tragedia convinti in anticipo dell' esistenza del complesso in Edipo. Invece è evidente che Edipo non ha complesso. In ogni caso, un' interpretazione psicoanalitica del testo non può dire "il personaggio Edipo ha il complesso omonimo". Un' interpretazione deve dire "Edipo non può avere il complesso perché egli non ha mai conosciuto suo padre, né sua madre, perché è stato allevato da un altro padre e da un' altra madre, che lui chiamava 'padre' e 'madre'; perché quando uccide suo padre non sa che si tratta di suo padre; e perché quando va a letto con sua madre non accade perché ne abbia voglia, è perché questo gli viene imposto." Quel che è vero, invece, e che si può dire, è che la tragedia è costruita, questo sì, come la cura psicoanalitica di un complesso edipico non risolto: voglio dire che lo svolgimento stesso della tragedia, lo svolgersi del dramma da un punto di partenza di ignoranza fino ad un punto di arrivo in cui si sa, dispiega una specie di delucidazione progressiva di un complesso di Edipo. Ma questo complesso non è di Edipo, e nemmeno del pubblico: è il problema del rapporto tra padre e figlio, e di tutte le relazioni complicate che ne conseguono. Questo viene tradotto un po' dal mito quando esso spiega che il figlio deve prendere il posto del padre, ovviamente, ma che può prenderne il posto solo dopo un certo tempo, una volta date certe condizioni, quando la situazione giunge a maturazione. Ma allora siamo in un contesto che è molto diverso da quello della psicologia o della nevrosi. Siamo in un contesto molto più generale, molto più sociale.»

  22. ^

    «Facendoci accedere ad una verità intellettuale, la tragedia ci dà un insegnamento. Tutta la tessitura della tragedia, come simulazione ed estetizzazione, trasforma l' elemento bruto della passione in qualcosa che diventa intelligibile, e che produce un effetto di bellezza. Quindi di produce una pacificazione nel ritorno all' ordine. Ma l' ordine che troviamo all' arrivo non è lo stesso di quello che c' era in partenza: nel frattempo abbiamo visto come un uomo per bene possa essere distrutto, o distruggersi da sé, probabilmente o necessariamente seguendo un ordine a cui ho assistito, e così ad ogni momento del processo ho capito quel che succedeva. Mentre terrore e pietà implicano obbligatoriamente una specie di opacità agli eventi, e a me stesso che subisco gli eventi, al punto della catarsi no: provo sì terrore e pietà, ma allo stesso tempo queste due passioni sono purificate, per il fatto che vengono prodotte attraverso lo spettacolo, e lo spettacolo non è il reale. La padronanza di sé è sempre restato un ideale greco. Ma, pur rimanendo, si è tinta in modo diverso all' epoca della tragedia. La tragedia ha tradotto, quando essa era in piena espansione, questa visione del mondo, compresa questa nuova visione del divino: un mondo e un divino dilaniato da contraddizioni che pur bisogna cercare di assumere come si può e che, talvolta, vi spezzano se volete essere tutto da una parte o tutto dall' altra. La tragedia può allora essere un mezzo, per lo spettatore, attraverso la "catharsis", di ritrovare un certo equilibrio psichico. Terrore e pietà, purificate dal fatto che si ha un messaggio che è ad un tempo intelliggibile e che comporta una parte di verità - di verità sull' uomo.»

  23. ^

    «Prima o poi, in quasi tute le civiltà, viene il momento del dolore. [...] L'uomo proietta sul cosmo la propria nascente aspirazione alla giustizia sociale, e quando l'eco amplificata della sua voce torna a lui dagli spazi esteriori, promettendo il castigo dei colpevoli, se ne sente rincuorato e rassicurato»

  24. ^

    «Pur ingiuste che sembrino, queste idee apparivano loro come una legge di natura, che si doveva accettare: infatti la famiglia era un'unità morale, la vita del figlio un prolungamento della vita paterna, e i debiti morali del padre si ereditavano precisamente come si ereditavano quelli pecuniari.»

  25. ^ a b c d Jean Starobinski, La spada di Aiace in Tre furori (1974), trad. it. Silvia Giacomoni, Milano: Garzanti, 1978
  26. ^

    «O figlio, possa tu essere più fortunato del padre, ma nel resto eguale: e no sarai un vile. In questo momento, una cosa almeno ho da invidiarti: che non hai coscienza alcuna di questi mali. Nel non comprendere nulla, infatti, dolcissima è la vita, finchè tu non conosca la gioia ed il dolore: Ma quando sarai giunto a questo, allora dovrai mostrare di fronte ai nemici da che padre tu nascesti qual sei.»

  27. ^

    «Ma tu, figlio mio, prenderai l'arma che ti ha dato il nome, o Eurisace.»

  28. ^ Ottavio Farci, Argia: Rito - mito - ritmo - canto
  29. ^

    «La pratica dell'altalena, spiega Ernesto De Martino, è legata all'esorcismo all'aperto, presso alberi e fonti: nell'esorcismo a domicilio si cercava di imitare lo scenario vegetale e acquatico e l'altalena si tramutava in una fune sospesa al soffitto, alla quale i tarantati si reggevano nel corso della loro danza.»

  30. ^ a b c Guido Paduano, Aiace: l'io come assoluto, tratto dal Numero Unico del XLVI Ciclo di Spettacoli Classici dedicato al Convegno di Studi “Le Ragioni della follia. La vergogna e la colpa”, 2010
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